Prospettive per una Legge Organica di tutela delle lingue minori in Provincia di Trento

AutorFabio Chiocchetti
CargoDirettore dell’Istitut Cultural Ladin “majon di fascegn”
Páginas97-123

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Introduzione

La Provincia Autonoma di Trento1, insieme alla Provincia Autonoma di Bolzano / Bozen, costituisce oggi la Regione Autonoma Trentino – Alto Adige / Südtirol, territorio appartenuto fino al 1918 all’Impero Austro-Ungarico, nel quadro della storica Contea Principesca del Tirolo. Mentre la porzione settentrionale e orientale del vecchio Tirolo sono tuttora parte della Repubblica federale austriaca (Bundesland Tirol, capoluogo: Innsbruck; Bundesland Osttirol, capoluogo: Lienz), la parte a sud del Brennero venne annessa allo Stato italiano in seguito all’esito della Prima Guerra mondiale, a dispetto del fatto che fosse abitata in larga misura da popolazioni di lingua tedesca.

Dopo il periodo fascista, durante il quale le comunità di lingua tedesca e ladina furono sottoposte ad una pesante politica di assimilazione forzata, la Regione fu oggetto di intense trattative tra lo Stato italiano e le Potenze vincitrici, le quali finirono bensì per confermare la sua appartenenza all’Italia ma nello stesso tempo concordarono la concessione di una “autonomia speciale” per quei territori, garantita a livello internazionale. Il cosiddetto “Patto De Gasperi – Gruber” (dal nome dei firmatari, esponenti dei governi italiano e austriaco allora in carica) sanciva un particolare regime di autonomia a tutela delle popolazione “alloglotte”, ossia sostanzialmente quelle di ceppo germanico, del quale tuttavia venivano a godere tutti i cit-Page 98tadini delle province annesse all’Italia nel 1918: e questo per garantire in futuro il rispetto delle diversità, lo sviluppo di pacifici rapporti di convivenza tra i gruppi etnico-linguistici e di conseguenza la “normalizzazione” delle relazioni tra i due stati confinanti.

Benché rivolta essenzialmente a tutelare l’identità della popolazione di lingua tedesca (maggioritaria nell’odierna provincia di Bolzano), l’estensione dell’autonomia speciale all’intero territorio regionale si giustificava in virtù del fatto che le “nuove province” condividevano una storia secolare caratterizzata da speciali prerogative di autogoverno, da particolari forme di amministrazione dei beni comuni, da una razionale gestione del territorio (si pensi ad esempio al “catasto teresiano”) e in fin dei conti dalla millenaria pacifica convivenza tra popolazioni di lingua diversa che solo i nazionalismi di stampo ottocentesco avevano incrinato.

Il vecchio Tirolo costituiva infatti fin da tempi antichi una formazione sociale fondamentalmente multilingue e pluriculturale, i cui elementi di diversità erano in passato molto più diffusi e diluiti su tutto il territorio: la stessa città di Trento nel medioevo comprendeva interi quartieri abitati da popolazione di lingua tedesca, mentre di stirpe tedesca furono numerosi Principi-Vescovi che governarono la Diocesi e il Principato tridentino, il quale tra l’altro estendeva i propri domini fino a Bolzano ed oltre.

Di questa situazione storica erano (e sono) vivente trestimonianza le due comunità germanofone tuttora incluse nel territorio trentino: i Mòcheni, insediati nella Valle del Fèrsina (Bersntol, ca. 1000 parlanti, con i comuni di Palù del Fersina [Palae em Bersntol], Fierozzo [Vlarötz] e Frassilongo [Garait]) e i Cimbri del comune di Luserna (Lusérn, ca. 300 parlanti), residuo per l’appunto di una più vasta colonizzazione medievale degli altipiani di Lavarone-Folgaria (Trento), di Asiago (Vicenza) e della Lessinia (Verona), operata dai signori feudali di stirpe tedesca attingendo per lo più a manodopera d’oltralpe2.

Di queste popolazioni, tuttavia, non si faceva riferimento esplicito negli accordi internazionali che stanno alla base dell’autonimia speciale del Trentino – Südtirol, e allo stesso modo anche la comunità di lingua ladina — nonostante ripetute proteste e petizioni popolari — venne sostanzialmente ignorata. Venne ignorata in modo particolare la richiesta, ribadita da 3000 ladini radunatisi nel 1946 al Passo Sella, di riunire nuovamente nella stessa regione i territori ladini che nel 1923 erano statiPage 99 divisi dal regime fascista in tre distinte circoscrizioni amministrative: la Val di Fassa (Fascia) con Trento, le valli di Gardena (Gherdëina), Badia e Marebbe (Badia y Mareo) con Bolzano, ed i comuni di Livinallongo (Fodom), Colle Santa Lucia (Col) e Cortina d’Ampezzo (Ampez) con Belluno, Regione Veneto3.

Nel corso degli anni, nel quadro delle prerogative concesse ai territori di Trento e Bolzano con lo Statuto Speciale di Autonomia (1948) e sulla base del principio ivi sancito della “parità di diritti ai cittadini, qualunque fosse il gruppo linguistico di appartenenza”, furono messe in atto disposizioni legislative particolari anche a tutela dei ladini inclusi entro i confini della regione Trentino – Südtirol, pur in forme fortemente differenziate, mentre privi di riconoscimento giuridico restarono per anni (fino a tempi recenti) i ladini aggregati alla Regione Veneto.

Il testo che segue, rielaborazione di un intervento tenuto al Seminario “Nuovi strumenti per la tutela e la promozione delle lingue minori” organizzato dal Servizio per la Promozione delle Minoranze storiche del Trentino (Trento, 24 maggio 2007), descrive il complesso percorso di formazione dell’attuale quadro giuridico a tutela delle comunità di lingua minoritaria nella Provincia di Trento ed analizza, anche attraverso il confronto con la legislazione vigente nella vicina Provincia Autonoma di Bolzano, i nodi problematici o irrisolti che ancora oggi ostacolano un pieno sviluppo di una politica linguistica in favore delle lingue minori, e questo nella prospettiva — annunciata dal Governo Provinciale — dell’elaborazione di una “legge organica” vòlta a riordinare e razionalizzare le disposizioni vigenti e potenziarne l’efficacia.

Alcune premesse

Le riflessioni che seguiranno, vòlte ad introdurre un momento di confronto tecnico-giuridico sugli strumenti legislativi in atto presso diverse comunità linguistiche, richiedono alcune premesse che ritengo utili non solo per inquadrare meglio i risvolti locali della questione in favore dei nostri interlocutori catalani e friulani, ma anche per mettere a disposizione dei diversi esperti ed esponenti istituzionale qui presenti una serie di riferimenti che, se condivisi, potranno facilitare in qualche modo la discussione ed il futuro lavoro.

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La prima premessa è la seguente: il mio ragionamento si svilupperà sul terreno politico-giuridico “come se” a monte, sul versante sociale, vi sia presso le minoranze interessate un “animus comunitario” (per dirla alla Pizzorusso) che esprima ancora una forte soggettività, ossia la rivendicazione di uno status giuridico differenziato in virtù del fatto di possedere una lingua distinta da quella nazionale. L’esistenza di una simile “coscienza linguistica”, quantomeno presso i ladini, oggi a mio parere non è più così scontata come in passato [Chiocchetti 2006]. Remora pesante, questione controversa, che però non possiamo ignorare e che ci dovrebbe indurre a sviluppare ulteriori e approfondite analisi anche su questo fronte: gli strumenti non mancano, a cominciare dalla recente ed accurata inchiesta sociolinguistica Survey Ladins [Jannàccaro-Dell’Aquila 2006]. E questo poiché — come in passato ci suggerivano ripetutamente gli esperti — la legislazione in materia di diritti linguistici non dovrebbe prescrivere nulla più di quanto una comunità richiede, mentre tutto quello che sopravanza rischia di tramutarsi in un boomerang destinato a rivoltarsi contro la lingua stessa.

