La disciplina giuridica del terzo settore in Italia ed il disegno di Legge Governativo C2617 del 2014

AutorEmanuele Rossi
Páginas102-113

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Emanuele Rossi, Professore Ordinario Diritto Costituzionale, Scuola superiore Sant’Anna, Pisa, Piazza Martiri della Libertà, 33, 56127 Pisa, Italia, emanuele.rossi@sssup.it .
Articolo ricevuto: 3.10.2014. Revisione in cieco: 20.10.2014 e 21.10.2014. Data di accettazione della versione finale: 23.10.2014.
Citazione consigliata: Rossi, Emanuele. «La disciplina giuridica del Terzo settore in Italia ed il disegno di legge governativo C2617 del 2014». Revista catalana de dret públic, Num. 49 (dicembre 2014), p. 102-113, DOI: 10.2436/20.8030.01.34 .

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1 La presentazione del disegno di legge governativo e la consultazione pubblica precedente

Tra le priorità individuate dal Governo italiano in carica vi è anche la riforma della legislazione relativa a quegli enti e organizzazioni che vengono sinteticamente deiniti "Terzo settore". In data 12 maggio 2014, infatti, il Governo ha approvato delle indicazioni di massima sul tema (deinite "Linee guida per una riforma del Terzo settore")1, sulle quali ha invitato tutti gli appartenenti alla società civile ad offrire un proprio contributo di idee e suggerimenti.

A tale invito hanno risposto 1016 soggetti: prevalentemente organizzazioni di Terzo settore, delle cooperative e dei loro consorzi (42,3%), ma anche esponenti del mondo imprenditoriale proit, di organizzazioni sindacali e di ordini professionali (9,4%). Meno partecipata è stata l’adesione da parte delle amministrazioni pubbliche e delle università (soltanto il 2,6% del totale). Da tali risposte è stata predisposta una puntuale sintesi, pubblicata sul sito web del Ministero2.

Lo scopo dell’iniziativa governativa era di giungere all’adozione di "un disegno di legge delega per un complessivo riordino del Terzo settore", i cui obiettivi principali erano stati deiniti nella volontà di "costruire un nuovo Welfare partecipativo, fondato su una governance sociale allargata alla partecipazione dei singoli, dei corpi intermedi e del Terzo settore al processo decisionale e attuativo delle politiche sociali, al ine di ammodernare le modalità di organizzazione ed erogazione dei servizi del welfare, rimuovere le sperequazioni e ricomporre il rapporto tra Stato e cittadini, tra pubblico e privato, secondo principi di equità, eficienza e solidarietà sociale". Un secondo obiettivo avrebbe riguardato la valorizzazione "dello straordinario potenziale di crescita e occupazione insito nell’economia sociale e nelle attività svolte dal Terzo settore, che, a ben vedere, è l’unico comparto che negli anni della crisi ha continuato a crescere, pur mantenendosi ancora largamente al di sotto, dal punto di vista dimensionale, rispetto alle altre esperienze internazionali". Ulteriore obiettivo è l’esigenza di "premiare in modo sistematico con adeguati incentivi e strumenti di sostegno tutti i comportamenti donativi o comunque prosociali dei cittadini e delle imprese, finalizzati a generare coesione e responsabilità sociale".

Successivamente a tale consultazione, in data 22 agosto 2014 il Governo ha presentato un disegno di legge al Parlamento (C 2617), dal titolo "Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale"3. Tale disegno di legge è stato assegnato alla XII Commissione della Camera dei deputati ma al momento in cui si scrive (settembre 2014) non ne è ancora iniziato l’esame.

2 La necessità di una revisione organica della disciplina sul Terzo settore

L’idea di giungere ad una riforma complessiva della legislazione in materia è senz’altro meritoria: sia per quanto riguarda la volontà di mettere ordine nella disciplina legislativa, sia per la disponibilità ad ascoltare le varie componenti della società civile prima di procedere alla riforma.

Che vi sia necessità di riformare la legislazione in materia è convinzione diffusa da molti anni, sia per il carattere disorganico e contraddittorio delle norme esistenti4, sia per la crescente importanza che questo fenomeno è venuto ad assumere nel nostro Paese. Oltre infatti agli aspetti di solidarietà e di attenzione verso le parti più deboli della popolazione di cui gli enti del Terzo settore sono espressione, non va dimenticata l’importanza che essi sono venuti assumendo anche da un punto di vista economico in termini di contributo al PIL, come pure in termini di offerta di occupazione sempre maggiore per giovani e non solo. Come si

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legge nell’ultimo censimento predisposto dall’ente di statistica statale5, il numero di enti censiti come non proit sono 301.191, con un aumento del 28% dal 2001 al 2013; tali enti hanno alle proprie dipendenze 681.000 lavoratori (con un aumento di quasi il 40% nell’ultimo decennio), cui si devono aggiungere 271.000 la voratori esterni (questi ultimi cresciuti addirittura del 169% rispetto al 2001). Il giro di affari che tali enti muovono è stimato in circa 64 miliardi di euro di entrate e 57 miliardi di spesa. Si tratta dunque di un fenomeno imponente ed anche economicamente rilevante (si parla, utilizzando una terminologia particolarmente diffusa nell’ambito dell’Unione europea, di "economia civile"), che sembra oltretutto andare controcorrente rispetto alla depressione che colpisce il settore primario e secondario (industria e sistema pubblico). Ciò anche in quanto lo stato di sofferenza in cui si trovano i moderni sistemi di welfare impongono di far ricorso a soggetti della società civile per la garanzia di servizi essenziali per la collettività (dagli asili nido alle residenze per anziani e così via).

