Infelicità e melanconia del principe. Il pontificato di Niccolò V nella rappresentazione del 'Momus' di Alberti

AutorRiccardo Fubini
Cargo del AutorUniversità di Firenze
Páginas161-186

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Il tema della "infelicità del principe" appartiene propriamente, in età umanistica, a Poggio Bracciolini, autore verso il 1439 -e dunque nell’età più tempestosa del pontificato di Eugenio IV- del dialogo appunto così intitolato1.

Mutuato principalmente dalla filosofia stoica di Seneca (la "personata felicitas" -la felicità di sola apparenza- del ricco a contrasto con la pura e spoglia "virtù") il tema fin dall’apparire suonò come scandaloso. Esso spogliava il principe, al pari di ogni altro individuo che opera fra le insidie di questo mondo, di ogni sacralità della funzione rivestita. Persino il modello biblico di Davide, il sovrano unto del Signore, era tutt’altro che immune da colpe, sì da distogliere Poggio da ogni pretesa di indagare «haec Altissimi secretiora consilia»2. In ciò cadeva ogni definizione scolastica del legittimo principato, e con essa la distinzione formale, secondo la classica disquisizione del Policraticus di Giovanni di Salisbury -peraltro molto attuale nelle turbolenze tre e quattrocentesche- tra re legittimo e tiranno. L’ "infelicità" del principe era fatale alla sua condizione medesima, soggetta alle imprevedibili vicissitudini della "fortuna": una fortuna che era posta al di sopra dei princìpi di moralità ammessi dagli uomini, al di sopra della loro stessa umanità. La sfera della "fortuna" (e dunque della politica) prescindeva da quella della "virtù"; infelicità e malvagità coincidevano: «Naturalia enim etiam repugnantibus nobis vim suam exercent [...]; principatus re ipsa et licentia

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malus est»3. Non è dunque un caso, se è lecita la digressione, che intorno al 1520 Agostino Nifo, presunto plagiario ma in realtà implicito correttore e censore del Principe di Machiavelli, associasse tacitamente la condanna delle proposizioni machiavelliane con quelle appunto di Poggio nel proemio al "Liber quintus" del suo De regnandi peritia: «Sunt qui principes infelices esse probant, eorum omnino vitam infelicem asserentes, quod ambitiosa, anxia, turbolenta, maximis cruciatibus ac malis facinoribus obnoxia expositaque sit»4.

Parimenti collegata agli anni di pontificato di Eugenio IV è l’altra, più ambiziosa opera di Poggio, tra la disquisizione filosofica ed erudita e la narrazione storica, il De varietate fortunae, che del De infelicitate principum è l’esplicita prosecuzione5. Per Poggio la storia contemporanea, diretto oggetto di viva esperienza, valeva di implicita smentita a ogni abbellimento della tradizionale storiografia moralistica o di corte. Il nucleo originale dell’opera (composto intorno al 1442) trattava della vicenda storica corrente, per essere poi integrato da dissertazioni erudite miscellanee, archeologica e geografica, e dedicato nel 1448 a Niccolò V, il nuovo pontefice da cui Poggio si attendeva una migliore accoglienza dei buoni studi. Diversamente dal De infelicitate (e, prima ancora, dalla più lontana ispirazione del De casibus illustrium virorum di Boccaccio), oggetto privilegiato del discorso, più che non i prìncipi secolari, sono le traversie del pontificato, a partire dal Grande Scisma della Chiesa con Urbano VI e concludersi con il pontefice in carica, Eugenio IV, il più agitato di tutti dai colpi di fortuna («tam varie fortuna iactatus»)6. Come per il principato, Poggio scan-sa per il concetto di "fortuna" ogni disputa di definizione scolastica («omissa definiendi solertia»)7: essa non consisteva in altro che nel succedersi inspiega-bile degli eventi, al quale il papato stesso -esclusa beninteso la "maiestas", la sacralità formale dell’ufficio- non si sottraeva nella sua indivisibile dimensione temporale («tamen propter illa, quae pontifices Romani possident fortunae iuri subdita, vidimus varie eorum quosdam [...] fortunae impetu iactatos»)8.

Tutto ciò, come vedremo, non ha mancato di esercitare una diretta incidenza sull’Alberti, che era visibilmente legato a Poggio, come possiamo constatare

