La reforma del sistema autonómico italiano

AutorMarco Olivetti
Cargo del AutorProfessore ordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell?Università di Foggia
Páginas47-111

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Premessa

Questo studio si propone di illustrare criticamente - ma con scopo anzitutto informativo - le riforme della Costituzione e degli statuti regionali realizzate in Italia negli ultimi anni o attualmente in discussione, al fine di offrire elementi per una comparazione con le riforme oggi discusse in Spagna (riforma degli statuti delle Comunità autonome e riforme costituzionali relative alla forma di Stato). Per questo motivo il presente lavoro si articolerà in due parti, nettamente distinte fra loro: nella prima parte verranno illustrate sinteticamente le riforme costituzionali realizzate in Italia nel 1999-2001, il contesto storico in cui hanno visto la luce, la loro problematica attuazione e i progetti di ulteriore riforma discussi nella attuale legislatura. Nella seconda parte, si focalizzerà l’attenzione sulla riforma degli statuti regionali. Il lettore spagnolo potrà agevolmente constatare che, malgrado che sia in Italia, sia in Spagna si discuta oggi di riforma della Costituzione e di riforma degli statuti, ben diverso è il modo in cui le questioni si pongono nei due ordinamenti, in ciascuno degli ambiti ora indicati.

I Parte prima - le riforme costituzionali in materia di autonomie
I 1. Le premesse storiche delle recenti riforme costituzionali

Fra il 1999 ed il 2001 tre importanti leggi costituzionali hanno ridisegnato il volto dello Stato regionale italiano. A seguito di esse, la disciplina formal-mente costituzionale che costituisce il quadro entro il quale le istituzioni e le procedure del regionalismo - e più in generale del sistema delle auto-nomie - possono svilupparsi, risulta ormai del tutto modificata rispetto a quella contenuta nel testo originario della Costituzione del 1947, che era rimasta immutata per mezzo secolo1. Con la legge cost. n. 3/2001, in altre parole, è iniziato quello che ironicamente è stato definito il "Big Bang" del

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regionalismo italiano2. E l’importanza della riforma si misura appieno se si considera che - a differenza di quanto accade nelle più consolidate esperienze federali europee3, il sistema regionale italiano (similmente, da questo punto di vista, a quello spagnolo), si era sviluppato per oltre mezzo secolo, "a Costituzione invariata", ovvero nella costanza dell’assetto costituzionale formale.

Naturalmente, sotto la "crosta" della legislazione costituzionale invariata, il regionalismo italiano non aveva mai cessato di evolversi. Dapprima, esso era stato caratterizzato da una attuazione parziale del disegno costituzionale, in virtù della quale solo le Regioni a statuto speciale avevano iniziato a funzionare all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana4. Poi, dopo il 1970, la regionalizzazione era stata estesa a tutto il territorio nazionale, con la concreta istituzione delle Regioni ordinarie5. I trasferimenti di funzioni dallo Stato alle Regioni6avevano occupato buona parte degli anni settanta7, e solo alla fine di quel decennio il regionalismo "reale" era entrato del tutto a regime, e se ne era potuta valutare l’effettiva funzionalità.

Tuttavia il regionalismo "reale" aveva deluso le speranze di coloro che vi avevano visto una via per la riforma complessiva dello Stato italiano. Gli anni ottanta del secolo scorso rappresentano il periodo-chiave nel quale matura il fallimento della regionalizzazione: si tratta di una fase non ancora studiata dagli storici, e non adeguatamente valutata dai costituzionalisti per capire le vicende successive. E’ nel corso di questo decennio che si consolida un modello di Regione (e più in generale delle autonomie locali) che si allontana definitivamente sia dalle aspirazioni innovatrici della

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Costituzione del 1947, sia dal "figurino" di Regione da essa desumibile, portando a compimento alcune tendenze che erano già emerse nei periodi precedenti (quello del regionalismo solo speciale e quello della attuazione delle Regioni ordinarie). Il dato di fondo appare evidente: l’Italia non smette di essere, nel momento in cui la regionalizzazione va a regime, uno Stato accentrato. Anche quando - con il d.p.r. n. 616/1977 - le Regioni conquistano competenze su materie diverse da quelle loro attribuite dalla Costituzione, esse rimangono enti la cui autonomia (politica, legislativa, amministrativa, finanziaria) non riesce ad avvicinarsi ai livelli qualitativi che caratterizzano le forme più avanzate di Stato composto presenti sul continente europeo (tedesca e svizzera, per citare le più antiche, ma anche belga e spagnola, per menzionare gli Stati politicamente decentrati che si consolidano proprio in quegli anni ottanta su cui stiamo ragionando).

Volendo sintetizzare, si può ricordare che:

  1. non maturano sistemi politici regionali autonomi rispetto a quello statale, sia perchè non si consolidano partiti politici autonomisti8, sia perchè i partiti statali conservano una struttura centralizzata, nella quale la fase regionale del cursus honorum della classe politica rimane un passaggio di rilievo minore;

  2. la legislazione regionale - pur anticipando su alcuni temi scelte poi consolidatesi a livello statale - non assume, in media, lo status qualitativo che il costituzionalismo è solito riconnettere al nomen iuris "legge", ovvero ad un atto normativo che incorpora scelte politiche di rilievo per la comunità dei governati: e ciò sia per l’interpretazione estensiva dei limiti statali alla competenza legislativa regionale (soprattutto a quella di tipo concorrente), sia per la scarsa capacità di elaborazione delle classi politiche regionali;

  3. l’amministrazione regionale - posta sotto tutela statale mediante la funzione di indirizzo e coordinamento9- si assesta su livelli qualitativi che lasciano profondamente a desiderare; non emerge quel nuovo modo di amministrare che i fautori delle Regioni in Assemblea costituente avevano sognato; le amministrazioni regionali - in genere copia sbiadita di quelle statali - diventano, soprattutto nelle Regioni del Sud, uno strumento del clientelismo politico più che un volano per guidare la modernizzazione dei territori amministrati; la loro capacità di gestione si rivela bassa, come dimostrano i dati sulla utilizzazione dei fondi comunitari10;

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  4. la finanza regionale rimane una finanza derivata, nella quale sia il quantum delle risorse, sia il quomodo della loro utilizzazione sono predeterminati dallo Stato centrale;

  5. la Corte costituzionale appoggia in tutto questo periodo le tendenze centraliste della legislazione e dell’amministrazione statale, contribuendo in tal modo a consolidare la decostituzionalizzazione del riparto di competenze legislative, amministrative e finanziarie.

    Questo complesso di dati spiega perchè le Regioni non riescano a diventare un punto di riferimento significativo per i cittadini italiani che vivono sul loro territorio: le elezioni regionali si configurano più come elezioni statali di medio termine che come momento di emersione di un indirizzo politico regionale autonomo; la democrazia partecipativa - pur molto enfatizzata dagli statuti regionali del 1971 - rimane sulla carta; non maturano, se non in maniera debole, opinioni pubbliche regionali; il senso di identità delle comunità territoriali non trova nell’ente Regione un punto di riferimento credibile.

I 2. Verso le riforme costituzionali: gli anni novanta

Anche per queste ragioni, quando, all’inizio degli anni novanta, il sistema politico italiano entra in una grave crisi e viene rapidamente travolto fra il 1992 ed il 199411, le Regioni sono una parte del...

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