La crescente importanza del fenomeno non è stata tuttavia accompagnata da un’evoluzione legislativa capace di valorizzarne le potenzialità ed anche di porre freno a possibili abusi. Per questa ragione, già alcuni anni fa l’Agenzia nazionale per le Onlus (poi ribattezzata Agenzia per il Terzo settore, poco prima della sua abolizione per decreto - legge6) aveva approvato un documento contenente proposte per una "revisione organica della legislazione sul Terzo settore", sul presupposto della necessità "di razionalizzare e sempliicare l’attuale quadro normativo -costituito da una disorganica stratiicazione legislativa prodotta nel corso di ormai un ventennio- inserendo le proposte di revisione all’interno di un quadro di riferimento unitario e coerente: il Terzo settore è infatti cresciuto, si è sviluppato e differenziato nel corso di questi anni, e la legislazione è intervenuta per singoli segmenti e talvolta sovrapponendo alcune previsioni ad altre, anche con riguardo ai medesimi soggetti (si pensi ad esempio ad una cooperativa sociale che può essere anche ONLUS e, in più, impresa sociale), con la conseguenza di ingabbiare in rigidi schemi disciplinari, anziché rendere più agile e funzionale, un fenomeno ricco e complesso quale quello in questione". Per queste ragioni, l’Agenzia riteneva necessario "riconsiderare unitariamente il Terzo settore anche al ine di adeguarne la disciplina tanto alle molteplici esigenze coinvolte, talora suggerite dalla prassi e rese necessarie dall’accelerazione socio-economica veriicatasi al riguardo, quanto dalla nuova prospettiva costituzionale avviata dalla riforma del Titolo V della Carta introdotta con la legge costituzionale n. 3/2001".

3 Un presupposto: l’esigenza di deinire in via normativa la nozione di Terzo settore

In questa operazione di riordino e riformulazione della legislazione in materia, un aspetto preliminare ed essenziale è costituito dalla necessità di deinire cosa sia "Terzo settore" e, di conseguenza, di individuare criteri utili al ine di stabilire chi ne faccia legittimamente parte. Sebbene infatti siano presenti, nella normativa vigente ed anche in quella passata, numerosi riferimenti agli "enti del Terzo settore" (perlopiù in relazione a proili di trattamento più favorevole rispetto alla più ampia categoria dei soggetti collettivi come anche degli enti senza scopo di lucro; ovvero alla necessità di un coinvolgimento maggiore di tali organizzazioni nell’elaborazione e realizzazione di politiche pubbliche)7, è tuttavia sempre mancata una deinizione a livello normativo di cosa si intenda con tale espressione: tanto è vero che nel linguaggio comune spesso vengono utilizzati altri termini come fossero sinonimi. Così il Terzo settore è spesso assimilato alla categoria degli "enti non proit": ma se tutti gli enti del Terzo settore sono (o almeno dovrebbero essere) enti "senza scopo di lucro", non è detto che basti essere non proit per essere "Terzo settore". Un’associazione di commercianti, ad esempio, non ha normalmente scopo di lucro: eppure dovrebbe senz’altro essere esclusa dalla categoria del Terzo settore. Analogamente deve dirsi per i partiti politici ed i sindacati, che la legislazione sulle organizzazioni di volontariato e sulle associazioni di promozione sociale espressamente escludono come potenziali destinatari della relativa disciplina.

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Così pure, e sempre ad esempio, talvolta il Terzo settore è identiicato con il volontariato: ma anche questo è un errore evidente, perché le organizzazioni di volontariato sono una parte del Terzo settore, ma non lo esauriscono, essendo il termine in questione riferibile anche alle c.d. cooperative sociali, alle fondazioni che svolgono determinate attività, alle associazioni di promozione sociale, e così via. Per non dire poi, come meglio si speciicherà, che nella categoria generale in questione vengono anche ricomprese le imprese sociali, organizzazioni che, secondo il disegno di legge, possono anche ripartire utili tra i propri soci, e che comunque svolgono attività lucrative.

Uno dei principali obiettivi della riforma, dunque, dovrebbe essere proprio l’esigenza di deinire con suficiente chiarezza la categoria: e ciò al ine, come chiaramente espresso nelle Linee guida, di "separare il grano dal loglio, non ignorando che in questo ambito agiscono soggetti non sempre trasparenti che talvolta usufruiscono di beneici o attuano forme di concorrenza utilizzando spregiudicatamente la forma associativa per aggirare obblighi di legge". Un recente volume, che ha avuto ampia eco nel mondo di riferimento, ha denunciato con chiarezza tale situazione, ritenendo che la denominazione di Terzo settore viene oggi applicata "ad una miriade di organizzazioni e iniziative, tenute insieme solo da una ragione iscale, e nel quale attività della massima utilità sociale iniscono per essere messe insieme ad altre, ottime e piacevoli, ma che con l’interesse generale c’entrano poco"8.

Il ddl n. 2617 prova a dare una risposta a tale esigenza, sebbene manchi ancora un suficiente grado di chiarezza al riguardo. Se infatti l’art. 1 delega il Governo ad adottare "uno o più decreti legislativi recanti il riordino e la revisione organica della disciplina degli enti del Terzo settore"9, l’art. 2 dovrebbe offrire la deinizione auspicata. Uso il condizionale perché, in verità, l’art. 2 non utilizza più l’espressione "Terzo settore", ma deinisce il contenuto della delega nel senso di disciplinare "la costituzione, le forme organizzative e di amministrazione e le funzioni degli enti privati che, con finalità ideale e senza scopo di lucro, promuovono e realizzano attività di interesse generale, di valorizzazione della partecipazione e di solidarietà sociale, ovvero producono o scambiano beni o servizi di utilità sociale". Dunque, in tale formulazione, che dovrebbe costituire la deinizione di cosa debba intendersi per ente del Terzo settore, il riferimento a tale termine non compare (si parla, come si legge, genericamente di "enti privati"): malgrado ciò, potrebbe ritenersi che gli elementi deinitori che dalla formulazione sono ricavabili debbano essere riferiti proprio alla categoria degli enti del Terzo settore.

4 Gli elementi per una deinizione

Provando a prendere per buona tale ricostruzione, la deinizione dunque di cosa sia un ente di Terzo settore dovrebbe ruotare intorno a tre elementi: quello soggettivo ("chi fa"), quello oggettivo ("cosa fa") e quello finalistico (perché lo fa").