Ho la sensazione che nel nostro caso la storia ci abbia più volte portati a superare questo limite, ed ora i nodi vengono al pettine. Ciò nonostante in questa sede sarà d’uopo occuparci in prima istanza della legislazione così come si è venuta a configurare nel corso degli anni, anche se nel prefigurare interventi migliorativi non sarà fuori luogo tener fermo un pensiero circa la “sopportabilità” delle norme linguistiche in termini di costi sociali.

In secondo luogo, diamo per scontata e nota l’assenza, nella nostra area di riferimento, di un’entità istituzionale coincidente con una comunità linguistica particolare che ne sappia esprimere i bisogni in modo diretto, per quanto mediato dalla politica, come sarebbe il caso del Friuli se non fosse per la questione di Trieste. Nel nostro caso, dovendoci riferire alla dimensione provinciale, constatiamo che la Provincia Autonoma di Trento è espressione di una comunità sostanzialmente “italofona”, che include al suo interno due minoranze germanofone e un brandello della comunità ladina. Diverso il caso della vicina Provincia di Bolzano, espressione storica in primo luogo della popolazione sudtirolese di lingua tedesca, alla cui tutela risulta in qualche modo associata anche la popolazione di lingua ladina, ovvero un altro brandello di “Ladinia” [Hilpold – Perathoner 2006].

Non è questo il luogo per discutere su come nel passato e nel presente i rispettivi governi di Trento e di Bolzano si siano rapportati alle (altre) minoranze presenti nei rispettivi territori: è certo tuttavia che la legislazione in materia linguistica elaborata nel corso dei decenni nelle due Province Au-Page 101tonome è specchio anche di questa diversità di fondo e della diversa sensibilità sviluppatasi in ciascuna nei confronti delle questioni minoritarie. Ciò nonostante, resta comune la subalternità che ha caratterizzato la comunità ladina (a maggior ragione quelle germanofone del Trentino) all’interno degli ambiti politico-istituzionali di riferimento, nonché la sua difficoltà (per non dire impossibilità) di rappresentare unitariamente i propri bisogni e le proprie aspirazioni.

Data la separatezza pressoché integrale degli attuali ordinamenti delle due Province Autonome, anche lo scenario di un possibile riordino normativo si limiterà necessariamente alla dimensione provinciale, essendo tra l’altro minime e residue le prerogative spettanti oggi alla Regione Trentino – Alto Adige (dalla quale peraltro sono esclusi — fino a nuovi ordini — i ladini di Livinallongo, Colle S. Lucia e Ampezzo).

Non sarà fuori luogo tuttavia tener presente nella discussione il quadro regionale, nella misura in cui si profila all’orizzonte una revisione dello Statuto di Autonomia della Regione Trentino - Alto Adige / Südtirol, laddove potrebbero aprirsi spazi utili per interventi atti a migliorare l’efficacia e la coerenza dell’impianto complessivo delle norme a tutela delle lingue minoritarie. In linea del tutto teorica, in questo contesto potrebbero ben collocarsi anche gli eventuali sviluppi della procedura referendaria avviata dai tre comuni ladini attualmente in prov. di Belluno per il passaggio alla Regione Trentino – Alto Adige, probabilmente l’ultima occasione storica per modificare in favore della comunità ladina la situazione di smembramento territoriale avviata dal Fascismo.

La questione fondamentale

E partiamo quindi da un quesito di fondo. Perché in Provincia di Trento si sente la necessità di una “legge organica” in materia? Evidentemente perché l’attuale impianto normativo appare a dir poco disorganico. Non che sia di per sé arretrato, anzi, c’è chi dice che per certi aspetti è addirittura più avanzato di quello della prov. di Bolzano. Ciò nonostante la sua stessa complessità finisce per creare seri problemi di efficacia in sede di attuazione.

Le cause di questa situazione stanno ovviamente tutte nel percorso storico che ha generato tali norme, un percorso nient’affatto lineare, anzi particolarmente contorto e controverso [Calliari 1991, capp. IV e V]. Tanto per cominciare, l’impianto normativo vigente in provincia di Trento appare “secondario” (sia in termini temporali che concettuali) rispetto a quelloPage 102 che si veniva costituendo in Sudtirolo in virtù dei principi dell’accordo De Gasperi – Gruber, con il quale nell’immediato dopoguerra la comunità internazionale intendeva garantire la tutela del gruppo linguistico tedesco entro lo stato italiano.

A questo punto mi sia consentito per chiarezza un rapido excursus storico. In principio era lo Statuto di Autonomia, legge di rango costituzionale emanata nel 1948 (legge cost. 26 febbr. 1948, n. 5) che concedeva alle popolazioni della regione Trentino-Alto Adige un regime speciale di autogoverno, a tutela in primo luogo della comunità germanofona del Sudtirolo, assicurando però nello stesso tempo “parità di diritti ai cittadini, qualunque fosse il gruppo linguistico di appartenenza” e salvaguardando “le rispettive caratteristiche etniche e culturali” (art. 2). Quali e quanti fossero tali “gruppi linguistici” non era detto chiaramente, ma si poteva dedurre fossero non due, bensì tre: tedesco, italiano e ladino. A quest’ultimo si riferiva infatti esplicitamente l’art. 89:

È garantito l’insegnamento del ladino nelle scuole elementari delle località ove esso è parlato.

Le Province e i comuni debbono altresì rispettare la toponomastica, la cultura e le tradizioni delle popolazioni ladine

.

Per fungere da principio di tutela costituzionale, la formulazione non era un granché: settoriale e riduttivo il primo comma, reticente il secondo nell’usare “popolazioni ladine” anziché “gruppo linguistico ladino”, equiparazione terminologica che tuttavia risultava lecita, e ricca di implicazioni attuative, se incrociata con il dettato dell’art. 2 (parità di diritti per i cittadini di tutti i gruppi linguistici).

Com’è noto, definiti con lo Statuto i principi e l’impianto istituzionale, il resto sarebbe stato stabilito mediante specifiche “norme di attuazione”, alla cui elaborazione avrebbero concorso (in termini di vera e propria contrattazione) lo stato e le comunità locali attraverso le istituzioni autonome [Marcantoni – Postal – Toniatti, 1988].

Sappiamo come le note inadempienze lamentate dai sudtirolesi di lingua tedesca abbiano portato al “Los von Trient” e alla vertenza che avrebbe condotto (non senza il peso di fatti drammatici e dolorosi) al cosiddetto “secondo Statuto di Autonomia”4. Per quanto riguarda i ladini, in questaPage 103 fase si verifica un paradosso ulteriore: all’art. 89 viene data tempestiva attuazione, ma solo a Bolzano. I Fassani protestano, sostenendo che il dettato si riferisce a entrambe le Province, ma a Trento si fa resistenza, arrivando persino ad affermare che nel testo legislativo il plurale era frutto di... una svista! [Detomas 2006: 181]. Secondo la dottrina ufficiale, in provincia di Trento non esistevano minoranze linguistiche, ma al massimo popolazioni trentine parlanti idiomi arcaici, degni di considerazione più che altro sotto il profilo culturale o folcloristico.

Anche nelle fasi di contrattazione per il “Pacchetto”5 prevale a Trento l’idea di un territorio monolingue, tanto che le bozze per il nuovo Statuto di Autonomia in circolazione non prevedono provvedimenti in favore di popolazioni di lingua diversa dall’italiana, con buona pace dei fassani (per non parlare di Mòcheni e Cimbri).

Ma ladini di Fassa non demordono: sotto l’impulso dell’Union di Ladins — vedendosi esclusi dalle provvidenze che si stanno approntando per ladini di Badia e Gardena — scendono sul piede di guerra chiedendo tout court l’annessione alla provincia di Bolzano (1970), senza successo.

Dal punto di vista della legislazione linguistica, il nuovo Statuto approvato nel 1972 (dpr 31 agosto, n. 670), chiarisce in sostanza che il vero obiettivo dell’autonomia è in realtà la tutela della popolazione germanofona sudtirolese, in virtù della cui presenza si instaura in provincia di Bolzano un regime di “bilinguismo territoriale” pressoché perfetto, cui si aggiungono specifiche disposizioni in favore della popolazione di lingua ladina stanziata nella stessa provincia.

