I presupposti dello Statuto albertino. Dai moti del 1821 alle riforme del 1847

AutorPaolo Colombo
CargoProfesor de "Storia dei sistemi costituzionali contemporanei" y "Storia contemporanea" en la Facoltà di Scienze politiche dell'Università Cattolica di Milano

Paolo Colombo

    Profesor de "Storia dei sistemi costituzionali contemporanei" y "Storia contemporanea" en la Facoltà di Scienze politiche dell'Università Cattolica di Milano. Entre 1996 y 2001 ha impartido docencia sobre "Storia costituzionale" en la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Macerata. Ha trabajado sobre las transformaciones del régimen en el período revolucionario francés, con especial atención a la función del Jefe del Estado monárquico. Ha publicado tres monografías: Governo e costituzione. La trasformazione del regime politico nelle teorie dell'età rivoluzionaria francese, Milano, Giuffrè, 1993; Il re d'Italia. Prerogative costituzionali e potere politico della Corona (1848-1922), Milano, FrancoAngeli, 1999; Storia costituzionale della monarchia italiana, Roma-Bari, Laterza, 2001.

    - Questo saggio rappresenta il primo - per ciò stesso, dunque, parziale e provvisorio - risultato di una ricerca in via di svolgimento sulla concessione dello Statuto albertino, destinata ad essere pubblicata nella collana "Le grandi date della storia costituzionale" per la casa editrice Il Mulino di Bologna.
I I primi vagiti della dinastia costituzionale
  1. Esiste una fase temporale, collocabile tra la sperimentazione dei modelli istituzionali importati dall'occupazione napoleonica e la concessione dello Statuto albertino, che potremmo chiamare di preistoria costituzionale italiana: una fase 'preistorica' giacché in senso proprio i due elementi qualificativi - tanto la 'costituzionalità' quanto la 'italianità' - sono ancora in via di precisazione e formazione. Non a caso, però, già la retorica ottocentesca si spingeva a ricostruirla - quantomeno, assecondando un contingente opportunismo che è facile comprendere, a partire dalla restaurazione del potere sabaudo seguita alla sconfitta di Bonaparte - nel tentativo di intravedervi le premesse della gloriosa epopea risorgimentale e più precisamente proprio dell'esperienza statutaria1.

  2. In quel torno di anni si assiste in particolare ad un passaggio evolutivo molto importante, coincidente con gli svolgimenti piemontesi dei moti del '20-'21, ma sul quale in fondo la storiografia non ha richiamato l'attenzione come sarebbe stato opportuno. Eppure, lì si pongono premesse decisive per il futuro successo su scala nazionale della dinastia savoiarda, lì si forma il primo cromosoma del DNA costituzionale dei Savoia. Le ragioni della marginalità storiografica riservata a quel momento hanno con ogni probabilità a che fare con una certa radicata difficoltà della maggior parte degli studi di storia, soprattutto quella istituzionale, nel percepire il peso della componente simbolica dei propri oggetti d'analisi: un peso non indifferente, in molti casi, anche se difficilmente misurabile con i più tradizionali strumenti impiegati per ricostruire appunto la storia delle istituzioni, delle amministrazioni, delle costituzioni. Ciò nondimeno, la storia istituzionale, amministrativa e costituzionale è regolarmente punteggiata da vicende leggibili in termini simbolici, rituali o addirittura mitici.

  3. È il caso di ciò che avviene nel Piemonte del 1821, dove basta ricordare che - sulla spinta di moti insurrezionali che hanno più lontane radici europee (partono dalla Spagna allargandosi un po' ovunque nell'area mediterranea) e si manifestano in vari punti del Regno di Sardegna (Alessandria, Asti, Casale, Genova, Vercelli, la stessa Torino) - si procede alla concessione della costituzione spagnola di Cadice, che in quel momento rappresenta il vessillo dei liberali riformisti di mezza Europa2.

  4. Occorrono però alcune precisazioni in proposito, non irrilevanti a fini del discorso che stiamo svolgendo. A concedere la costituzione, infatti, è un giovane Carlo Alberto, nominato reggente della Corona dopo che suo padre Vittorio Emanuele I ha abdicato di fronte alla rivoluzione in corso in favore del proprio fratello, il sessantacinquenne Carlo Felice, che in quel frangente è però lontano dalla capitale, a Modena3. I tempi di movimento delle persone e delle notizie, allora, si misuravano - anche su distanze relativamente brevi - in giorni. Giorni troppo preziosi, in quella situazione di sommosse e agitazioni, perché li si possa perdere attendendo istruzioni precise e affidabili dal nuovo re o addirittura temporeggiando fino al suo ritorno.

  5. Ecco allora il giovane rampollo della linea collaterale della dinastia regnante chiamato provvisoriamente sul trono. Da tempo si mormora di certe sue simpatie per le nuove idee di rinnovamento e si fanno anche esplicite allusioni a suoi presunti contatti con gli ambienti liberali. Ancora oggi gli storici si mostrano guardinghi su questo punto; quel che è sicuro è che nella inerte Torino di inizi Ottocento bastava poco per essere etichettati come riformisti.

