L'opinione pubblica nazionale e l'appello al popolo: figure e campi di tensione

AutorLuigi Lacchè
Páginas455-473

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1. Un’idea di opinione pubblica, idee di costituzione

Il mio intervento propone una rapida riflessione sulle figure dell’opinione pubblica e dell’appello al popolo nel periodo dei plebisciti per l’unificazione italiana. Si tratta di “figure” retoriche, di concetti che rivelano significativi campi di tensione. Il profilo che in particolare suscita la mia attenzione non è tanto quello della “forma” plebiscito e della vicenda italiana del 1860 quanto piuttosto la dimensione costituzionale ovvero la questione dell’opinione pubblica rispetto ad almeno due temi cruciali e di vasta portata: la formazione del consenso e della volontà politica, la legittimazione costituzionale.

Del resto, il tema può essere riletto partendo da più angoli visuali. Potrei dire da quello del “dopo”, ovvero dalla “sponda” del 1911 (o più in generale del dibattito sulla formazione del Regno d’Italia e sulla sua unità costituzionale) oppure dal punto di vista del “prima”, cioè almeno dagli anni ’40 dell’Ottocento. Il “dopo” evoca in particolare quel dibattito, a predominanza “continuistica”1, che si è sviluppato a partire dalla discussione parlamentare degli anni ’80 per culminare nel 1911 (in occasione delle celebrazioni per i 50 anni della nascita del regno), “innescato” da un celebre scritto dell’internazionalista Dionisio Anzilotti2.

La discussione di inizio secolo verteva sulla qualificazione giuridica del procedimento di formazione dello Stato italiano: mero ingrandimento del Regno

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di Sardegna (tramite annessioni) o invece “fusione” tra gli Stati prima esistenti dando così vita ad una entità statale nuova?

In questa sede però ritengo più utile partire dal “prima” e quindi dai decenni che precedono, nel percorso risorgimentale, la fase dell’unificazione “plebiscitaria” del 1860.

Per cogliere il “prima” occorre probabilmente ritornare più indietro e per restare sul Continente europeo, al caso francese della crisi della monarchia assoluta di fine Settecento.

Nel corso del XVIII secolo prende forma, soprattutto nella Francia delle causes célèbres, una suggestiva figura retorica: il «tribunale dell’opinione pubblica», «un tribunale –come scrive Jacques Necker– dinanzi al quale tutti gli uomini che attirano su di sé degli sguardi sono costretti a comparire: là, l’opinione pubblica, come dall’alto di un trono, conferisce premi e corone, fa e disfa le reputazioni»3. Per il ministro del re di Francia, banchiere e uomo pubblico, l’appello all’opinione è anche un modo per cercare di riempire il vuoto minaccioso che la monarchia ha creato attorno a sé, isolandosi dalla nazione, per ridare così linfa vitale a un corpo politico indebolito4. Più che il prodotto di un’autonoma sfera pubblica borghese emergente dalla società civile, questo “tribunale”, dotato di universalità, razionalità, oggettività, segnalerebbe uno spazio nuovo di «invenzione politica»5dotato di una propria legittimità ed au-

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torità, rivelatosi alla fine incompatibile con lo spazio tradizionale “incorporato” dalla persona del sovrano.

Dell’esistenza di un’istanza del pubblico davanti alla quale comparire per essere “sottoposti” ad un “giudizio” su temi di interesse comune potremmo trovare sviluppi e applicazioni ulteriori nel corso del XIX secolo6. Ma mentre in Gran Bretagna la funzione critica procede, pur non senza gravi difficoltà (basti pensare, per esempio, al problema della libertà di stampa e della pubblicità degli atti di governo), di pari passo con l’evoluzione “pluralistica” di una funzione politico-costituzionale istituzionalizzata (circuito politico-parlamentare), in Francia la metafora essenzialmente contestativa del “tribunale” precede e surroga il dato istituzionale e si esprime nel corso del Settecento come critica del public éclairé.

Surrogato di un corpo rappresentativo –come noterà la figlia di Necker, Madame de Staël7– l’opinione pubblica è vista come una sorta di alta istanza “giudiziaria” di fronte alla quale persino i re devono rendere conto. Il ministro, uomo pubblico che governa in nome del sovrano, deve avere credito. E avere credito

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significa guadagnare fiducia. Non stupisce che il Necker banchiere/ministro utilizzi così agevolmente un lessico tipicamente “economico”, da Commercial Society. Scriverà sempre sua figlia:

il credito è dunque la vera scoperta moderna che ha legato i governi coi popoli. Il bisogno di credito obbliga i governi a rispettare la pubblica opinione; ed allo stesso modo che il commercio ha incivilito le nazioni, il credito che da esso deriva ha reso necessarie delle forme costituzionali qualsivoglia

8.