Credo che la prima matrice della disorganicità dell’attuale impianto legislativo in materia di minoranze stia proprio qui, nel secondo Statuto di Autonomia. Le norme in favore della popolazione ladina della prov. di Bolzano sono contenute nell’art. 19, che di per sé regola i rapporti tra Stato e Provincia in materia scolastica, con un livello di dettaglio già di per sé eccessivo per una legge di rango costituzionale. Cosa ci faccia poi tale articolo (che tra l’altro si sofferma anche sull’uso del ladino nella scuola) all’internoPage 104 del titolo I (Costituzione della Regione e delle Province), capo IV (Disposizioni comuni alla Regione ed alle Province), io non l’ho mai capito.

Viceversa di “Uso della lingua tedesca e del ladino” tratta l’apposito titolo XI, il quale in effetti sancisce il principio del bilinguismo italiano-tedesco nella provincia di Bolzano. Di ladino in verità si parla solo nell’art. 102, che chiude il Titolo in esame e che recita:

Primo Comma: «Le popolazioni ladine [dal 2001 anche «mòchene e cimbre] hanno diritto alla valorizzazione delle proprie iniziative ed attività culturali, di stampa e ricreative, nonché al rispetto della toponomastica e delle tradizioni delle popolazioni stesse».

Secondo Comma: «Nelle scuole dei comuni della provincia di Trento ove è parlato il ladino è garantito l’insegnamento della lingua e della cultura ladina».

Sul contenuto del primo comma torneremo in seguito: intanto osserviamo che se non fosse per l’accenno alla toponomastica esso non riguarda nemmeno l’uso della lingua (come ci si attenderebbe) ma piuttosto misure a sostegno delle “attività culturali, di stampa e ricreative”: il plurale (popolazioni) lascia pensare che il legislatore avesse in mente entrambe le province, ma la cosa non è così scontata.

Il secondo comma riguarda effettivamente l’uso del ladino nella scuola, ma solo per la provincia di Trento. È chiaro che, di fronte all’ordinamento scolastico autonomo delineato per Bolzano nel citato art. 19, una formulazione così riduttiva appare come una concessione con la quale il legislatore tenta di acquietare le rivendicazioni dei ladini fassani.

Sta di fatto che così facendo le “fonti primarie” per una legislazione linguistica, sia per la provincia di Bolzano che per quella di Trento, non costituiscono certo la miglior premessa, in fatto di coerenza e organicità.

Tuttavia per la prov. di Trento l’art. 102 è importante poiché quantomeno riconosce come “ladina” una qualche popolazione insediata nel suo territorio. E qui la contraddizione è appariscente: data l’esistenza di una popolazione ladina in territorio trentino, come si giustifica la discriminazione che lo stesso Statuto sancisce tra parti della stessa comunità linguistica appartenenti alla medesima Regione?

Su questa “debolezza” della norma statutaria il movimento ladino in Val di Fassa saprà fondare negli anni seguenti la forza delle proprie ragioni all’insegna della Gleichberechtigung, ossia la rivendicazione degli stessi diritti spettanti ai ladini della provincia di Bolzano. Qui tuttavia stanno anche le radici della “debolezza” di fondo del pur imponente impianto normativo che dal 1972 ad oggi si è venuto costituendo in provincia di Trento.

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Il percorso post-statutario: la legislazione provinciale

A partire dagli anni ’70, perduta la battaglia per passare a Bolzano, comincia quella che il mai dimenticato giudice Jellici6 soleva chiamare “la lunga marcia dei ladini di Fassa” verso il pieno riconoscimento dello status di minoranza linguistica da parte delle istituzioni: da un lato si reclama, in sede provinciale, l’attuazione dell’art. 102 e contemporaneamente, in sede nazionale, — grazie al sostegno di parlamentari trentini di opposizione — si avvia l’iter per la modifica dello Statuto di Autonomia, la quale va fatta mediante “legge costituzionale” con tutto quello che comporta (doppia lettura da parte dei due rami del parlamento). Un’impresa degna di Sisifo, anche qui sappiamo come è andata7.

Di fronte all’intraprendenza e al pragmatismo dei ladini i governi che si susseguono a Trento nei due decenni successivi oppongono una resistenza ispirata ad una sorta di paternalismo, che tuttavia si fa sempre più accondiscendente: è di nuovo la politica del “contentino”, tesa a fare concessioni — quasi sempre “al ribasso” — per contenere le rivendicazioni e nello stesso tempo evitare rotture clamorose del quadro politico-sociale. Ricordiamone le tappe fondamentali:

1975: L.P. n. 29, istituzione dell’Istituto Culturale Ladino;

1976: L.P. n. 19 (di iniziativa popolare!) che individua “i Comuni della provincia di Trento in cui si parla il ladino”;

1977: L.P. n. 13, Ordinamento delle scuole per l’infanzia (di competenza provinciale!), che prevede l’uso del ladino e la precedenza per le insegnanti con conoscenza della lingua;

1977: L.P. n. 16, costituzione del “Comprensorio ladino di Fassa” distinto da Fiemme.

L’adozione (talvolta anche l’attuazione) di questi provvedimenti fu segnata da un alto tasso di conflittualità: ad esempio, resistenze sorprendenti furono messe in campo dallo stesso apparato provinciale in ordine alla precedenza per le maestre d’asilo di lingua ladina prevista dalla L.P. 13/77, tanto che si dovette ricorrere al Consiglio di Stato (Sentenza del 1982) per far sì che la Provincia... applicasse le proprie stesse leggi (!).

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La L.P. n. 19/76 è importante, in quanto sancisce definitivamente il riconoscimento della minoranza ladina in provincia di Trento e definisce il territorio in cui va applicato l’art. 102: ma ci volle un disegno di legge di iniziativa popolare promosso dall’Union di Ladins, e tuttavia anche qui passeranno ancora anni prima che la Provincia legiferi in materia in attuazione al principio statutario. I primi provvedimenti in questo senso saranno adottati solo negli anni ’80, e questo solo grazie all’accelerazione impressa alle dinamiche politiche con la nascita dell’Union Autonomista Ladina (1982) e la conseguente elezione di Ezio Anesi in Consiglio provinciale (1983). Questi i principali provvedimenti adottati dalla Provincia in seguito alle iniziative legislative del consigliere ladino:

1985: L.P. n. 17, valorizzazione e sostegno della cultura ladina;

1987: L.P. n. 16, art. 19: rispetto della toponomastica ladina.

I pur minimali principi di tutela sanciti nel famoso e controverso art. 102 dello Statuto di Autonomia hanno finalmente trovato una qualche forma di attuazione: sì, rispettivamente 13 e 15 anni dopo la sua approvazione.

Questo per ribadire ancora un volta come le principali ragioni della disorganicità dell’attuale impianto normativo siano riconducibili:

— al carattere “conflittuale” del processo politico che ha portato all’adozione dei singoli provvedimenti, fonte di resistenze degli apparati anche in sede applicativa;

— alla dilatazione dei tempi intercorsi tra le affermazioni di principio e i provvedimenti attuativi conseguenti, così come tra i singoli provvedimenti stessi, e in ultima analisi

— alla asimmetria esistente, in termini di identificazione, tra la comunità linguistica da tutelare e le espressioni istituzionali titolari delle competenze legislative in materia.

Il percorso post-statutario: la legislazione di rango superiore

Come se non bastasse, le cose sono destinate a complicarsi ulteriormente. Di fronte alla modesta efficacia dell’azione politica in sede provinciale, di fronte all’empasse segnata dal disegno di legge costituzionale per la modifica dello Statuto di Autonomia, con gli anni ’90 il movimento ladino cambia strategia. In sostanza, si cercano vie alternative per raggiungere risultati pratici e concreti operando in sede amministrativa ed attuativa, ag-Page 107girando in qualche modo le istanze legislative di rango superiore. È il caso per esempio della scuola, per la quale in quegli anni a livello nazionale si profila un’organizzazione “autonoma” di istituto, mentre le province Autonome si apprestano ad assumere nuove e più ampie competenze in questo settore [Verra 2000].