Con riguardo al primo elemento, il disegno di legge individua tale proilo con l’individuazione di enti privati e senza scopo di lucro. Con riguardo al primo aspetto, esso sembra in linea di massima corretto (gli enti pubblici non possono essere Terzo settore), sebbene qualche problema potrebbe sorgere in relazione a quelle fondazioni (dette di partecipazione) costituite da soggetti privati ed enti pubblici10. Anche la nozione di

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"senza scopo di lucro" andrebbe precisata, sia perché la legislazione vigente la declina in modo diversiicato in relazione alle diverse normative esistenti (talvolta infatti essa si limita a prevedere che detta condizione si realizza quando gli enti non distribuiscono gli eventuali utili tra i soci; altre volte prevede che in caso di scioglimento l’ente debba devolvere il proprio patrimonio ad altri enti, e così via), sia perché nel dibattito culturale sono state avanzate varie tesi alternative rispetto a quella indicata. In particolare si è avanzata l’ipotesi che con detta espressione si dovrebbe intendere l’attività non finalizzata alla massimizzazione di un proitto commerciale, pur se l’ente svolge attività produttiva. In tale ipotesi ricostruttiva "l’accento è posto sul ine (non lucrativo) e non sull’attività (che può anche essere lucrativa, purché finalizzata a uno scopo non lucrativo)", con l’invito "a qualiicare tali enti non in quanto no proit (ovvero non svolgenti alcuna attività commerciale se non in via residuale e marginale), ma in quanto non proit, vale a dire che non redistribuiscono gli utili tra gli associati, ma li destinano a uno scopo di utilità generale"11. Posizione che meriterebbe di essere problematizzata e discussa, ma che in questa sede dobbiamo limitarci a riportare al solo ine di indicare la necessità che anche su questo punto che potrebbe sembrare scontato (che gli enti del Terzo settore debbano essere senza scopo di lucro non vi sono dubbi) la necessità di un chiarimento è quanto mai necessaria. Per noi dire poi che lo stesso disegno di legge, nel delegare il governo a riformare l’impresa sociale, individua come criterio direttivo la "previsione di forme di remunerazione del capitale sociale e di ripartizione di utili nel rispetto di condizioni e limiti preissati" (corsivo aggiunto): ove dunque una ripartizione di utili è evidentemente possibile. Anche alla luce di tale contraddizione si potrebbe discutere di un tema molto dibattuto, ovvero della possibilità di ricomprendere l’impresa sociale all’interno del Terzo settore: problema non nuovo cui anche il titolo del disegno di legge in esame potrebbe offrire una risposta12.

Con riguardo invece all’aspetto oggettivo, come si è visto il disegno di legge pone un’alternativa possibile: o la promozione e realizzazione di "attività di interesse generale, di valorizzazione della partecipazione e di solidarietà sociale", ovvero la produzione e lo scambio di "beni o servizi di utilità sociale". L’ambito deinitorio è molto ampio, ed anche l’alternativa prevista sembra in grado di indicare uno spazio assai consistente: ciò che forse dovrebbe essere meglio speciicato è se detta attività debba essere preventivamente deinita nello statuto o nell’atto costitutivo, e se di conseguenza l’appartenenza dell’ente al Terzo settore possa essere veriicata in relazione alle previsioni statutarie, o se invece occorra veriicare in concreto l’attività svolta, al ine di valutare se quest’ultima sia effettivamente coerente con le previsioni di legge. In secondo luogo, va segnalato come parte della legislazione esistente deinisca in via generale gli ambiti all’interno dei quali l’attività svolta può essere deinita di interesse generale (ad esempio, la normativa in materia di Onlus contiene un elenco di attività che possono essere svolte dalle organizzazione che intendano iscriversi nella relativa anagrafe), mentre la previsione attuale potrebbe consentire che ogni ente possa deinire liberamente il proprio ambito di attività, con una successiva valutazione ad opera di soggetti esterni circa la ricomprensione di quel tipo di attività nell’ambito delle previsioni di legge.

Ma l’aspetto più problematico della potenziale deinizione di Terzo settore è costituito dalle finalità complessive proprie dell’ente, ovvero di quelle che il disegno di legge deinisce come "inalità ideali". L’importanza di tale previsione (in generale, ovvero indipendentemente dal suo contenuto) deve essere rimarcata: essa signiica infatti che non è suficiente che un ente svolga attività di interesse generale o produca beni di

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utilità sociale per poter essere considerato di Terzo settore, ma occorre che tutto ciò sia realizzato allo scopo (unico o prevalente?) di perseguire finalità ideali13. Su questo punto il dibattito è stato ed è particolarmente vivace, tra chi ritiene che sia suficiente la previsione di svolgimento di attività socialmente utili per ritenere un ente meritevole dei beneici da riconoscere al Terzo settore, e chi ritiene invece che ciò non possa essere considerato suficiente. Né va sottaciuta l’importanza dell’eventuale previsione dell’elemento finalistico, perché potrebbe accadere che la stessa attività possa essere svolta da un ente con finalità ideali e da uno senza tali finalità (si pensi ad esempio ad un’attività di asilo per l’infanzia svolto da un ente caritatevole o da un soggetto non proit che mira a dare lavoro a degli educatori; oppure si pensi ad un’attività di trasporto dei malati svolta da un’organizzazione di volontariato e da un ente che intenda offrire opportunità di impiego a propri dipendenti): la previsione in esame costringe a ritenere i primi soggetti del Terzo settore e i secondi no, sebbene l’attività svolta sia identica nei due casi.

Quanto al merito della previsione (le "inalità ideali"), sarebbe opportuna una maggiore puntualità nella deinizione: in particolare si dovrebbe chiarire se esse debbano essere intese come sinonimo delle finalità che vengono indicate dalla legislazione prevalente relativa gli enti di Terzo settore (ovvero alle "inalità di solidarietà" richieste dalla legislazione sulle organizzazioni di volontariato e dal decreto legislativo sulle Onlus) ovvero se si intenda con tale espressione qualcosa di diverso. Proili che nell’attuale disegno di legge restano non risolti.

5 Le finalità generali perseguite o perseguibili dal Terzo settore

Per approfondire l’ultimo punto indicato, occorre gettare un rapido sguardo alle finalità che il costituente prima, e le vicende di attuazione della Costituzione dopo, hanno attribuito al genus delle formazioni sociali, ed in esso alla species degli enti del Terzo settore.

