Le pratiche criminali di pietro follerio. Giustizia e poteri nel mezzogiorno italiano del cinquecento

AutorMarco Nicola Miletti
Páginas495-530

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1. Descrivere per prescrivere

E’ cosa funesta quanto comune al dí d’oggi che una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con iraconda compiacenza suggerito da Farinaccio sieno le leggi a cui con sicurezza obbediscono coloro che tremando dovrebbero reggere le vite e le fortune degli uomini

1.

La celebre premessa al Dei delitti e delle pene additava gli autori delle piú rinomate pratiche criminali europee tra i responsabili d’un sistema repressivo crudele e arbitrario. Che provenga da Beccaria o da Pietro Verri, il giudizio suonava senza dubbio calzante ma forse, in qualche misura, unilaterale, perché non teneva conto della capacità dei «praticacci antichi» –per usare l’ironico

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sintagma di Francesco Carrara– di arginare l’«insana ferocia» dei sistemi penali d’ancien régime mediante sofisticati strumenti dottrinali2.

Di opere come quelle stigmatizzate nel Dei delitti il Mezzogiorno continentale d’Italia, durante i secoli della dominazione spagnola, fu vivaio particolarmente fertile. Attingendo ad una tradizione che, sin dall’epoca aragonese, aveva mostrato una spiccata propensione per la dimensione giudiziaria3, le pratiche ‘napoletane’ del Cinquecento assursero a fama europea: un destino che premiò specialmente i volumi di Roberto Maranta, Tommaso Grammatico, Pietro Follerio, Ludovico Carerio, Prospero Caravita, Giovan Berardino Moscatello4.

Ad identificarle non erano la denominazione editoriale5; né la promessa, ta-

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lora esplicitata sin dal frontespizio, di rivolgersi ad avvocati, giudici, causidici per alleviarne gli affanni quotidiani; né l’intercalare di incisi quali semper vidi practicari, in hoc Regno servatur, di cui abusavano anche i repertori casistici. Semmai i tratti comuni alle pratiche criminali –anche a quelle extra-regnicole– consistevano nella netta perimetrazione del tema (il diritto penale, il rito); nella tendenziale esaustività dell’indagine, disposta secondo un filo logico (a differenza di consilia e decisiones, contenenti sequenze per lo piú cronologiche); nel metodo argomentativo (la posizione della regula corretta da ampliationes e limitationes); nel collaudo giurisprudenziale delle tesi enunciate, senza peraltro disdegnare un cospicuo corredo dottrinale.

Proprio in virtú delle ricadute applicative le pratiche non rappresentavano uno sterile progetto culturale. Esse assumevano –come è stato rilevato in anni recenti– un’ambigua valenza politica, giacché da un lato avallavano i mecca-nismi della repressione per via giudiziaria, dall’altro approntavano antidoti al dilagare della iurisdictio e alle intrusioni del principe nei templi della giustizia6.

Volendo azzardare una definizione che tenga conto di questa molteplicità di funzioni non sempre coerenti, potrebbe classificarsi pratica criminale un testo giuridico di contenuto processualistico che si prefigge di descrivere lo svolgimento dell’intero procedimento penale (la divaricazione tra i due principali modelli, la scansione delle fasi, le infinite varianti, i possibili esiti) o d’un suo segmento qualificante, con l’intento non meramente accademico né tanto meno cronachistico di istruire gli operatori del diritto; di orientare la prassi dei

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tribunali e persino le scelte del legislatore; di determinare gli equilibri interni all’amministrazione della giustizia e tra questa e gli altri poteri pubblici7.

Strumenti non trascurabili di conformazione della macchina giudiziaria alle esigenze dello Stato moderno, le pratiche criminali conobbero nel secolo XVI una straordinaria fioritura, affrancandosi dall’orizzonte puramente universitario (sebbene talune di esse fossero firmate da professori)8e marcando la specializzazione tra rito civile e criminale9. A questa stagione risalgono i volumi di Pietro Follerio, dei quali le pagine seguenti propongono una sintetica lettura

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tecnico-processuale, confidando di stimolare ulteriori sondaggi su un giacimento culturale alquanto negletto.

2. Prassi provinciale e gusto umanistico: le opere di Follerio

Nato a Sanseverino, nel salernitano, da famiglia di ceppo ferrarese, uditore –dalla fine degli anni Quaranta– del principe di Salerno Ferrante Sanseverino e poi, designato da Girolamo Seripando, presso la curia arcivescovile salernitana, Follerio fu autore di tre pratiche: la Practica criminalis dialogica, pronta il 13 dicembre 1553, pubblicata l’anno seguente sotto gli auspici di Tommaso Gram-matico e ritoccata almeno sino al 156210; la Praxis censualis (1559), una sorta di commento alla prammatica aragonese che recepiva la bolla sui censi di Niccolò V11; e la Canonica criminalis praxis, terminata nel 1557, stampata per la prima volta nel 1561 e denominata anche Marcellina perché dedicata al reggente di Cancelleria Marcello Pignone, marchese di Oriolo12. Il giurista sanseverinese

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scrisse anche additiones allo Speculum di Maranta13. Non riuscí invece ad ulti-mare una pratica civile su materie laiche e beneficiali14.