Ma la via maestra per questa nuova strategia è rappresentata dalle “Norme di Attuazione” dello Statuto stesso. Nel mutato clima politico venutosi a creare dopo il fatidico 1989 si aprono varchi importanti per ampliare ulteriormente le prerogative autonomistiche delle province di Trento e di Bolzano, e in questi varchi si inserirà abilmente anche l’Union Automista Ladina, che tra l’altro (nel 1994) piazza nella Commissione dei 12 l’avv. Bepe Detomas, nel 1996 eletto deputato al Parlamento per l’Ulivo.

Per quanto riguarda la provincia di Trento, il pacchetto di norme più consistente è già quello emanato con D.L. 16 dicembre 1993, n. 592, propiziato dall’elezione di Ezio Anesi al Senato della Repubblica (1992), provvedimento che consente ai ladini di Fassa di migliorare notevolmente il proprio status giuridico, raggiungendo in sostanza quasi tutti gli obiettivi che si proponevano i promotori del disegno di legge costituzionale: uso della lingua nella pubblica amministrazione, insegnamento del ladino nella scuola, censimento linguistico. Si introducono — come nel caso dell’uso veicolare del ladino nell’insegnamento scolastico — addirittura norme più favorevoli di quelle vigenti in provincia di Bolzano. Resta ancora precluso il diritto alla rappresentanza politica, che sarà ottenuto con legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2, grazie all’iniziativa dell’on. Detomas.

Tuttavia, data la natura stessa delle Norme di attuazione, i provvedimenti sono “puntuali”, talvolta estremamente settoriali, spesso prodotti per “mimesi” rispetto a quanto previsto per il ladino (o magari per il tedesco) in provincia di Bolzano; inoltre talvolta le norme linguistiche sono contenuti in “pacchetti” di provvedimenti concernenti tematiche ben più controverse e pesanti in termini politici. Bisogna inoltre rimarcare che in moltissimi casi si ricorse alle Norme di Attuazione semplicemente per migliorare, chiarire o rendere inoppugnabile il dettato controverso di una legge provinciale; in altri casi la norma proposta conteneva addirittura qualche “forzatura” rispetto agli stessi principi statutari, magari sotto forma di aggiornamento, di perequazione tra i gruppi linguistici, eccetera.

Ricordiamo per inciso, a questo proposito, che per questa via si introducono nell’impianto statutario di tutela anche i primi elementi di riconoscimento e tutela per le popolazioni Mòchena e Cimbra (D.lgs 2 settembre 1997, n. 321), mai citati nel testo originario dello Statuto di Autonomia.

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In sostanza, a fronte alla “debolezza” delle leggi di principio, abbiamo norme attuative estremamente dettagliate e prescrittive: solo che queste per lo più non si collocano ai ranghi inferiori della gerarchia, come sarebbe lecito attendersi, ma ad un livello piuttosto elevato, dato che le Norme di Attuazione sono “leggi di rango costituzionale”.

Il risultato è un bel ginepraio, dove altri motivi di “disorganicità” si aggiungono a quelli già sopra individuati:

pluralità di fonti normative, che legiferano sulla stessa materia o su materia analoga in modo concorrente: accanto alle citate leggi di rango costituzionale (Statuto e Norme), abbiamo quindi leggi provinciali e (poche) leggi regionali, con i rispettivi decreti attuativi, cui oggi si aggiunge anche la cosiddetta “legge quadro nazionale” (n. 482/99) in quanto applicabile alle province autonome (e su questo bisognerebbe aprire un ulteriore capitolo);

sovrapposizione di ruolo, nella gerarchia delle fonti, tra leggi di indirizzo e leggi regolamentari;

mancanza di chiari meccanismi attuativi, che individuino i soggetti responsabili dell’applicazione delle norme, gli strumenti di controllo, le istanze di verifica e le eventuali sanzioni in caso di inadempienza;

assenza di un unico disegno ispiratore, essendo alcuni provvedimenti mutuati dal modello sudtirolese che privilegia la tutela del “gruppo linguistico” (Volksgruppe) e opera per “curie etniche” attraverso lo strumento del censimento, mentre la maggior parte delle norme per i ladini (anche in prov. di Bolzano!) rispondono piuttosto al cosiddetto “principio territoriale”.

Ce n’è abbastanza per intuire come un progetto di riordino che miri a semplificare e a rendere organico un impianto normativo siffatto si troverà ad affrontare difficoltà notevoli, forse anche insuperabili. In sé, un “testo unico” (meglio sarebbe dire una “legge organica”) che possa raccogliere, armonizzare ed aggiornare il pacchetto delle norme provinciali sembrerebbe essere un obiettivo raggiungibile abbastanza facilmente, ma ho l’impressione che questo rischia di restare un risultato a metà, se non sarà accompagnato da un parallelo provvedimento “riassuntivo” delle Norme di Attuazione già esistenti in materia, teso a eliminare quanto meno le maggiori incongruenze, fissando i principi e rinviando magari la regolamentazione a provvedimenti locali secondo il corretto ordine gerarchico.

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Ritengo che il clima politico sia oggi favorevole su entrambi i fronti: di certo lo è a Trento, dove l’attuale governo provinciale appare oggettivamente interessato alla tutela e alla valorizzazione delle minoranze, non fosse altro che per una comprensibile difesa delle prerogative autonomistiche, altrimenti sempre più difficili da giustificare; ma lo è anche in sede nazionale, nel quadro di una più convinta e condivisa apertura verso forme di federalismo e di redistribuzione del potere tra centro e periferie. Naturalmente un intervento di riordino delle Norme di Attuazione non potrebbe prescindere dal consenso di Bolzano, e qui la partita mi sembra tutta da giocare...

Gioca a nostro favore, in questo senso, il fatto che ormai fra Trento e Bolzano sia in corso una “competizione” a tutto campo, laddove — nella fattispecie — la tutela delle minoranze non appare più come un’esclusiva riservata alla provincia di Bolzano, risultando questa al contrario sempre più spesso incalzata dalle iniziative dei territori vicini (si vedano a questo proposito le ambiguità e le incoerenze manifestatesi negli ambienti sudtirolesi, ladini e non ladini, a proposito dell’iniziativa referendaria di Cortina d’Ampezzo, Colle S. Lucia e Livinallongo).

Il “quarto pilastro” della riforma istituzionale

Per quanto riguarda la provincia di Trento esiste una ragione in più che milita in favore di un riordino normativo in materia, ed è l’ampio disegno di riforma istituzionale cui si è dato avvio con la L.P. 3/2006, Norme in materia di governo dell’autonomia del Trentino, “la madre di tutte le riforme” (prof. Toniatti), la quale prevede una nuova distribuzione di ruoli, funzioni e competenze, tra Provincia e istituzioni locali (Comuni, Comunità di valle) e costituisce la premessa per gli ulteriori interventi di riordino nell’ambito di:

— Scuola: L.P. n. 5/2006, Sistema educativo di istruzione e formazione del Trentino, e

— Cultura: ddl, n. 118, Disciplina delle attività culturali (in itinere).

Una legge organica in materia di minoranze verrebbe ad essere il “quarto pilastro” di un unico progetto complessivo di riordino normativoistituzionale. In quanto tale essa verrebbe a dare ulteriore consistenza e visibilità alla specificità della Provincia di Trento. Le premesse sono già contenute nella L.P. 4/99, Norme per la tutela e la promozione delle minoranzePage 110 linguistiche locali, che rappresenta un buon punto di partenza per sussumere organicamente i vari provvedimenti succedutisi nel tempo.