Sulla base del principio generale stabilito dall’art. 2 della Costituzione, il pluralismo sociale è affermato e valorizzato in relazione alle finalità poste alle formazioni sociali di favorire la socialità della persona, il suo inserimento nel contesto sociale mediante una rete di relazioni capace di favorirne la partecipazione alla vita collettiva e -con essa- la sua piena realizzazione. A questo obiettivo ben presto se ne è afiancato un altro, meno finalizzato alla persona singola e più rivolto alla società complessivamente considerata: il contributo dato da volontà organizzate alla deinizione dell’interesse generale e quindi anche della "volontà generale", intesi quale frutto di interessi e volontà politiche mediati da livelli intermedi di sintesi e di rappresentanza. Nell’attuale fase storico-sociale, caratterizzata dall’aumento di complessità dei processi di decision-making -dovuti sia all’emergere di attori transnazionali che dal crescente peso di scelte sottratte alla politica e rimesse a soggetti tecnicamente competenti in ragione della loro specializzazione professionale-, nonché da un mutato rapporto tra i cittadini e la comunità politica (quali l’affermarsi di esigenze di speciicità di gruppi particolari all’interno del generale principio di eguaglianza, nonché all’emergere di nuove modalità di partecipazione popolare, legate sia al diffondersi di mezzi di comunicazione più liberi ed informali che alla crescente diversiicazione delle forme associative), emerge con sempre maggior forza il tema della partecipazione di soggetti collettivi ed organizzati al dibattito pubblico, in funzione di quella che viene comunemente chiamata la democrazia partecipativa. Il tema della partecipazione del Terzo settore alle politiche pubbliche si afferma in questo contesto in ragione del presupposto per cui, nei sistemi pubblici moderni, l’eficienza decisionale non possa fare a meno della partecipazione, e in forza della necessità di percorsi di partecipazione, consenso e condivisione afinché i processi di cambiamento siano effettivi e duraturi. Come noto, tale prospettiva è stata recepita anche in ambito europeo comunitario: l’art. 11 del Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, apre infatti le porte all’affermazione, in tale ambito, di una vera e propria democrazia partecipativa14.

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In tale contesto complessivo, determinante è il ruolo svolto da soggetti del pluralismo sociale tradizionalmente estranei, come si è detto, al "Terzo settore": in particolare i partiti e, in certa misura, i sindacati. E tuttavia si tratta di una partita alla quale anche il Terzo settore è coinvolto: si pensi ad esempio al possibile apporto del "volontariato di advocacy per obiettivi di etica globale", che ha avuto un vistoso inizio alla ine degli anni Novanta soprattutto a seguito della c.d. battaglia di Seattle ed ai successivi eventi del c.d. dopo Seattle15. Con il termine di advocacy si intende genericamente la funzione di promozione e tutela dei diritti svolta mediante un’azione di "inluenza" sui sistemi e le istituzioni politiche, economiche e sociali16: azione che alcune formazioni sociali, ed in particolare le organizzazioni di volontariato, hanno svolto e svolgono nell’interesse dei soggetti deboli. Tale funzione è stata concepita ed analizzata soprattutto in relazione allo spazio globale, vale a dire come azione tesa a "far prevalere l’universalità -dei diritti e dei doveri- della persona umana come libertà e corresponsabilità ben oltre il principio moderno di cittadinanza"17: ed è proprio in relazione a tale dimensione che essa è stata da più parti rilanciata. E tuttavia consistenti sono le aperture che la legislazione italiana ha già operato su questo versante, sì da far ritenere quella indicata come una funzione particolarmente rilevante nella moderna valutazione del pluralismo sociale ed in esso del Terzo settore18.

Quest’ultimo si è poi affermato, come già si è accennato, come soggetto attivo nell’erogazione di servizi alla persona: i dati sopra riportati indicano la crescente importanza del ruolo svolto dagli enti del Terzo settore nei moderni sistemi di welfare19, e perciò il loro contributo alla garanzia dei diritti sociali delle persone -in attuazione del principio di sussidiarietà che ha trovato nel novellato art. 118 della Costituzionale uno speciico riconoscimento20.

A tale ultimo riguardo può segnalarsi come la Risoluzione del Parlamento europeo del 19 febbraio 2009, nel prendere in considerazione l’"economia sociale" (termine che in ambito UE viene preferito a quello di Terzo settore), abbia sottolineato nei Considerando che "che il modello sociale europeo è fondato in particolare sulla base di servizi, beni e posti di lavoro di elevato livello creati dall’economia sociale, nonché sulle capacità di anticipazione e di innovazione sviluppate dai suoi promotori", e che "l’economia sociale rappresenta il 10% di tutte le imprese europee, vale a dire 2 milioni di imprese o il 6% dei posti di lavoro totali, e presenta un notevole potenziale in termini di generazione e mantenimento di un’occupazione stabile, dovuto soprattutto al fatto che è improbabile che tali attività, per loro natura, siano delocalizzate".

Dunque il Terzo settore è diventato parte essenziale del welfare, non solo italiano: tanto da far osservare come "i servizi sociali pubblici non sono sussidiari a quelli privati, ma si afiancano a questi, in una prospettiva di compresenza"21.

Ciò ha prodotto una crescente valorizzazione, con toni talvolta eccessivi, del principio di sussidiarietà, cui ha dato qualche anno fa impulso la proposta avanzata dal leader dei conservatori britannici Cameron di costruire una Big Society, fondata su un ruolo strategico da riconoscere ai soggetti del non proit, supportati da una ‘Big Society Bank’, costituita tramite il conferimento dei ‘fondi dormienti’ da oltre quindici anni nelle banche22.

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6 I proili regolativi del rapporto tra amministrazioni pubbliche e Terzo settore

Alla luce di quanto detto, un tema di particolare rilevanza giuridica, cui anche il disegno di legge governativo dedica speciica attenzione, è costituito dai rapporti tra Terzo settore e amministrazioni pubbliche. Aspetto, si badi, che non interessa l’universo delle attività degli enti del Terzo settore, in quanto vi è un’azione propria degli enti non proit che riguarda soltanto i rapporti tra privati: e che tuttavia non è certo secondario, specie alla luce dell’evoluzione del sistema di welfare cui sopra si è fatto cenno.

Al riguardo, e prendendo come modello prevalente l’ambito dei servizi sociali (ambito sul quale maggiore è la presenza e l’attività degli enti non proit), occorre distinguere, come è stato opportunamente fatto, tra la prospettiva di tipo "reticolare" che vede i soggetti pubblici e quelli privati erogatori posti su un piano di parità sulla base del principio di concorrenzialità, e la prospettiva "sostitutiva", in forza della quale il soggetto privato agisce al posto del soggetto pubblico nell’erogazione dei servizi alla persona23.