Nella dedica al reggente Francesco Antonio Villani, anteposta alla Practica criminalis, l’Autore ammetteva che i maestri cimentatisi nella medesima inestricabile materia, come Angelo Gambiglioni, Jacopo da Belviso, Alberto da Gandino, non avevano lasciato nulla di intactum o inexplicatum e che, per di piú, le loro fatiche avevano avuto recenti continuatori del calibro di Marsili, Carerio e il praestantissimus Grammatico. Nonostante ciò, egli constatava la perdurante carenza di strumenti altrettanto ‘versatili’ che avessero come fulcro la prassi criminale napoletana e fossero d’ausilio alla formazione del giurista15.

Per la verità, in quegli anni la lamentata lacuna editoriale, proprio grazie alla diffusione dei tomi di Carerio, Grammatico e del meno ‘penalistico’ Maranta, si andava colmando. Ciò tuttavia non sminuisce l’originalità dell’impresa folleriana. Essa rifulge anzitutto nell’impostazione –di gusto tipicamente umanistico– per modum dialogi: la trama della Practica criminalis era infatti costruita come una discussione tra Fisco, Inquisito, Giudice (interpretati, ma non nelle prime edizioni, dallo stesso Follerio, da Gambiglioni e da Alberto da Gandino) cui toccava illustrare, rispettivamente, la fisci utilitas, la defensio reorum e le soluzioni ‘precettive’16. L’opera era suddivisa in sette parti, concernenti la moralità dei giudici; la procedura in criminalibus (sezione a sua volta bipartita a seconda che l’imputato fosse contumace ovvero captus vel comparens); la procedura contro il reo confesso (articolata in quattro sotto-tipologie); l’esecuzione

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della pena; il sindacato degli officiali a conclusione del mandato; le formule dei capitula relativi a taluni reati e le speculari eccezioni dei rei; i pregi e i vantaggi della magistratura. Una sorta di appendice ospitava, sin dall’editio princeps, i fragmenta, brevi notazioni relative a singole figure criminose o a regole del processo rivisitate alla luce del ius Regni17. La struttura esterna presentava, dunque, un andamento circolare: si apriva e si chiudeva con la deontologia della magistratura, autentico perno della visione ‘costituzionale’ folleriana. Lo stile espositivo, pur discontinuo, si sganciava dalle gabbie scolastiche e dai libri terribiles e si conformava al fraseggio sincopato –perché inframmezzato dai rinvii alle auctoritates– corrente nella giurisprudenza a stampa. Non mancavano incursioni ‘umanistiche’ nella storia del processo romano, su cui l’Autore palesava una fine erudizione18.

La Canonica criminalis praxis era invece incentrata sulla procedura del tribunale arcivescovile di Salerno –comparata a quella degli altri tribunali regnicoli e della Curia romana– al tempo dell’attivo riformismo del cardinal Seripando19. Divisa anch’essa in quattro parti, riguardanti i moralia, la procedura giudiziale (iudicialia), la decisione (iuridicialia), l’ordo procedendi contro mona-ci e chierici20, essa denotava l’indubbia maturazione teoretica e metodologica dell’Autore: basti pensare ai fitti richiami alla Summa Theologica, trascelti per risolvere concreti problemi processuali; o alle citazioni di letteratura latina, impiegate nella chiave paradigmatica e moralistica consona ai giuristi culti. Nella Canonica praxis Follerio appariva persuaso che la ricerca della verità imponesse di accentuare la dialettica –di stampo ciceroniano– tra accusa e difesa. Egli rite-

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neva inoltre che i valori dell’aequitas e della veritas esigessero nel foro ecclesiastico uno zelo speciale, da adoperare ad esempio nel vaglio della moralità e dei moventi dei testimoni. Il confronto con l’edificante aneddotica drenata dalla storia romana autorizzava sconsolate considerazioni circa la decadenza del senso di giustizia, pestis insinuatasi non solo nei tribunali secolari ma anche negli ambienti religiosi. Non a caso la Marcellina riservava alcuni capitoli ai crimini percepiti come particolarmente empi: sacrilegio, simonia, delitto carnale, usura21.

In via di principio, ammessa la piena liceità della differenziazione della pena a seconda della dignitas dell’imputato, Follerio riconosceva nella Canonica praxis che il peccato commesso dal religioso meritasse punizioni piú severe di quelle impartite al laico allorché costituisse violazione d’un voto (castità, povertà), esprimesse disprezzo, suscitasse scandalo. Analogamente, il giurista sanseverinese, d’accordo con l’insegnamento dei commentatori ma anche con una precisa indicazione di Tiraqueau, non escludeva che talora lo stato notabilare del reo aggravasse la riprovevolezza del crime...

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