In primo luogo una nuova legge in materia dovrebbe raccordarsi con lo spirito e con la lettera dei principi che quel progetto complessivo hanno ispirato. In effetti, a parte le ragioni di opportunità politica, dopo l’approvazione delle tre leggi di riforma sopra citate, una qualche revisione delle norme riguardanti le minoranze linguistiche appare indispensabile anche sotto il profilo tecnico, pena la sussistenza (come vedremo) di soluzioni normative superate e vuoti legislativi difficilmente giustificabili.

Tuttavia, per quanto riguarda i Ladini di Fassa, il progetto di riordino normativo non potrebbe non raccordarsi fortemente con l’elaborazione dello Statuto del Comun General de Fascia, attualmente in corso; solo così il cerchio si chiuderebbe, costituendo una chiara relazione gerarchica tra fonti normative e istanze di attuazione delle politiche di tutela.

Il disegno di legge in corso di elaborazione dovrebbe pertanto ridisegnare il sistema delle politiche in favore delle lingue minori in provincia di Trento nel rispetto dei principi ispiratori della riforma istituzionale, ossia (cito) dei principi di:

1) sussidiarietà (i compiti di gestione amministrativa della cosa pubblica devono essere affidati all’ente più vicino ai cittadini);

2) adeguatezza (se l’ente non è adeguato alla realizzazione delle funzioni o il servizio richiede un’organizzazione particolarmente complessa la funzione passa alla competenza dell’ente superiore);

3) differenziazione (possibilità di disegnare un sistema diversificato nell’ambito della stessa tipologia di ente, ecc.).

La centralità della lingua

Prima di entrare nel merito di singoli aspetti delle norme in questione, tentiamo di riassumere i caratteri generali che la nuova legge dovrebbe possedere. Per non giocare la partita solo sul terreno dell’esistente, riterrei opportuno tener conto anche del panorama europeo, laddove nel frattempo sono sorti sistemi legislativi piuttosto avanzati, che almeno in qualche caso potrebbe essere d’aiuto per tentare un ammodernamento anche concettuale del nostro impianto normativo.

In questo senso, a mio modo di vedere, questo nuovo provvedimento dovrebbe in prima istanza avere i caratteri di una legge organica di politica linguistica. Conosco benissimo (e condivido) le argomentazioni di LuigiPage 111 Nicolussi Castellan8 sul ruolo cruciale dell’economia per una piccola comunità minacciata nella sua stessa sopravvivenza demografica, ma temo che se il nuovo impianto normativo non avesse il proprio focus sulla lingua si rischierebbe di cadere nuovamente in contraddizioni insanabili. Ritengo al contrario che gli interventi pubblici, necessari, anzi indispensabili per garantire una minima base demografica alle piccole comunità svantaggiate possano più utilmente essere adottati nel quadro delle politiche per la montagna, per lo sviluppo e per la gestione del territorio, magari avendo un occhio di riguardo per le minoranze linguistiche.

Anche la commistione lingua-cultura ha prodotto in passato parecchia confusione, e tuttora crea difficoltà e forti sbilanciamenti nella gestione delle risorse destinate alle minoranze. Ricordo ancora le aspre e interminabili discussioni sorte sulla destinazione delle risorse affidate al Comprensorio ai sensi della Legge Anesi (n. 17/85): “cultura ladina” o “cultura dei ladini”? Di fronte all’inevitabile “corsa al contributo”, allora prevalse (penso correttamente) una discriminante di tipo linguistico nell’orientare le scelte, ma ancora oggi l’ambiguità permane in ordine alle espressioni culturali non-linguistiche, come la musica strumentale, il folclore, l’arte figurativa, eccetera. Tutte attività che possono esprimere l’animus della comunità, tutte attività degne di essere sostenute, ma è difficile spiegare perché una banda musicale fassana abbia diritto a più contributi rispetto a una di Predazzo o di Levico.

Per essere più chiari: i criteri pragmatici oggi in uso nell’assegnazione dei fondi della L.P. 17/85 (che privilegiano le iniziative di carattere linguistico senza escludere un certo sostegno ad altre attività culturali) vanno bene, ma non stimolano né progettualità né programmazione: vige ancora la logica del “contributo a pioggia”, cosicché — tolto il consistente contributo destinato alla stampa ladina — vediamo che i gruppi folcloristici o musicali fanno ancora la parte del leone. I motivi sono evidenti e comprensibili: e finché si trattava di pochi milioni delle vecchie lire (oggi circa 100.000,00 euro annui), pazienza, ma oggi succede lo stesso con il ben più consistente fondo della legge regionale (oggi D.P.G.R. 23 giugno 1997). D’altra parte, il fatto che in Fassa i Comuni abbiano deciso di destinare al Comprensorio metà del cosiddetto “fondo perequativo” concesso ai comuni di lingua minoritaria (L.P. n. 36/93) per il sostengo di iniziative di ambito sovralocale, è già segno di maturità, ma il rischio della discrezionalità, dell’arbitrio, della sovrapposizione dei finanziamenti, e in generale laPage 112 difficoltà a mettere in campo strategie per una corretta ed efficace utilizzazione di queste (oggi ingenti) risorse è sotto gli occhi di tutti.

Qualsiasi scelta in sede amministrativa, nell’applicare o interpretare le norme vigenti, oggi appare effettivamente rischiosa, impopolare: meglio dunque tentare di dirimere la questione a monte, puntando sulla “legge organica”.

Questa faccenda della gestione delle risorse potrebbe apparire abbastanza futile, marginale, se non fosse collocata nell’ottica di definire la natura stessa della legge organica di cui si sta discutendo, la quale a mio modo di vedere si giustifica (e si rende anzi necessaria) se e solo in quanto diventa un momento di razionalizzazione degli interventi pubblici rispetto a uno scopo, sia in termini di efficacia (maggior incisività nei processi che si intendono governare) sia in termini di efficienza (miglior utilizzazione delle risorse messe in campo).

Per questo ritengo che il disegno di legge, pur non escludendo interventi in altre direzioni, debba innanzitutto riconoscere che l’obiettivo che la collettività provinciale persegue — in attuazione del dettato costituzionale (art. 6) e dei principi previsti dallo Statuto (eventualmente in vista di una loro miglior formulazione) — è la sopravvivenza della lingue minoritarie esistenti sul proprio territorio. Infatti, se è vero (come dice Nicolussi) che una lingua non sopravvive se si estingue la popolazione che la parla, è anche vero che se nessuno parlerà più quella lingua la comunità che l’ha perduta (o abbandonata) non sarà più una “minoranza linguistica”: nell’uno e nell’altro caso, tutto l’impianto di norme, diritti e prerogative costruito fin qui non avrebbe ragione di esistere, e sarebbe destinato a cadere come un castello di sabbia.

Insisto su questo punto: secondo me va benissimo che il nuovo testo — per ragioni di continuità — riprenda i principi “descrittivi” formulati in precedenti leggi (“la Provincia ... promuove la salvaguardia, la valorizzazione e lo sviluppo delle caratteristiche etniche, culturali e linguistiche delle popolazioni ladina, mochena e cimbra...”), ma nella sua parte operativa dovrebbe disegnare le coordinate di un sistema entro il quale le lingue minori (o minorizzate) possano vivere e sopravvivere in futuro, non imbalsamate in un museo, ma nella concreta vita sociale quotidiana. Sappiamo benissimo che è un’operazione in controtendenza, ma di questo si tratta: creare le condizioni per il reversing language shift, invertire la tendenza al cambio linguistico.

Sull’argomento esiste una bibliografia imponente, e gli specialisti in questo campo potrebbero fornire utili indicazioni ai legislatori, così come utili possono essere le indicazioni provenienti da esperienze condotte in analoghe situazioni di minoranza.

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Intanto, ritengo che il nuovo testo dovrebbe far capire che la responsabilità rispetto allo scopo ultimo della legge (la sopravvivenza della lingua) va equamente condivisa tra le istituzioni di governo e le stesse comunità minoritarie interessate: l’approvazione stessa della nuova legge verrebbe a sancire, o a rinnovare, un “patto” tra maggioranza e minoranze di notevole portata.

