Storia giuridica: immagini a confronto

AutorPietro Costa
Páginas71-94

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1. La dimensione ermeneutica della storiografia

La storiografia otto-novecentesca (la storiografia giuridica non meno della storiografia «generale»), se si è sviluppata come disciplina specialistica, impegnata in minuziose ricerche documentarie e disposta a rinunciare alle grandi domande filosofiche sul senso del divenire storico, non per questo si è risolta in una (peraltro impossibile) operazione culturale «priva di presupposti»: non ha quindi evitato di ricorrere a filosofie o teorie generali della società e di dipendere in qualche misura da esse, salvo assumere differenti strategie nei loro confronti, volta a volta di esplicita e critica tematizzazione o di implicita e sottaciuta adozione.

E' nell'orizzonte di una visione globale della società che lo storico ha spesso e volentieri concepito e praticato il suo «mestiere». Le filosofie sociali complessive fornivano allo storico due importanti strumenti di orientamento: da un lato, gli offrivano un repertorio lessicale e concettuale impiegabile nel lavoro di rilevazione, sistemazione, narrazione dei dati; dall'altro lato, e corrispettivamente, assegnavano alla sua disciplina una precisa ubicazione nella mappa del sapere, legittimandola come componente essenziale di una complessiva «enciclopedia».

Grazie alla mappa fornita dall'una o dall'altra filosofia sociale lo storico aveva la sensazione di avanzare su un terreno che poteva essere difficile ed aspro ma appariva comunque saldo e stabile: lo storico sapeva chi era, che cosa ci si aspettava da lui, quale conoscenza poteva ritenersi in grado di fornire. In questa cornice in qualche modo rassicurante si svolgeva, certo, l'avventura della ricerca «sul campo», i cui risultati non potevano in realtà essere rigidamente predeterminati (nel contenuto e nella qualità) dai «pregiudizi» volta a volta condivisi: qualiPage 72 che fossero i risultati della concreta ricerca, però, il metodo, l'oggetto, l'identità insomma, della storiografia erano chiaramente segnati dall'iscrizione della ricerca nell'orizzonte teorico prescelto. La storiografia traeva la sua legittimazione dal fatto di essere concepita come un capitolo di quello che vorrei chiamare un «grande racconto»: un discorso globale sull'uomo e i suoi rapporti intersoggettivi. E' in esso che la storiografia trovava la sua collocazione, la sua destinazione di senso, contribuendo al suo svolgimento e insieme dipendendo da esso.

Erano a disposizione della storiografia, naturalmente, non un unico, indiscutibile «grande racconto», ma diversi schemi teorici nei riguardi dei quali occorreva operare (implicitamente o esplicitamente) una scelta. Il positivismo tardo-ottocentesco, il neo-idealismo, il marxismo, si offrivano alla storiografia, per così dire, come carte geografiche a larga scala, fra loro concorrenti, ciascuna delle quali prometteva di fornire un orientamento sicuro per la dislocazione generale delle terre incognite nelle quali poi lo storico avrebbe intrapreso i suoi minuziosi viaggi di ricognizione.

La cultura dell'Ottocento e di gran parte del Novecento è stata il teatro di un impegnativo confronto fra «grandi teorie», di una «lotta fra giganti» che si è svolta con alterne fortune e che ha occupato lo scenario ideologico degli ultimi centocinquanta anni. Siamo così passati dall'egemonia positivistica alle fortune idealistiche che, almeno in Italia, hanno tenuto campo fino al secondo dopoguerra, quando si è venuto diffondendo il marxismo, fino ad allora certo presente sulla scena, ma in posizione relativamente più periferica.

Fra i «grandi racconti», è il marxismo che probabilmente ha mantenuto fino al nostri giorni, più degli altri vecchi concorrenti, il fascino di una comprensione teorica «globale» della realtà sociale. Ma appunto anche questo «grande racconto» è entrato, in anni recenti, in una crisi significativa: una crisi che certo non è la prima, nel suo più che centenario percorso, ma che è comunque particolarmente rilevante, legata probabilmente non solo (come si è troppo ripetuto) al mutamento degli scenari internazionali, ma anche alla percezione dell'impotenza, non solo pragmatica, ma anche «diagnostica», della teoria di fronte alla complessità della realtà. E' una crisi insomma sulla quale pesa una diffusa, e crescente, diffidenza verso i «grandi racconti» onniesplicativi -e da questo punto di vista la storiografia, se solo si pensa alla vicenda di «Les Annales», ha per così dire giocato d'anticipo.