  6. Come che sia, l'ingresso in gioco di Carlo Alberto suscita grandi aspettative. I moti del 1820, ricordiamolo, rimangono ovunque essenzialmente filo-monarchici: si concretano prima di tutto in 'richieste' di riforma rivolte a sovrani dei quali non si vuole contestare la legittimità. Cosa meglio, allora, di un reggente giovane (dunque nato e cresciuto in epoca rivoluzionaria4) oltre che in odore di liberalismo quale interlocutore per gli insorti?

  7. Così, sia l'inesperienza unita a un carattere non particolarmente deciso o sia un effettivo entusiasmo riformatore a muovere Carlo Alberto, fatto sta che la costituzione spagnola, frettolosamente tradotta, viene resa piemontese la sera del 13 marzo: il tutto sotto riserva di approvazione da parte del vero re5, ma di questo - nel momento di esaltazione - tutti sembrano dimenticarsi. Non però Carlo Felice che, senza por tempo in mezzo, con un secco proclama che viene recapitato a rotta di collo in Torino da uno scudiero di Carlo Alberto già il giorno 18, sconfessa il nipote e revoca tutte le concessioni. Sdegnato, manda a dire al nipote che "se gli resta nelle vene ancora una goccia di sangue reale dei Savoia"6 deve lasciare immediatamente Torino per raggiungere le truppe regie acquartierate a Novara. Ordini, questi, che Carlo Alberto, con la coda fra le gambe, si affretta ad eseguire. Il reazionario zio7 si rifiuterà persino di ascoltare le sue giustificazioni e, per completarne la mortificazione (quasi a volerlo mettere sotto tutela), lo spedirà direttamente in Toscana, alla corte del suocero granduca Ferdinando III.

  8. La vicenda, per quanto sembri evocare la trama di un feuilleton ottocentesco, è priva di un lieto fine. Almeno nell'immediato. L'intervento dell'esercito austriaco fa definitivamente pendere la bilancia dello scontro militare in favore delle forze della restaurazione: gli insorti vengono sconfitti e Carlo Felice, rientrato nella capitale, può felicemente regnare per altri dieci anni nel più completo immobilismo politico. Carlo Alberto rischia invece di diventare una specie di Philippe-égalité di Casa Savoia. Deve cospargersi il capo di cenere davanti alle regge della Santa Alleanza prima di poter ricostruire la propria credibilità di futuro, affidabile, regnante: per cominciare, andrà ad espiare i propri peccati di gioventù nelle file delle truppe che - ironia della sorte - vengono inviate proprio in Spagna a sedare i moti che hanno originato l'intera vicenda8.

  9. Fin qui, molto sommariamente, i fatti. Fatti che non sembrano discostarsi di molto da quelli che contraddistinguono gli altri fallimenti insurrezionali verificatisi sulla penisola nei primi decenni dell'Ottocento. Dove sta dunque la peculiarità del 1820 piemontese? Sta, in fondo, proprio in quella ambiguità che segnerà il personaggio Carlo Alberto agli occhi impietosi del suo tempo come 'Italo Amleto' o 'Re Tentenna'; il principe riuscirà infatti nell'intento di rifarsi una 'verginità conservatrice' agli occhi delle teste coronate europee e verrà ammesso alla successione dinastica, nel 1831; ma sull'altro fronte, quello dell'opinione pubblica italiana, resterà il rivoluzionario che si è lasciato andare all'onda dei giovanili entusiasmi e per questo ha messo in gioco il proprio futuro politico. Lui, a differenza degli altri sovrani italiani (Ferdinando, Leopoldo, lo stesso Pio IX) non è stato volontario protagonista di un voltafaccia: al più, vi è stato costretto. Il suo avvento al trono porterà con sé una serie di aspettative - talvolta palesi, più spesso latenti - legate a quel non dimenticato episodio del marzo 1821. Quando lo Statuto verrà a confortare tali aspettative, l'aurea di 're magnanimo' comincerà ad illuminarsi appieno: ma raggiungerà il massimo fulgore di lì a poco. I primi mesi del 1848, infatti, porteranno pressoché ovunque in Italia alla 'graziosa' concessione di carte costituzionali; ma dopo una iniziale e generale ventata anti-austriaca, solo il Piemonte continuerà fino alla sfortunata conclusione la guerra sul territorio del Lombardo-Veneto, e solo il Piemonte andrà controcorrente, evitando di accodarsi alla piena restaurazione che spazza via la fragile intelaiatura costituzionale messa in piedi dai moti insurrezionali. Solamente lo Statuto albertino, in sostanza, rimarrà in piedi, e solamente Carlo Alberto resterà fedele alla propria 'magnanima' concessione: nella logica politica di quei mesi il fatto non potrà non caricarsi di un eccezionale significato ideologico e propagandistico9. Il regno di Sardegna apparirà agli occhi di tutti coloro che attendono un cambiamento nelle sorti italiane l'unico credibile alfiere dei nuovi tempi.

  10. La questione, come si vede, non si esaurisce nella singola figura di Carlo Alberto e arriva ben presto a interessare l'intera dinastia.

  11. Nel momento in cui Vittorio Emanuele II sarà chiamato al potere dall'abdicazione paterna, nel marzo 1849, marcherà da subito il proprio regno in senso costituzionale attraverso un...

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