Per far questo, schematizzando al massimo, il provvedimento dovrebbe innanzitutto:

a) riconoscere, o ribadire, i diritti linguistici collettivi delle minoranze, secondo il principio territoriale (già peraltro accolto dallo schema preliminare, sulla base delle precedenti leggi provinciali);

b) definire i diritti linguistici del singolo anche fuori della comunità e del territorio storico di appartenenza;

c) definire, o ridefinire, le funzioni e le competenze delle strutture di rango provinciale preposte al perseguimento degli scopi della legge, quali: Conferenza delle Minoranze, Servizio per la promozione delle Minoranze (L.P. n. 4/99), ecc...

d) individuare gli strumenti di auto-tutela (ossia forme di autogoverno) delle minoranze stesse (es. Comun General de Fascia), ovvero definire le competenze particolari affidate alle istituzioni esistenti per gli scopi della legge;

e) indicare le forme di finanziamento per garantire le risorse finalizzate e “vincolate” agli scopi della legge;

f) individuare i meccanismi e gli organismi di valutazione, destinati a verificare — ai vari livelli di responsabilità — l’attuazione della legge e la gestione delle risorse (e qui l’idea dell’Autorità indipendente prevista dalla bozza finora predisposta potrebbe rappresentare un fatto decisamente innovativo, direi anche necessario, ma forse non sufficiente).

Esemplificazioni n 1: il sostegno alle attività “culturali” delle minoranze

Proviamo ora a entrare nel merito di alcuni snodi, per esemplificare per lo meno l’ottica dalla quale dovrebbe partire (a mio modo di vedere) la scrittura della “legge organica”.

La L.P. 17/85, cosiddetta “legge Anesi”, ha avuto un’importanza enorme per lo sviluppo delle attività a supporto della lingua ladina in Val di Fassa. Ricordo bene le condizioni delle casse dell’Union di Ladins, prima di quella data, la fatica per ottenere un minimo contributo, la “Usc di La-Page 114dins” — sulle spalle di pochi anziani collaboratori volontari — che in Fassa contava 23 abbonati. Oggi sono decine e decine le pubblicazioni in ladino edite dall’Union, dal Grop ladin da Moena e da altre associazioni grazie a quella legge; l’Union ha potuto dotarsi di una sede, di una segretaria, oggi dispone di uno staff professionale qualificato, in grado di organizzare iniziative di vario genere e gestire un lavoro redazionale di alto livello; la usc esce settimanalmente con 4/5 pagine e conta in valle oltre 500 abbonati. Il tutto perché finalmente si poteva contare su risorse non più occasionali, ma programmabili anno dopo anno.

Come strumento per sostenere queste attività, la L.P. 17/85 (concepita nella logica della legge provinciale sulla cultura del 1982) appare oggi — alla luce della riforma istituzionale — del tutto obsoleta. Il nuovo testo potrebbe semplicemente abrogarla e affidare tutto ai Comuni, o al Comun General, in quanto titolari delle competenze in campo culturale a livello locale, secondo la logica della riforma e secondo il dettato del ddl sulla cultura, qualora venisse approvato. E sarebbe un errore.

Cosa potrebbe fare invece la “legge organica”? Innanzitutto richiamarsi comunque all’art. 102 dello Statuto, primo comma, e articolare comun-que disposizioni per attuare il diritto alla valorizzazione delle attività culturali delle popolazioni ladina (ovviamente, per estensione, mochena e cimbra), assicurando a tale scopo le necessarie risorse finanziarie e affidandone la gestione ai soggetti territoriali competenti (secondo lo spirito e la lettera della citata riforma istituzionale). In questo modo la legge Anesi verrebbe “assorbita” nel nuovo testo, non semplicemente abrogata.

Però si potrebbero anche introdurre elementi innovativi per superare o chiarire in qualche modo l’ambiguità dell’art. 102 (“attività ricreative”, “rispetto delle tradizioni”...), in attesa magari che si metta mano al testo stesso dello Statuto di Autonomia. Come? ad esempio

• delimitandone gli effetti alle attività direttamente connesse con l’uso della lingua, alla luce dei principi e delle finalità della nuova legge;

• rinviando ad altri strumenti normativi il supporto alle attività di tipo cultural-ricreativo (musicali, folkloristiche, sportive ecc.); oppure

• prevedendo canali o budget differenziati per il finanziamento di attività a sostegno della “cultura minoritaria” in senso più lato, rispetto alle iniziative di politica linguistica.

Insomma, la nuova legge, responsabilizzando i soggetti territoriali nell’attuazione concreta del principio statutario, dovrebbe già prefigurare un sistema nel quale l’ente pubblico su questo punto non è più semplice ero-Page 115gatore burocratico di contributi, ma coordina e stimola le attività degli agenti della società civile impegnati sul terreno della lingua, inserendo tali iniziative in un quadro più generale ed organico. In concreto tale sistema dovrebbe (a mio modo di vedere) distinguere radicalmente gli interventi per tipologie e per modalità di accesso alle risorse:

• singole iniziative puntuali o progetti delimitati nel tempo, ad es. pubblicazioni, monografie, produzioni discografiche, meeting di gruppi musicali ladini, convegni, ecc.;

• attività strutturate e durature rilevanti per la promozione linguistica, come stampa periodica, programmi radiofonici, attività didattiche, ecc.;

• progetti strategici (pluriennali) di innovazione nel campo della ricerche, della tecnologia, della linguistica, ecc.

A questo proposito, un aiuto a modernizzare il pensiero giuridico (ma anche l’assetto applicativo) potrebbe addirittura derivare da un richiamo alla legge quadro nazionale, n. 482/99, laddove all’art. 14 recita:

Nell’ambito delle proprie disponibilità di bilancio le regioni e le province in cui siano presenti i gruppi linguistici di cui all’articolo 2 nonché i comuni ricompresi nelle suddette province possono determinare, in base a criteri og-gettivi, provvidenze per l’editoria, per gli organi di stampa e per le emittenti radiotelevisive a carattere privato che utilizzino una delle lingue ammesse a tutela, nonché per le associazioni riconosciute e radicate nel territorio che abbiano come finalità la salvaguardia delle minoranze linguistiche

.

Importante, in questo senso, il riferimento a “criteri oggettivi” per attività strategiche (editoria, mass media), e ancor più il riconoscimento delle associazioni votate direttamente alla salvaguardia della minoranza, che potrebbero essere destinatarie di provvidenze budgetizzate, ossia svincolate in qualche modo dalla logica del contributo su singole iniziative, in quanto considerate in toto partner della politica di salvaguardia perseguita dalla legge.

In effetti, la “legge organica” dovrebbe possibilmente favorire una sorta di convergenza delle attuali fonti di finanziamento, quantomeno quelle di matrice provinciale, come ad es. quelle derivanti dal cd. “fondo perequativo” (ma è ovvio che un miglior raccordo con la legge regionale — finché c’è — sarebbe oltremodo opportuno).

A questo proposito, mi sembrerebbe necessario prevedere a livello di ciascuna comunità linguistica un Organismo di programmazione, (esatto pendantPage 116 della Conferenza delle Minoranze provinciale), che faccia da ponte tra le istituzioni locali e la società civile, dotato di competenze e autorevolezza tali da poter dar corso ad un’utilizzazione coordinata, razionale ed efficace delle risorse assegnate, nel rispetto dei principi e le finalità generali fissati dalla legge.

Tale Organismo, che oggi in Fassa si tenta di prefigurare sviluppando in sede locale le funzioni della Consulta ladina prevista dalla legge Anesi, dovrebbe prevedere la partecipazione del mondo scolastico, dell’istanza scientifica (icl), ma anche delle associazioni militanti (= riconoscimento istituzionale dell’Union di Ladins) ed assumere un ruolo squisitamente tecnico-scientifico di analisi dei bisogni e di programmazione degli interventi, rispetto invece alle funzioni politiche spettanti agli organi eletti del Comun General e a quelle amministrative affidate all’Ofize linguistich del Comun General.