Nessun altro orientamento intellettuale sa cogliere, nell’Europa continentale, il senso più profondo della responsabilità ministeriale meglio del “gruppo di Coppet”9. Questo orientamento ha scarse possibilità di trovare ricezione in ambito italiano al momento della Restaurazione dove, a differenza della Fran-cia “costituzionalizzata” dei Borboni, la via è quella di una monarchia senza rappresentanza moderna.

E’ infatti sufficiente leggere la Monarchia nazionale rappresentativa di Romagnosi per comprendere quanto l’ideario concettuale in Italia resti lontano, al momento della Restaurazione, dalla cultura liberal-costituzionale10. L’impossibilità di configurare un percorso di sviluppo della responsabilità “politica” –nel senso constantiano del termine– è legata alle radici rivoluzionarie innervate dalla concezione napoleonica dello Stato pedagogico, istitutore del sociale, per certi versi autentica forma razionalizzata dell’assolutismo settecentesco. Quell’impossibilità è dunque legata alla centralità di una mediazione tecnocratico-amministrativa che non rompe i legami con i modelli di costruzione corporata del sociale tipici dell’antico regime. In questo contesto non si riesce a immaginare un legame politico-fiduciario tra l’esecutivo monarchico, l’opinione pubblica e le istituzioni rappresentative.

Nell’Italia della Restaurazione “senza costituzioni” il fragile e confuso costituzionalismo che vi circola in brevi interludi “dinamici” –i cosiddetti “moti risorgimentali”– non si preoccupa tanto delle forme e del problema della legittimità: la costituzione è un bene in sé, essa ha forza in quanto ideologia, è una tavola di valori che subordina i fatti alle idee. La costituzione è un punto di partenza e non un punto di arrivo. Malgrado il tentativo di radicamento delle istituzioni rappresentative, come nel caso napoletano del 1820-2111, l’esito

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fallimentare di quel biennio accentuò la diffidenza dei governi e non di rado anche la critica dei moderati verso un parlamentarismo privo di tradizioni che non fossero quelle che riconducevano agli antichi Stati. La sostanziale ineffettività delle esperienze costituzionali era lo specchio di una fragilità strutturale. Né la breve stagione della “monarchia consultiva”, a prevalente valenza politico-territoriale, né i progetti infrastatuali degli anni ’40 nel segno di un indefinito discorso “federalistico” acceleravano, negli Stati, lo sviluppo della cultura rappresentativo-parlamentare.

Gli anni ’40 si rivelarono però anni cruciali, utili per tracciare, ancora prima del ’48, una linea di confine. Le monarchie italiane senza costituzione sono –direbbe Madame de Staël– monarchie “senza credito” e quindi senza fiducia, governi che non possono «rispettare l’opinione pubblica» e collegarsi alla “nazione”. Proprio in quegli anni comincia ad emergere quella sfera pubblica –fondata sui presupposti della comunicazione sociale: la nazione dei lettori e del pubblico criticante– che funge da terreno di collegamento tra esperienze distinte ed eterogenee. Nel 1818 Ludovico di Breme, in una lettera a Sismondi, coglieva nell’ostacolo frapposto a ogni tipo di comunicazione commerciale e letteraria la vera strategia politica dei “restauratori”: l’intenzione dei Principi era di isolare i sudditi come in un arcipelago: «Voilà un sujet à traiter sous le titre Du danger des communications sociales au 19e siècle. Par un ami de l’ordre»12.

2. L’opinione pubblica (moderata) per la nazione degli Italiani

L’opinione pubblica e la nazione sono dunque le strutture decisive per collegare i soggetti negli Stati e tra gli Stati. Rispetto a questa evoluzione, non pochi intellettuali –si pensi per esempio al “secondo” Romagnosi– déracinés a par-tire dalla Restaurazione, cominciano a rappresentarsi come faiseurs d’opinion. L’ampliamento di scala, da regionale a nazionale, apre prospettive in parte inedite e si comincia a codificare un’idea di pubblico. Nel 1846, Massimo D’Azeglio, in margine ai casi di Romagna, osserva acutamente: «quando in una nazione

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tutti riconoscono giusta una cosa e la vogliono, la cosa è fatta; e in Italia il lavoro più importante per la nostra rigenerazione si può far con le mani in tasca»13.

Nel 1844 Cesare Balbo aveva invitato i governi a diventare più desiderabili per attrarre le migliori energie e per costruire una egemonia nazionale14.

Se è probabilmente vero che «Nella nostra storia preunitaria mancano tracce significative di un fenomeno socialmente diffuso come in Inghilterra, politicamente dirompente come in Francia, o precocemente concentrato sul tema della nazione come in Germania»15, la forza dell’opinione è però già una notevole conquista della fase cruciale del Risorgimento.

Massimo D’Azeglio nella sua celebre Proposta d’un programma per l’opinione nazionale italiana16costruisce la figura dell’opinione pubblica –di cui invoca il ruolo decisivo– come forza morale trasparente. E’ proprio la necessità di uscire definitivamente dalla stagione della forza materiale segnata dalle società segrete e dal loro sterile settarismo, a spingere verso mezzi capaci di...

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