In relazione al primo modello, lo strumento in un primo tempo utilizzato è stato quello dell’autorizzazione, mediante cui la pubblica amministrazione abilita i soggetti privati che intendono offrire servizi sulla base di una veriica della sussistenza di determinati requisiti cui far conseguire, in caso di esito positivo, il rilascio di apposito titolo. Con tale strumento si intende perseguire un obiettivo che potremmo deinire minimale, vale a dire impedire che il soggetto che richiede la possibilità di svolgere una data attività possa, mediante essa, provocare dei danni (ai destinatari di tale attività ovvero ad altri), ovvero erogare quel servizio al di fuori di standard strutturali minimi.

Col tempo si è tuttavia veriicata l’insuficienza dello strumento autorizzatorio a vincolare in positivo (e non soltanto in negativo) l’azione dei soggetti cui venga attribuita la responsabilità dell’erogazione di determinati servizi: per questo si è introdotto -nella legislazione settoriale, in particolare regionale- lo strumento dell’accreditamento, mediante il quale vengono individuati requisiti ulteriori e più puntuali rispetto a quelli che servono per le autorizzazioni, finalizzati ad una valutazione anche in termini di qualità della struttura erogante e del servizio erogato. Esso mira infatti a migliorare la qualità delle prestazioni erogate, attraverso una selezione dei soggetti eroganti ed assicurando la libera scelta dei cittadini sul luogo di cura e sui professionisti. Nell’accreditamento, quindi, la pubblica amministrazione non è chiamata ad effettuare una scelta né tantomeno una selezione tra più soggetti: essa si limita a individuare i soggetti idonei, lasciando all’utenza la possibilità di scegliere quello a cui rivolgersi, ma al contempo garantendo il livello qualitativo dei servizi offerti dall’ente. Per tale sua conformazione l’accreditamento è considerato come il presupposto in base al quale gli enti del Terzo settore (come di tutti quelli privati in generale) sono abilitati a percepire tariffe da parte dell’ente pubblico a seguito dell’erogazione di prestazioni ritenute necessarie per rispondere a dei bisogni che devono comunque essere soddisfatti mediante un servizio pubblico.

Così conigurato, tale strumento costituisce un mezzo per la tutela dei diritti, e, soprattutto, per la loro esigibilità: elemento necessario in quanto i diritti sociali si distinguono da altri diritti garantiti dalla Costituzione anche per il fatto di essere diritti "a prestazione", ovvero per la cui soddisfazione è necessaria, da parte dell’amministrazione, l’erogazione di un servizio.

Diventare soggetto accreditato, dunque, o -meglio- acquisire l’accreditamento per il servizio che viene erogato (dato che perlopiù ad essere accreditati non sono gli enti ma i servizi resi), consente di entrare in quella "rete" di servizi che dà concreta attuazione al principio della sussidiarietà orizzontale sopra richiamato.

Su un diverso piano si pone lo strumento dell’afidamento, mediante il quale la pubblica amministrazione attribuisce a soggetti privati -e non proit in specie- il compito di erogare prestazione "al posto" dell’ente pubblico: in tal caso, dunque, il soggetto del Terzo settore si sostituisce all’ente pubblico e il fruitore del servizio, di conseguenza, non ha possibilità di scelta in ordine al soggetto erogatore delle prestazioni richieste.

In relazione invece al modello "sostitutivo" ed alle conseguenti modalità e criteri mediante cui la pubblica

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amministrazione deve individuare i soggetti cui afidare l’erogazione dei servizi, se con riguardo ai soggetti del Terzo settore in una prima fase è sembrato quello della convenzione lo strumento maggiormente idoneo a contemperare i diversi interessi in gioco (secondo quanto previsto infatti sia dalla legge sul volontariato come da quella sulle cooperative sociali), successivamente si è posto il problema, anche in relazione alla normativa comunitaria relativa alla tutela della concorrenza, di adottare strumenti maggiormente rispettosi del principio di trasparenza e di selettività. Con riguardo al contesto europeo deve ricordarsi l’importante sentenza della Corte di Giustizia del 29 novembre 200724, la quale, in relazione ad una delibera della Regione Toscana la quale aveva afidato il trasporto sanitario ad alcune organizzazioni di volontariato operanti in quel territorio mediante lo strumento della convenzione, ha ritenuto che la denominazione giuridica di un soggetto (nella specie: organizzazioni di volontariato) non fosse idonea ad individuare la disciplina applicabile in tema di contratti pubblici. Per la Corte del Lussemburgo, infatti, anche un’associazione di volontariato deve intendersi come "operatore economico", allorché sia potenzialmente idonea a svolgere un’attività materiale economicamente apprezzabile in concorrenza con altri operatori. Sempre secondo la Corte di giustizia, quando sussistono gli elementi tipici dell’attività d’impresa economicamente rilevante e dell’onerosità dell’operazione si devono applicare le regole comunitarie in tema di afidamento dei servizi (vale a dire una procedura aperta e trasparente secondo il meccanismo dell’evidenza pubblica, idoneo a garantire la piena concorrenzialità tra gli operatori economici partecipanti alla gara) e non può di conseguenza utilizzarsi lo strumento della convenzione, che impedisce la realizzazione delle procedure di evidenza pubblica.

Un tentativo di contemperare le esigenze della concorrenza con quelle proprie e peculiari dei soggetti del Terzo settore fu operato dalla legge quadro n. 328/2000, la quale all’art. 5 stabilì l’obbligo per gli enti locali di ricorrere a "forme di aggiudicazione o negoziali che consentano ai soggetti operanti nel Terzo settore la piena espressione della propria progettualità", impegnando le regioni ad adottare, previa emanazione di un atto governativo, "speciici indirizzi per regolamentare il sistema di afidamento dei servizi alla persona" alle organizzazioni non proit. Ciò in quanto la normativa applicabile alle procedure di afidamento dei servizi al Terzo settore, dovendo essere ricavata coordinando più fonti normative (leggi di settore su singoli soggetti del non proit, normativa nazionale sui contratti pubblici, disciplina comunitaria sugli appalti di servizi), ha sempre destato non poche dificoltà interpretative e creato problemi di trasparenza ed imparzialità dell’azione pubblica, oltre che di rispetto dei principi di parità di trattamento tra organizzazioni. Ciò che tuttavia merita sottolineare è l’esigenza, sancita dal legislatore del 2000, di individuare criteri che possano consentire agli enti non proit di esprimere la propria progettualità.