Esemplificazioni n 2: il rispetto della toponomastica

Qui possiamo saggiare le potenzialità innovative della “legge organica” rispetto a questioni di tipo teorico e procedurale. Lacune normative, ritardi e inadempienze hanno fatto sì che a vent’anni esatti dall’approvazione della citata L.P. 16/77, art. 19, l’applicazione del principio statutario stabilito 50 anni fa (35 se consideriamo solo il secondo Statuto) sia tuttora incompleta e parziale. Per anni un conflitto di competenze su chi dovesse stabilire la “forma linguistica” dei toponimi ladini ha bloccato la compilazione del repertorio, ed ancora oggi le indicazioni toponomastiche apposte dai Servizi provinciali non rispettano né i criteri ortografici del ladino e nemmeno le norme grafiche stabilite... dalla Provincia stessa. Inutile aggiungere che a tutt’oggi non si sa chi sia l’Ente o l’Ufficio titolato ad intervenire per porre rimedio a questo stato di cose.

Detto schematicamente, con un intervento di ammodernamento e riordino della materia si dovrebbe innanzitutto svincolare le disposizioni riguardanti le minoranze dalla legge provinciale n. 16/87, la quale ha essenzialmente compiti di studio e di conservazione delle tradizioni dialettali: viceversa nel caso delle minoranze la toponomastica ha ben altra valenza, anche sul piano “ideologico”, se vogliamo (si veda cosa succede a Bolzano...). Pertanto la “legge organica” dovrebbe:

• interpretare e aggiornare il principio statutario del “rispetto della toponomastica”, formulazione superata anche rispetto al “valore ufficiale” dei toponimi nelle aree di minoranza (già riconosciuto dallaPage 117 vigente L.P.) e collocare gli interventi esecutivi sul terreno della politica linguistica: “afficher la langue”;

• ribadire, come già fa l’art. 19 della legge di riforma istituzionale, le competenze locali in materia, chiarendone gli obblighi e le responsabilità dei soggetti preposti all’attuazione della legge e alla vigilanza sull’esatta applicazione della stessa;

• stabilire principi certi e procedure semplificate per l’adozione di odonomi e toponimi (il ruolo della Commissione Provinciale per la toponomastica potrebbe essere assunto da un analogo organismo tecnico-scientifico locale);

• ricondurre le istanze di codificazione formale dei toponimi alle sedi scientifiche competenti, sottraendole per es. alla Commissione provinciale per la toponomastica, ma anche agli arbitrii degli amministratori, chiarendo il ruolo e le funzioni dell’“autorità linguistica” (grafia, standardizzazione).

Esemplificazioni n 3: definizione e codificazione della lingua

Quest’ultimo accenno all’autorità linguistica ci consente di focalizzare l’attenzione su un problema che la “legge organica” non potrà ignorare. Che cosa si intende per “lingua”, che cosa si intende per “ladino”? Chi determina di “quale” lingua si tratti, ovvero quale lingua debba essere usata, insegnata, praticata, richiesta in sede di verifiche e esami? La cosa non è di poco conto, parlando di “lingue in via di elaborazione” come sono spesso le lingue minori.

È noto che anche nell’uso comune, ad esempio, con il termine “ladino” ognuno intende una cosa diversa, ma in giurisprudenza la cosa non dovrebbe, anzi non può, funzionare così. Cosicché la Norma di attuazione che affidava alle Province l’individuazione dell’istanza titolata a stabilire le norme linguistiche “atte ad assumere valore di ufficialità”, intesa inizialmente a sottrarre alla Commissione provinciale per la Toponomastica le competenze sulla codificazione dei toponimi ladini, è stata interpretata e utilizzata in modi completamente opposti: a Trento, in un senso aperto alla varietà diatopica e diastratica, e comunque anche per “sostenere i processi di standardizzazione in corso” (art. 6 ter della L.P. 4/99, ma introdotto nel 2002), a Bolzano per avvalorare in sede giuridica una nozione di “ladino”, circoscritta a due varietà presenti nel territorio sudtirolese: così facendo il badiotto e il gardenese sono promossi d’imperio al rango di due distinte mini-lingue (da usarsi alternativamente o contestualmente), escludendoPage 118 dall’uso ufficiale non solo le altre varietà locali, ma soprattutto qualsiasi prospettiva per la lingua unitaria che si veniva creando. Ogni commento è superfluo: come le norme possono affossare il processo di emancipazione di una lingua.

Credo che la Provincia di Trento abbia oggi l’occasione per riaffermare una visione totalmente diversa, sulla scorta della prassi e delle norme già in atto. Lo può fare includendo nella “legge organica” una definizione “inclusiva” non “esclusiva” di ladino, che comprenda le varietà locali e le forme codificate a vari livelli, prefigurandone un uso armonico secondo la formula “polinomia con standardizzazione”. Ovviamente le decisioni in merito a quale “registro” usare dovrebbero essere lasciate alle istanze locali, nei vari settori della vita sociale, per consentire la massima elasticità delle scelte, ma nello stesso tempo andrebbe riaffermata la funzione comunque “unificante” di un’istanza scientifica atta a dettare i modelli formali di riferimento (sia per le varietà locali, sia per quelle standard), attraverso l’elaborazione di appositi strumenti normativi. La cosa sembrerebbe scontata, ma recenti avvenimenti in Fassa hanno dimostrato che non è così.

Definizione di lingua e autorità normativa dovrebbero dunque già rispondere ad una precisa concezione della “politica linguistica” che si intende avviare presso una determinata comunità, e indicare al tempo stesso i riferimenti generali indispensabili per tutta una serie di attività: insegnamento scolastico, uso della lingua nell’amministrazione, procedure di verifica delle competenze linguistiche, ecc.

Esemplificazioni n 4: valutazione delle competenze linguistiche

Anche in quest’ultimo settore si sono verificate recentemente discrasie che le norme attuali non consentono di superare facilmente: in sostanza l’idea di lingua che ispirava gli “esaminatori” non coincideva sempre con quella proposta ai “corsi di alfabetizzazione”, con conseguenze intuibili per la lingua, in termini di credibilità e di prestigio, ma anche con risvolti pesanti per l’intero sistema di tutela della minoranza.

La “legge organica” dovrebbe cercare, per quanto possibile, di raccordare meglio queste istanze: sarebbe opportuno ridisegnare e semplificare il sistema di formazione e valutazione linguistica, anche a costo di intervenire con proposte di modifica delle Norme di attuazione oggi in vigore che prevedono due distinte Commissione d’esame (una per il personale scolastico, una per il personale della pubblica amministrazione), cosa che ha poco senso in una realtà così piccola.

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Bisognerebbe invece che il nuovo testo consentisse alle istanze preposte di costituire meccanismi di nomina più agili e controllabili, procedure finalizzate allo scopo e offerte formative permanenti ben articolate, sulla base dell’esperienza ormai decennale condotta dal Comprensorio e dall’Istituto ladino.

In questo contesto suggerirei anche di prendere in considerazione la possibilità di riconoscere il “patentino” rilasciato per la conoscenza del ladino in provincia di Bolzano, ben sapendo che difficilmente ci sarà reciprocità, finché presso le élites sudtirolesi perdura la concezione della lingua cui sopra si faceva cenno.

Conclusioni

Tralascio qui per motivi di opportunità e di tempo le norme riguardanti gli Istituti culturali delle minoranze e sulla Scuola, materia quest’ultima che con la recente L.P. 5/2006 ha già avuto un momento significativo di sistemazione e di aggiornamento, la quale caso mai ha reso obsoleti e inadeguati taluni provvedimenti provinciali, come ad es. la L.P. 4/97 sui “programmi”, stante che questi ultimi sono oggi passati — in virtù della riforma del sistema scolastico — alle competenze autonome degli istituti scolastici.