Oggi, ben oltre la prima e la seconda generazione delle «Annales», la frantumazione «minimalista» dei «grandi racconti» in numerosi microcosmi conoscitivi è indubbiamente una cifra caratteristica dello scorcio del nostro secolo. E' la tenuta delle visioni generali, l'attendibilità delle carte geografiche a scala planetaria, che oggi sembra subire una crisi radicale. Certo, possiamo facilmente riconoscere nei «grandi racconti» il fascino della coerenza, della globalità, del corag-Page 73gio teorico. Nello stesso tempo, però, cresce la sensazione che le filosofie sociali complessive promettano troppo rispetto a quelle che oggi sembrano le aspettative più ragionevoli. I «grandi racconti» sono in fondo, pur nelle più recenti e sofisticate versioni, ancora retaggi dell'ottimismo «progressivo» dell'Ottocento, portatori di un'epistemologia che il sofisticato dibattito contemporaneo induce a percepire come «ingenua».

Uno dei punti di distacco dalla grande tradizione otto-novecentesca (vogliamo dire uno dei punti di emersione della sensibilità post-modema1?) è la problematizzazione del rapporto fra soggetto e realtà. Nel conflitto fra le grandi teorie rivali, la posta in gioco era la «presa» di una realtà storico-sociale che si dava comunque per afferrabile univocamente: si contendeva su tutto (sull'oggetto, sul metodo, sulle rappresentazioni sostantive), ma si condivideva in sostanza un qualche ottimismo sull'esito dell'impresa. E' invece proprio lo statuto dell'operazione conoscitiva che appare oggi più complesso e sfuggente, come se l'idea di una percezione (relativamente) univoca della realtà fosse stata sostituita dal senso di un complicato e sostanzialmente interminabile gioco di specchi e di prospettive intrecciate.

E' nel varco aperto dalla percezione della problematicità caratteristica di ogni impresa conoscitiva che si è introdotta con grande forza di suggestione la possibilità di valorizzare la dimensione ermeneutica della storiografia.

Non solo per le scienze sociali, ma anche per le scienze fisico-naturali, la possibilità di una descrizione «pura» della realtà, l'impiegabilità delle categorie (originariamente positivistiche) di «fatto» e di «osservazione», sono state energicamente revocate in dubbio nell'ambito del più recente dibattito epistemologico 2. Fatti e osservazione; la realtà, da un lato, e lo scienziato come impassibile e metodico osservatore di essa, dall'altro lato: questo schema, semplice e netto, familiare all'epistemologia delle scienze della natura e trasformato dal positivismo ottocentesco (ma anche dalle rivisitazioni novecentesche di esso) nel contrassegno di ogni possibile conoscenza che volesse dirsi «scientifica», sembra ormai entrato in una crisi radicale anche là dove esso era nato, nell'ambito delle scienze fisico-naturali.

E' proprio nel dibattito epistemologico generale che la crisi del neopositivismo ha indotto a dubitare del paradigma scientista nei suoi assunti principali. E si osserva allora che non esiste, per nessuno scienziato, un'osservazione «pura» del fatto: l'osservazione è necessariamente «sovraccarica di teoria»; lo scienziato non registra passivamente i fatti, ma li seleziona, li ordina, li «costruisce»:Page 74 insomma li intende a partire dalla sua specifica formazione culturale e professionale. Non è possibile cogliere 1 fatti nella loro nuda oggettività, ma è inevitabile percepirli attraverso la mediazione della cultura, del linguaggio, del sapere pro-pri dell'ambiente storico e del ceto professionale al quali si appartiene.

Se poi volgiamo lo sguardo dall'epistemologia generale all'epistemologia delle scienze umane, il paradigma positivistico appare a maggior ragione compromesso. In esse infatti interviene un altro elemento: non solo l'osservazione del fatto è un processo complicato e mediato dal linguaggio, dalle teorie, dalla cultura del soggetto, come nelle scienze della natura; ma non esiste proprio, per il cultore delle scienze umane, la possibilità di una semplice, asettica «osservazione». Come è stato spesso sottolineato, lo scienziato della società è, insieme, osservatore ed attore: non è «fuori» dall'oggetto osservato, ma è «dentro» di esso, coinvolto in un processo che la sua stessa attività di «osservatore» contribuisce a modificare. E' dunque il concetto stesso di osservazione ad apparire inadeguato, è l'idea di un soggetto che si rende puro specchio di una realtà già data che non sembra rendere giustizia alla complessità del processo conoscitivo.

Vi è infine un ultimo, banalissimo ma non trascurabile, argomento, che ci interessa in modo particolare perché riguarda specificamente il sapere storiografico. Non voglio azzardare alcuna impegnativa definizione; ma credo di poter dire che il sapere storiografico, nella convenzionale divisione dei compiti all'interno della corrente «enciclopedia del sapere», è individuato primariamente da una connotazione temporale: il sapere storiografico è un sapere rivolto al passato, la realtà di cui lo storico si vuole esperto è una realtà trascorsa: una realtà che era, ma che non è più; e allo storico si chiede appunto che riesca a ri-costituire la realtà scomparsa, a ricrearla nel racconto. E allora: l'operazione intellettuale propria della storiografia non può, per definizione, essere riportata alla categoria «osservazione del fatto»...

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