Qualche osservazione sulle potenzialità generative semantiche e pragmatiche della lingua costituzionale: il punto di vista dei linguisti

AutorPatrizia Brugnoli
CargoTraduttrice Ambasciata Britannica di Roma
Páginas13-31

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Dedico questo articolo alla memoria della mia carissima professoressa María del Carmen Sánchez Montero, già docente di lingua spagnola presso la Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori dell’Università degli Studi di Trieste (Italia), per la passione e l’amore trasmessomi per questa materia.

Introduzione

Il giurista spagnolo Prieto de Pedro afferma che la lingua costituzionale si può qualificare come un tipo specifico di lingua normativa, anche se possiede delle caratteristiche peculiari che la distinguono dalla lingua utilizzata nelle leggi ordinarie e nei regolamenti (1992: 41).

Questi tratti peculiari della lingua costituzionale (1992: 41-42) sono un alto grado d’astrattezza degli enunciati costituzionali e una grande concisione delle frasi. Inoltre, la lingua costituzionale abbonda nell’uso di figure retoriche, in particolare modo, di metafore, mentre scarseggia in definizioni e descrizioni. Altra peculiarità della lingua costituzionale è la densità tecnicogiuridica dei concetti (la cosiddetta «intensionalità» semantica degli enunciati costituzionali, di cui parleremo in seguito), oltre che una grande coerenza nello sviluppo concettuale dei testi costituzionali, caratteristica questa forse dovuta all’enorme impegno dei Costituenti nel redigere il progetto.

L’impegno dei Costituenti nello stilare la Costituzione è testimoniato dalla complessità dei lavori parlamentari: ciò dimostra il grande sforzo collettivo non solo dei padri fondatori, ma anche di tutti quei giuristi, di tutti quegli esperti di lingua e di tutti quei personaggi autorevoli che hanno partecipato, con le loro consulenze linguistiche ed extralinguistiche, al proces-Page 14so di formazione della Costituzione (1992: 41-42). Anche il professor Valter Deon (1990: 50-57; 1998: 195-211), ribadisce il concetto che la lingua della Costituzione italiana è esemplare e dimostra quest’affermazione sulla base di un’attenta valutazione della genesi della scrittura del dettato costituzionale italiano, ispirata dal confronto e dal continuo dibattito tra tutte le forze democratiche (1998: 195). Deon (1998: 195) sottolinea anche che il segno di una cultura e sensibilità linguistica dei Costituenti è «la forte e diffusa coscienza metalinguistica che si ritrova in quasi tutti gli interventi nel dibattito generale sul testo predisposto dalla Commissione dei 75 e nella discussione dei singoli articoli.» (1998: 195). Queste osservazioni trovano pienamente d’accordo anche il linguista Michele Cortelazzo (1993: 33), il quale elogia la Costituzione italiana, poiché linguisticamente corretta: è coerentemente strutturata, lineare dal punto di vista sintattico e, al contempo, precisa nel lessico.

Il presente articolo intende proporre alcune riflessioni linguistiche relative ad alcuni aspetti sia semantici, sia pragmatici, della lingua costituzionale con l’intento di porre in luce questa interessantissima lingua speciale, ma anche e soprattutto allo scopo di contribuire al dialogo interdisciplinare tra linguisti e giuristi.

Le considerazioni linguistiche sulla lingua costituzionale fatte in questa sede riguardano in particolare sia la lingua costituzionale italiana sia la lingua costituzionale spagnola, già indagate anche in precedenti opere (Brugnoli 2001: 160-171; Brugnoli 2002a; Brugnoli 2002). Esempi tratti dalle due Costituzioni avallano le osservazioni riportate.

Le potenzialità semantiche della lingua costituzionale

Il costituzionalista Ruggeri (1999: 103) sottolinea come la lingua costituzionale non sia mai isolata dal contesto culturale giuridico, ma come sia proprio la cultura giuridica a fare da tramite tra la vecchia realtà costituzionale e la nuova. Egli mette in luce come «dietro ad un nuovo enunciato [costituzionale] possono, infatti, stare le suggestioni e le sollecitazioni più varie, provenienti dal mondo della politica, della pratica (sia amministrativa che giurisprudenziale), della stessa normazione ordinaria pregressa e, insomma, dell’esperienza nella totalità delle sue manifestazioni» (1999: 103).

In sostanza, il giurista mette in rilievo l’influenza ed i continui spunti innovatori che la lingua costituzionale riceve dall’esterno per innovare la stessa lingua costituzionale. Infatti, constata che il materiale linguistico, of-Page 15ferto alla Costituzione per rinnovarsi, è dato soprattutto dalla produzione legislativa, in particolare dalla produzione di leggi ordinarie, fonte inesauribile d’interpretazione costituzionale: l’interconnessione tra la lingua giuridica e la lingua costituzionale favorisce così «la reciproca alimentazione semantica» (1999: 105) e le continue generazioni di senso. La Costituzione, quindi, si serve dei materiali offerti dagli atti comuni di normazione, anche se la Costituzione non si limita ad assorbirli passivamente, ma «nel momento in cui raccoglie, rielabora e sollecita sempre nuove produzioni di senso» (1999: 105).