Il problema è eventualmente quello di enunciare o ribadire nella “legge organica” i principi ispiratori di questa come di altre leggi e di creare istanze di verifica circa la loro effettiva applicazione. Lo stesso dicasi per le articolate norme di attuazione, dove eventualmente si potrebbe tentare un analogo testo riassuntivo dei principi, che armonizzi eventualmente strumenti e meccanismi attuativi con l’impianto della riforma scolastica. Si tratta qui, del resto, di questioni assai delicate, che taluni proporrebbero di rivedere alla luce delle esperienze dei decenni scorsi: troppo spesso infatti la cosiddetta “precedenza assoluta” o “riserva di posti” per gli insegnanti con la conoscenza della lingua non si è tradotta in un meccanismo per ampliare la presenza e la qualità del ladino nell’insegnamento, ma al contrario ha costituito per taluni in un mero accesso privilegiato al posto di lavoro.

Se si decidesse si mantenere intatto il principio sancito dalle Norme di attuazione (ottenuto del resto al prezzo di un grande impegno politico) sarebbe necessario trovare gli strumenti amministrativi adeguati allo spirito della legge, magari in sede contrattuale.

Questi, come anche altri aspetti problematici sopra citati, probabilmente richiedono interventi attuativi e di verifica (se non proprio di sanzione) a livelli diversi da quello provinciale. Certamente tuttavia sia la “leg-Page 120ge organica”, come anche lo Statuto del Comun General (nel caso dei Ladini di Fassa), potrebbero prefigurare gli strumenti di controllo atti a garantire la corretta applicazione alle norme generali.

Un’ultima annotazione, che si riallaccia alle considerazioni di apertura circa la persistenza o meno dell’animus comunitario presso le minoranze. Probabilmente molti dei problemi qui citati già da tempo avrebbero potuto trovare soluzioni concrete, in presenza di una forte spinta proveniente dal basso, ma non mi pare che in questi ultimi 20 anni vi siano state proteste, reclami, ricorsi per casi di mancata o inefficace attuazione delle norme linguistiche. Che si tratti di stanchezza dopo lunghe battaglie, o di un senso di appagamento per i risultati ottenuti, comunque considerevoli, sta di fatto che — quanto meno nel caso dei ladini di Fassa — oggi la comunità nel suo insieme sembra piuttosto indifferente, per non dire insofferente, rispetto alle implicazioni attuative di un impianto giuridico di per sé assai articolato. E ovviamente non sarà un intervento di riordino normativo a cambiare questo stato di cose.

Riferimenti bibliografici

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Calliari, F. (1991) La minoranza ladino-dolomitica, Rimini, ed. Maggioli.

Chiocchetti, F. (2008) È (ancora) possibile una politica linguistica nelle Valli ladine?, in: Dell’Aquila, V. – Iannàccaro, G. (a cura di), Alpes Europa III: Survey Ladins, Trento, ed. Regione Autonoma Trentino Alto Adige 2008 (in stampa).

Dell’Aquila, V. – Iannàccaro, G. (2006) Survey Ladins. Usi linguistici nelle valli ladine, Trento, ed. Regione Autonoma Trentino-Alto Adige. Detomas, G. (2006) I Ladini. Una minoranza nella minoranza. La tutela giuridica dei ladini del Trentio e del Veneto, in Hilpold – Perathoner [2006].

Faustini, G. (1995) Storia dell’autonomia del Trentino Alto Adige, Trento, ed. Publilux.

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––– (1975) Pluralismo linguistico in Italia tra Stato nazionale ed autonomie regionali, Pisa.

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Testi legislativi citati

• Legislazione nazionale:

Statuto Speciale per il Trentino – Alto Adige. Decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 e s.m., «Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino - Alto Adige. Testo unificato delle leggi sullo statuto speciale per il Trentino - Alto Adige».

Decreto legislativo 16 dicembre 1993, n. 592, «Norme di attuazione dello Statuto speciale della regione Trentino - Alto Adige concernenti disposizioni di tutela delle popolazioni di lingua ladina, mochena e cimbra della provincia di Trento».

Decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 321. Norme di attuazione dello Statuto speciale per la regione Trentino - Alto Adige recante modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 16 dicembre 1993, n. 592, in materia di tutela delle minoranze linguistiche in provincia di Trento».

Legge (ordinaria) 15 Dicembre 1999, n. 482, «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche».

Legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2, «Disposizioni concernenti l’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni a Statuto Speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano».

• Leggi provinciali (Provincia Autonoma di Trento)

Legge provinciale 14 agosto 1975, n. 29 «Istituzione dell’Istituto culturale ladino».

Legge provinciale 29 luglio 1976, n. 19, «Determinazione dell’ambito territoriale di applicazione delle provvidenze di cui all’articolo 102 dello statuto di autonomia per le popolazioni ladine della provincia di Trento».

Legge provinciale 21 marzo 1977, n. 13, «Ordinamento della scuola dell’infanzia nella Provincia Autonoma di Trento».

Legge provinciale 16 agosto 1977, n. 16, «Approvazioni di varianti al Piano Urbanistico Provinciale

Legge provinciale 28 ottobre 1985, n. 17, «Norme per la valorizzazione delle attività culturali, di stampa e ricreative delle popolazioni ladine».

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Legge provinciale 27 agosto 1987, n. 16, «Disciplina della toponomastica».

Legge provinciale 13 febbraio 1997, n. 4, «Insegnamento della lingua e cultura ladina nella scuola dell’obbligo».

Legge provinciale 30 agosto 1999, n. 4, «Norme per la tutela delle popolazioni di lingua minoritaria nella provincia di Trento».

Legge provinciale 7 agosto 2006, n. 5, «Sistema educativo di istruzione e formazione del Trentino».

• Leggi regionali (Regione Trentino – Südtirol)

Decreto del Presidente della Giunta regionale 23 giugno 1997, n. 8, «Approvazione del Testo unificato delle leggi regionali sulle Iniziative per la promozione dell’integrazione europea e disposizioni per lo svolgimento di particolari attività di interesse regionale».

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[1] Testo rielaborato dell’intervento tenuto al Seminario «Nuovi strumenti per la tutela e la promozione delle lingue minori», Trento, 24 maggio 2007.

[2] Consistente è anche il numero dei cittadini di madrelingua mòchena, e ancor più di madrelingua cimbra, oggi residenti fuori dal loro comune di origine. Informazioni aggiornate su demografia e attività delle comunità di lingua minoritaria nel Trentino in: Abruzzese 2005.

[3] In seguito, per comodità, per le località ladine o germanofone si useranno soltanto le corrispondenti denominazioni in lingua italiana.

[4] Il riferimento è alla vigorosa protesta del partito di lingua tedesca svp (Südtiroler Volkspartei) contro la mancata attuazione delle misure a tutela della popolazione sudtirolese da parte della Regione Trentino - Alto Adige, istituita con il primo Statuto di Autonomia, e la conseguente rivendicazione di una più marcata autonomia a livello provinciale (1957). Il cammino verso il nuovo Statuto di Autonomia fu accompagnato da un ondata di violenza ispirata dagli ambienti estremisti sudtirolesi che rivendicavano tout court la riannessione del Sudtirolo all’Austria, con episodi di terrorismo (1956-1967) rivolti soprattutto contro impianti e luoghi simbolo del potere statale, che causarono ingenti danni materiali e diverse vittime tra gli esponenti delle forze dell’ordine. Una sintetica ed aggiornata ricostruzione delle vicende relative all’autonomia del Trentino e del Sudtirolo in Faustini 1995.

[5] Con il nome di “Pacchetto” si designava l’insieme delle misure destinate a tutelare la minoranza di lingua tedesca nella prospettiva di un nuovo ordinamento istituzionale incentrato sulla creazione di due Province Autonome [Faustini 1995: 270 e segg.].

[6] Giacomo Jellici (Moena 1896 - Rovereto 1995), già magistrato e uomo di cultura, esponente di spicco del movimento ladino fassano.

[7] Per due volte il disegno di legge giunse in Parlamento e venne approvato in prima lettura, ma in entrambi i casi lo scioglimento anticipato delle camere ne vanificò l’iter [Calliari 1991, cap. V, 1].

[8] Attuale sindaco di Luserna (prov. di Trento), esponente storico della piccola minoranza germanofona cimbra ivi insediata.

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