In attuazione della previsione legislativa fu adottato il d.p.c.m. di indirizzo del 30 marzo 2001, il quale forniva alcune direttive generali destinate sia alle regioni che direttamente ai comuni. L’obiettivo emergente già dalla legge quadro, e chiaramente ribadito in tale atto, è di promuovere un miglioramento della qualità dei servizi e di garantire una pluralità di offerta degli stessi in ogni ambito regionale, favorendo forme di aggiudicazione o negoziali che consentano al Terzo settore non soltanto di esprimere la propria capacità progettuale ed organizzativa, ma anche il coinvolgimento nella co-progettazione degli interventi e la loro consultazione nell’elaborazione delle politiche pubbliche.

Si tratta di aspetti che con la riforma del Titolo V della Costituzione e con il connesso diverso criterio di ripartizione delle competenze tra Stato e regioni (sul versante della competenza legislativa) e tra gli enti costituenti la "Repubblica" (per la competenza amministrativa), devono considerarsi in parte superati per quanto riguarda le competenze degli enti pubblici interessati, ma tutt’ora finalterati con riguardo alla loro dimensione sostanziale. Ed in tal senso merita sottolineare l’invito che con forza l’Agenzia nazionale delle ONLUS ha rivolto nel 2007 a ripensare le modalità di afidamento dei servizi da parte delle amministrazioni pubbliche: secondo l’Agenzia governativa, infatti, "il rapporto tra Terzo settore e pubblica amministrazione è uno degli argomenti di attualità di questo frangente di sviluppo del nonproit italiano, soprattutto in relazione alla capacità di acquisto della Pubblica amministrazione, che si esplica attraverso le gare d’appalto". In

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merito ad esse l’Agenzia osserva come "mentre nel consumo privato si assiste alla crescita di modalità di scelta cosiddette "etiche" o comunque in qualche modo attente al Terzo settore, nell’ambito della P.A. questo ancora non può avvenire. Mancano infatti regole amministrativo-contabili atte a tener conto di aspetti importanti e documentati che possano consentire alla P.A. di superare il principio di economicità (gare al massimo ribasso)".

7 La relazione amministrazioni pubbliche - Terzo settore nel disegno di legge di riforma

Alla luce di tali considerazioni, deve essere valutato il disegno di legge governativo di cui si discute. L’art. 2, comma 1, lett. o) indica, tra i criteri direttivi cui i decreti delegati dovranno ispirarsi, il seguente: "individuare criteri e modalità per l’afidamento agli enti25dei servizi d’interesse generale, improntati al rispetto dei requisiti minimi di qualità e impatto sociale del servizio, obiettività, trasparenza e sempliicazione". Tralasciando ogni considerazione circa la reale natura di "criterio direttivo" di quanto riportato (che sembra conigurarsi piuttosto come un oggetto della delega26), nel merito la formulazione proposta, nella sua genericità, sembra maggiormente orientata al modello sostitutivo che non a quello reticolare. L’espressione "afidamento", su cui ruota l’insieme dei principi richiamati, presuppone infatti la posizione di un soggetto che "afida" e di un altro che è il destinatario dell’"afidamento": non certo dunque un modello "reticolare" o paritario, nel quale l’ente pubblico accredita gli enti a "stare nel mercato dei servizi" e i cittadini possano scegliere a chi richiedere la prestazione. Circa il resto, la disposizione dice assai poco: due tra i criteri indicati sembrano riferiti al tipo di servizio che si deve afidare (il "rispetto dei requisiti minimi di qualità" e l’"impatto sociale del servizio"), mentre gli altri tre ("obiettività, trasparenza e sempliicazione") dovrebbero riguardare le procedure pubbliche mediante le quali realizzare l’afidamento. Ma si tratta, nell’uno come nell’altro caso, di previsioni assai generiche e peraltro già previste a livello generale (la trasparenza, l’obiettività,...), tali da non offrire alcun elemento di effettiva innovazione sul punto.

Maggiormente signiicativa mi pare invece la previsione contenuta nella prima parte della stessa lettera da ultimo richiamata, che impone ai decreti delegati di "valorizzare il ruolo degli enti nella fase di programmazione, a livello territoriale, relativa anche al sistema integrato di interventi e servizi socioassistenziali nonché di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, paesaggistico e ambientale". La previsione deve essere positivamente apprezzata perché sembra riconoscere il ruolo del Terzo settore non soltanto nella fase erogativa ma anche in quella programmatoria: e ciò costituisce senz’altro un aspetto meritorio e da salvaguardare. Ma al contempo occorre rimarcare i limiti della previsione così come formulata, che sono almeno tre.

In primo luogo, la mancata previsione di un coinvolgimento del Terzo settore anche nella fase di valutazione della programmazione, con riguardo in particolare all’attività di veriica dei risultati raggiunti: sia in relazione a dati oggettivi e numerici (ad esempio, il numero di interventi realizzati), ma soprattutto con riguardo ad elementi qualitativi, quale la valutazione degli esiti di benessere. Si tratta di una prospettiva che la legislazione dovrebbe valorizzare, coinvolgendo in essa gli enti di Terzo settore, anche al ine di dare sostanza ed effettività all’attività di programmazione, che altrimenti rischia di essere attività ricorrente e rituale, senza piena consapevolezza dei percorsi precedentemente realizzati.

In secondo luogo, deve rimarcarsi la mancata previsione, all’interno dell’elenco degli ambiti in cui il coinvolgimento del Terzo settore dovrebbe essere favorito nella fase programmatoria, di alcuni settori strategici, quali quello sanitario e quello sociosanitario, incomprensibilmente esclusi dalla previsione normativa (e non giustiicabile anche in considerazione delle attività che il Terzo settore svolge in detto ambito).

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Ed inine, deve rilevarsi il possibile conlitto della disposizione richiamata con le competenze che la Costituzione assegna alle regioni (almeno allo stato degli atti, ovvero senza considerare le possibili riforme costituzionali già approvate in prima lettura al Senato della Repubblica27): ed infatti la materia dei servizi sociali è sicuramente di spettanza regionale, e pertanto anche il tema dei coinvolgimento del Terzo settore nella programmazione delle attività ad essa riferita dovrebbe spettare alla competenza legislativa regionale.