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da dediche ed impliciti riferimenti interni. Ma prima di entrare direttamente in argomento, è necessario fare un passo indietro. Non era stato Poggio il primo a lanciare la tematica della "infelicità del principe", o, se vogliamo, il primo a piegare in senso laico, antiscolastico ed anti-istituzionale, le tematiche senechiane contro le ricchezze e gli onori esteriori. Come sempre più emerge nelle ricerche sull’umanesimo quattrocentesco, bisogna anche in questo caso risalire a Petrarca, e alle impertinenze che egli disseminava nel vario contesto dei suoi scritti, peraltro mantenuti fino alla morte gelosamente inediti e imperfetti (è questo per inciso un tratto di cui Alberti, a differenza di Poggio, avrebbe tenuto buona nota)9. Mi riferisco particolarmente ai Rerum memorandarum libri, un’opera appena abbozzata nell’apparenza di un’ampia trattazione moralistica sul modello allora in voga di Valerio Massimo, ma che in realtà porge spunto, nelle pieghe di un discorso liberamente divagante, per l’indipendente professione di vita del suo autore. Ad ispirarlo era l’incitamento di Epicuro -filosofo ingiustamente malfamato- di «sequi naturam», di assecondare la propria indole, rinunciando agli onori che gli venivano offerti nel nome della libertà personale e del godimento di "più quiete ricchezze" («Ego enim cum Epycuro statui naturam sequi, divitias michi quietissimas et securissimas promittentem»)10. Le dignità che Petrarca dichiara qui di declinare erano nella fattispecie i vescovadi, di cui i suoi protettori in Curia, il cardinale Giovanni e il fratello Giacomo Colonna avrebbero voluto investirlo11; mentre la "vita quieta" era quella consona ai dettami -nella sostanza se non nell’abito esteriore- della filosofia profana da lui professata e, almeno entro le cerchie intime, anche rivendicata. Era, più generalmente, una professione di vita che si opponeva a quella del potere, non importa se quello secolare o -caso per lui di più immediata esperienza- quello ecclesiastico. Ambedue infatti obbedivano allo stesso imperativo e condividevano una condizione comune: «Regio simillimum pontificale verbum»12. Compare qui in Petrarca un tratto che ritroveremo in Poggio, ma ancora più sottilmente

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ed estensivamente nell’Alberti, e che non di rado, per non essere stato riconosciuto, ha tratto in inganno le interpretazioni moderne. Si vuol dire l’intento di ritorcere strumentalmente testi della tradizione cristiana, medievale e patristica, contro gli assiomi dell’autorità pontificia. Nella precoce comparsa in chiave dissacrante del tema della "infelicità del principe" vi è infatti una combinazione, tutta petrarchesca, della condanna stoico-epicurea (e cioè senechiana) con un passo abbastanza marginale del Policraticus di Giovanni di Salisbury -quasi un manuale vigente delle buone massime politiche, giuridiche ed ecclesiastiche- un esemplare del quale non mancava di comparire nella biblioteca papale di Avignone13. Riferisce dunque Petrarca l’affermazione da "Policratus" attribuita a papa Adriano, che non si sarebbe potuto augurare al peggiore nemico altro supplizio che essere papa («Nullum se de hoste suo quolibet supplicium optaret quam ut papa fieret»). Si tratta del riferimento preciso a un passo in cui, sulla fine del trattato, Giovanni di Salisbury riferisce delle confidenze ricevute da papa Adriano IV, il monaco inglese creato papa nel mezzo dei tumulti di Arnaldo da Brescia e della municipalità romana. L’esperienza delle endemiche tendenze scismatiche nel corpo della Chiesa e la riottosità del popolo di Roma aveva portato il pontefice alle sconsolate conclusioni, che così riferisce Giovanni di Salisbury, suo connazionale e stretto confidente: «Ut enim ex conscientia verum loquar, illius (pontificatus) laboriosissima et, quantum ad statum praesentis seculi pertinet, miserrima videtur esse conditio»: giacché, se si mostrava prono all, "avarizia", era la morte dello spirito; ma in caso contrario, non sarebbe sfuggito alle «manus et linguas Romanorum»14.

Nella parafrasi di Petrarca scompare la drammatica, mortale alternativa fra carne e spirito, fra ciò che appartiene a Dio e ciò che appartiene al mondo, a cui fatalmente non sfuggiva nemmeno la tanto ambita dignità pontificia. L’alternativa era invece quella fra i fatali gravami del potere e la libertà privata dell’individuo; e meno i pontefici ne avessero avuta consapevolezza, tanto più funesta sarebbe stata la loro sorte. «Et profecto -così Petrarca postilla "Poli-

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cratus"- summi pontificatus sarcinam, que vulgo felix et invidiosa creditur, humeris subisse difficillimum et gloriosum miserie genus est: his dico qui eam seque ab omni contagio precipitioque preservare decreverunt; reliquis enim quanto levior videtur, tanto funestior status est»15. Qui nasce il tema della "infelicità del principe"; e, sorvolando per il momento su Poggio, l’ammonimento alla consapevolezza degli inevitabili rischi del potere («quanto levior videtur tanto funestior status est») contiene già in nuce la filosofia del Momus di Alberti. Non aveva infatti mirato il Giove albertiano, delegando il potere al Fato, a godersi la vita spensierata degli dèi, con tutti gli esiti "funesti" illustrati negli svolgimenti del racconto16

Bisogna ora tornare a Poggio, ma anche con lui a Niccolò V e a Giannozzo Manetti, suo celebratore autorizzato fin dall’orazione solenne in occasione dell’ambasciata fiorentina d’obbedienza nel marzo 1447. Senza Poggio, va subito detto anche perché il tema non è stato finora sufficientemente considerato, non si intendono gli scritti politico-morali dell’Alberti. A Poggio, per cominciare, è dedicato il libro IV delle Intercenali, a cui appartiene quella intitolata Cynicus17:

tale era il titolo originale del dialogo di Luciano, da Poggio tradotto e intitolato Iuppiter confutatus, «in quo vir ille doctissimus de fato ac providentia cum ipso Iove ludere videtur», secondo la dedica a Tommaso Parentucelli in epoca precoce, comunque entro il soggiorno della Curia a Firenze18. L’impatto del De...

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