Come visto anche in relazione ad altre parti, il disegno di legge governativo richiede un attento lavoro parlamentare di precisazione, e soprattutto sarà necessaria un’approfondita opera di elaborazione dei decreti delegati di attuazione. Molte altre parti del disegno di legge governativo appaiono confuse e contraddittorie: l’auspicio è che il futuro possa contribuire a migliorare una riforma di cui vi è certamente un grande bisogno.

[1] Il testo è qui riportato: http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/terzo_settore_linee_guida/linee_guida_terzo-settore_2014.pdf.

[2] Vedilo in: http://www.lavoro.gov.it/Notizie/Documents/Sintesi%20stampa%20Consultazione%20pubblica%20sulla%20 Riforma%20del%20Terzo%20Settore.pdf.

[3] Il documento può trovarsi al seguente indirizzo: http://www.camera.it/leg17/126?tab=&leg=17&idDocumento=2617&sede=&tipo=.

[4] Tra gli altri, v. in tal senso A. MARI, Il Terzo settore, in P. CENDON (a cura di), I diritti della persona, Torino, 2005, 123 ss.; G. TIBERI, La dimensione costituzionale del Terzo settore, in C. CITTADINO (a cura di), Dove lo Stato non arriva. Pubblica amministrazione e Terzo settore, Firenze, 2008, 26.

[5] Cfr Istat, «9° Censimento generale dell’industria e dei servizi», in http:// www.istat.it/it/censimento-industria-e-servizi.

[6] Su tali vicende sia consentito un rinvio a E. ROSSI, Fine - ingloriosa - dell’Agenzia per il Terzo settore?, in www.costituzionalismo.it, 13 febbraio 2012.

[7] Si pensi, ad esempio, all’art. 5 della legge n. 328/2000, la cui rubrica è intitolata "Ruolo del Terzo settore"; ovvero al regolamento approvato dal Governo nel gennaio 2011 (DPCM 26 gennaio 2011, n. 51), dopo una gestazione peraltro di alcuni anni, con cui l’"Agenzia per le Onlus" era stata rinominata "Agenzia per il Terzo settore": senza, come detto, che alcuna previsione normativa stabilisse cosa fosse il Terzo settore e quindi deinisse l’ambito di intervento di detta Agenzia.

[8] G. MORO, Contro il non proit, Laterza, 2014.

[9] Un elemento di scarsa chiarezza è dato dal fatto che lo stesso art. 1 prosegue indicando, quale contenuto della delega, "e delle attività che promuovono e realizzano finalità solidaristiche e d’interesse generale, anche attraverso la produzione e lo scambio di beni e servizi di utilità sociale": come se dunque tali attività fossero altro rispetto agli enti del Terzo settore, e non invece ciò che, in una auspicabile deinizione, dovrebbe caratterizzare gli enti svolgenti detta attività.

[10] Il problema della natura di tali fondazioni si è posto con riguardo alla normativa sulle Onlus (art. 10, comma 10, d. leg. n. 470/1997), che esclude la qualiica Onlus con riguardo agli "enti pubblici": in ordine a tali proili sia consentito rinviare a E. ROSSI, I soggetti esclusi dall’ambito ONLUS, con particolare riguardo alle fondazioni partecipate da enti pubblici, in Rivista Aretè, 2008, 70-102. Da segnalare, al riguardo, che l’Agenzia per le Onlus prima (delibera n. 362 del 4 ottobre 2010), e successivamente anche l’Agenzia delle entrate (Circolare n. 38/E del 1° agosto 2011), hanno riconosciuto la possibilità per enti pubblici di costituire e partecipare ad Onlus "ancorché nella compagine sociale i soggetti Onlus siano numericamente prevalenti o assumano un ruolo determinante nella deinizione degli atti di indirizzo e di gestione dell’ente Onlus". Il modello fondazione di partecipazione si è sviluppato in Italia in relazione a diversi ambiti, ed in particolare con riferimento alle fondazioni c.d. "dopo di noi", ovvero per la tutela dei diritti dei soggetti disabili: v. un’approfondita analisi della loro evoluzione in E. VIVALDI, Il Terzo settore e le risposte ai bisogni delle persone con disabilità: l’esperienza delle fondazioni di partecipazione per il "dopo di noi", in v. E. VIVALDI, Disabilità e sussidiarietà. Il dopo di noi tra regole e buone prassi, Bologna, 2012, 135 ss. Sul ruolo svolto dagli enti locali in ordine a tali fondazioni cfr. P. CARROZZA - F. BIONDI DAL MONTE, Il ruolo dell’ente locale nei servizi alla persona. Il "dopo di noi" e le fondazioni partecipate dagli enti pubblici, ivi, 173 ss.

[11] A. MAZZULLO, Ripensare la iscalità del Terzo settore: dal no proit al non proit, in Il Fisco, n. 28/2014, 2770; posizione ripresa e autorevolmente condivisa in ambito cattolico da F. OCCHETTA, L’economia civile e la riforma del Terzo settore, in Civiltà cattolica, settembre 2014, 390 ss.

[12] Analizzando infatti con i criteri del giurista il disegno di legge in questione, emerge come il titolo faccia riferimento alla "riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale", ecc.: ove la virgola di separazione (oltre che la speciica previsione) dovrebbe indicare che si tratti di due cose distinte. Peraltro, tale interpretazione è stata contestata dagli estensori materiali del disegno di legge governativo (mi riferisco in particolare al Sottosegretario Bobba), senza che ciò ovviamente risolva in via deinitiva il problema. In termini critici sulla ricomprensione dell’impresa sociale nell’ambito del Terzo settore v. P. L. CONSORTI, Introduzione a Il codice del Terzo settore, II ed., Piacenza, 2007, 37, per il quale "le imprese sociali non sono enti del Terzo settore; a meno di non arrendersi all’evidenza e ammettere il paradosso di una "conversione" di soggetti nati con una struttura adatta a conseguire uno scopo lucrativo attraverso lo svolgimento di attività economiche, che desiderino però svolgere quelle stesse attività con quella stessa struttura senza però conseguire l’utile che pure era alla base del patto associativo". Nel senso invece che la disciplina normativa introdotta dall’art. 1 del d. leg. n. 155/2006 valga a collocare l’impresa sociale nel novero del Terzo settore P. ADDIS, Dalla carità all’impresa sociale, in M. CAMPEDELLI - P. CARROZZA - L. PEPINO (a cura di), Diritto di welfare, Bologna, 2010, 357.

[13] Sembra da un lato condividere tale impostazione G. TIBERI, La dimensione costituzionale del Terzo settore, cit., 38, quando afferma che "non è la forma giuridica, quanto la finalità dell’attività svolta a determinare l’inclusione o l’esclusione di un soggetto nel Terzo settore"; peraltro, la stessa A. sembra ritenere che la finalità sia identiicabile con le attività svolte, quando afferma che la deinizione di ente del Terzo settore dovrebbe essere data dall’essere enti privati senza scopo di lucro e che svolgono attività socialmente rilevanti (pag. 28).

[14] L. JAHIER, La dimensione europea del Terzo settore: situazione attuale e prospettive per il futuro, in S ZAMAGNI (cur.), Libro bianco sul Terzo settore. Bologna, 2011, 417. Sul tema della democrazia partecipativa o deliberativa consistente è la letteratura, soprattutto negli ultimi anni: cfr., tra i più recenti contributi U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa. Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Firenze; 2010; M. PICCHI, Il diritto di partecipazione, Milano, 2012; M. DELLA MORTE, Rappresentanza vs. partecipazione? L’equilibrio costituzionale e la sua crisi, Milano, 2012; A. FLORIDIA La democrazia deliberativa: teorie, processi e sistemi, Roma, 2013.

[15] A. ARDIGO’, Volontariati e globalizzazione, Bologna, 2001.

[16] G. MORO, Volontariato, advocacy e cittadinanza attiva, in Impresa sociale, n. 4/2009, 208 ss., ed ivi ulteriori riferimenti.

[17] P. P. DONATI, La cittadinanza societaria, Roma-Bari, 2000.

[18] Sia consentito rinviare, sul punto, a E. ROSSI, La funzione di advocacy per la tutela dei diritti della persona, in M. CAMPEDELLI - P. CARROZZA (cur.), Innovazioni nel welfare e nuovo patrocinio, Bologna, 2009, 183 ss.

[19] Cfr., fra gli altri, E. STRADELLA, Welfare e Terzo settore: un rapporto biunivoco?, in M. CAMPEDELLI - P. CARROZZA - L. PEPINO (a cura di), Diritto di welfare, cit., 361 ss.

[20] Su tale principio v., tra i molti contributi, M. ARMANNO, Il principio costituzionale di sussidiarietà, Torino, 2010, che ne affronta l’aspetto c.d. "verticale", ma che ne offre una lettura generale come finalizzato a introdurre strumenti rafforzati di limitazione del potere (ivi, 18-19); G. ARENA, Cittadini Attivi, Roma - Bari, 2006; D. D’ALESSANDRO, Sussidiarietà, solidarietà e azione amministrativa, Milano, 2004; A. ALBANESE, Il principio di sussidiarietà orizzontale: autonomia sociale e compiti pubblici, in Diritto pubblico, 1/2002, 51 ss.

[21] C. BASSU, Esternalizzazioni, afidamenti e sussidiarietà orizzontale, in D. DONATO - A. PACI (a cura di), Sussidiarietà e concorrenza, Bologna, 2010, 99.

[22] Sulle possibile ricadute di tale piano in ordine al modello di welfare v., da ultimo, U. ASCOLI, Il Volontariato fra ‘primo’ e ‘secondo’ welfare, in E. ROSSI (a cura di). Organizzazioni di volontariato e attività commerciali e produttive, Padova, 2012, 9 ss.

[23] Su tale distinzione e sulle conseguenze di essa in ordine agli strumenti giuridici previsti v., da ultimo, E. FREDIANI, Pubblica amministrazione e Terzo settore: un quadro d’insieme sugli strumenti giuridici per la creazione di una "rete" pubblico-privata, in Rivista Aretè, n. 1/2011, 11 ss.; nonché, in precedenza, A. ALBANESE, Diritto all’assistenza e servizi sociali. Intervento pubblico e attività dei privati, Milano, 2007, 197 ss.

[24] Corte di Giustizia delle Comunità europee, sentenza 29 novembre 2007, in causa C-119/2006, commentata da A. ALBANESE, L’afidamento dei servizi socio-sanitari alle organizzazioni di volontariato e il diritto comunitario: la Corte di Giustizia manda un monito agli enti pubblici italiani, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2008, 1453 ss.; e da M. MATTALIA, Convenzionamento diretto o procedure concorsuali nell’afidamento del servizio di trasporto sanitario, in Foro amm. (Cons. Stato), 2008, 1984 ss. Sulla concezione e sull’attuazione del principio di sussidiarietà nel contesto dell’ordinamento dell’Unione europea v. F. GIGLIONI, Alla ricerca della sussidiarietà orizzontale in Europa, in D. DONATI - A. PACI, Sussidiarietà e concorrenza, cit., 131 ss.

[25] Si noti come qui, ed anche nell’altra parte della previsione di cui subito si dirà, vi è il generico riferimento agli "enti", senza speciicare se si intendano quelli "del Terzo settore" o anche altri. Se da un lato ciò è ulteriore indizio della scarsa chiarezza sul punto del disegno di legge, tuttavia ci si può augurare che tale generico riferimento venga chiarito nei lavori parlamentari o almeno nella redazione dei decreti delegati.

[26] L’art. 76 della Costituzione italiana stabilisce che l’esercizio della funzione legislativa può essere delegato al Governo "con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per (...) oggetti deiniti": in sostanza, occorre che la legge di delega deinisca distintamente l’oggetto della delega (cosa disciplinare) e i principi e i criteri cui il Governo dovrà attenersi (come disciplinare).

[27] Il riferimento è al disegno di legge costituzionale n. 1429, approvato dal Senato della Repubblica in data 8 agosto 2014, ed attualmente all’esame della Camera dei deputati. Tale proposta mira, tra le altre cose, a rivedere il riparto delle competenze tra Stato e regioni, con un forte accentramento delle competenze in capo allo Stato (come rilevato, fra gli altri, da U. DE SIERVO, Il regionalismo in alcune disposizioni del disegno di legge di revisione costituzionale n. 1429, in www.osservatoriosullefonti.it , n. 2/2014).

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