A questa conclusione, perviene anche il giurista Silvestri il quale, a proposito della lingua costituzionale italiana, fa delle interessanti precisazioni, in parte per sfatare dei «miti semantici» intorno a tale lingua. Silvestri (1989: 237) fa due importanti considerazioni sul valore semantico dei termini costituzionali.

In primo luogo, egli sostiene che «la natura costituzionale delle norme non implica necessariamente una maggior ampiezza di significato dei termini in esse contenute» (1989: 237).

In secondo luogo, egli afferma anche che i mutamenti di significato dei termini appartenenti ai vari rami del diritto non sempre trovano nella Costituzione «un contesto razionalizzatore ... un valore semantico unificante» (1989: 237).

Le Carte costituzionali, perciò, non si pongono automaticamente come «un terreno comune, nel quale si precisano i valori di base espressi in parole ed enunciati validamente utilizzabili in tutti i settori del sistema normativo» (1989: 233), come a dire che il valore semantico dei termini costituzionali non è sufficiente a spiegare il valore semantico degli stessi termini in tutti i contesti giuridici.

Per confutare la prima affermazione, Silvestri (1989: 236) porta l’esempio della locuzione «buon costume», a cui fa riferimento sia l’articolo 19, sia l’articolo 21 della Costituzione italiana.

Egli dimostra che il significato di tale espressione non viene affatto delucidato nel testo costituzionale italiano. Infatti, esso varia a seconda delle circostanze di tempo e luogo, ed è definito dall’evoluzione del costume sociale. Secondo l’autore, la nozione di «buon costume» del Codice civile italiano è da considerarsi, addirittura, più ampia rispetto alla nozione dedotta dalla Costituzione. Infatti se per il diritto costituzionale, agli articoli prima menzionati, esso «costituisce un limite posto dal costituente alla libertà di culto (art. 19) e di libera manifestazione del pensiero (art. 21) a tutela del pudore e della pubblica decenza contro le oscenità» (ndg 1998: 182, voce «buon costume»), per il diritto civile, «il buon costume rileva aiPage 16 fini della illiceità del negozio giuridico; infatti, il negozio è illecito quando la causa (art. 1343 c.c.), il motivo determinante e comune (art. 1345 c.c.), l’oggetto (art. 1446 c.c.) o, ancora, la condizione (art. 1354 c.c.) sono illeciti, cioè contrari a norme imperative o all’ordine pubblico o al buon costume» (ndg 1998: 182).

A sostegno della seconda affermazione, secondo la quale i mutamenti di significato dei termini appartenenti ai vari rami del diritto non sempre trovano nella Costituzione un valore semantico unificante, l’autore afferma che «i vocaboli della Costituzione possono avere intensione ed estensione diverse dagli stessi vocaboli usati in contesti normativi specifici, facenti parte di singoli settori dell’ordinamento» (Silvestri 1989: 235).

Qui viene mutuata dalla concezione contestualistica della semantica, in particolare modo da Wittgenstein, la polarità «intensione-estensione», dove per «intensione» s’intende «l’insieme delle proprietà che costituiscono il contenuto cognitivo del segno» (Berruto 1979: 238), o «l’insieme dei tratti semantici, o ‘semi’ ... che lo [un segno] costituiscono» (Dardano 1996: 299), mentre per «estensione» s’intende «il complesso degli oggetti che sono indicati da quel segno» (Dardano 1996: 299).

Dell’intensionalità dei termini giuridici parla anche Goodrich, il quale sostiene che «lacking any clear denotation, the legal lexicon facilitates the directly intentional possibilities of the language it uses, its concrete instancing is intentionally rather than lexically determined. In short, it offers its authorised users the greatest possible scope or power of judgement, of relexicalisation and of assimilation of situation and of other languages and vocabularies. The authority of the law, its power to directly determinate meaning, might be said to rest, in this respect, upon a wholly lateral use of a symbolic vocabulary» (Goodrich 1987: 180).

Anche se è vero che la lingua costituzionale ha un grado massimo di intensionalità (e, quindi, di potenzialità semantica), è pur sempre vero che i criteri in base ai quali si determina l’intensione di un vocabolo non sono univoci, ma dipendono dalle finalità dei vari rami del diritto (civile, penale, amministrativo, costituzionale, ecc.).

Silvestri, pertanto, fa notare che la difficoltà di stabilire con esattezza le proprietà fondamentali dei termini di una Costituzione, ovvero l’intensione, si estende anche agli oggetti cui le proprietà si riferiscono, ovvero all’estensione (1989: 235). Questo significa che le parole di una Costituzione possono avere intensione ed estensione diverse dagli stessi termini usati in contesti diversi da quello costituzionale.

A riprova di ciò, Silvestri porta come esempio la parola «domicilio», la quale ha un significato nel diritto costituzionale che sembra essere molto piùPage 17 ampio rispetto al significato assunto, ad esempio, nell’articolo 43 del Codice civile italiano. Quest’ultimo definisce il «domicilio» come «la sede principale dei suoi affari ed interessi» (cci 1995: 11) (non è, quindi, necessario che il soggetto dimori nel domicilio), mentre il significato del termine nella Costituzione ricomprende il significato del codice civile: per il diritto costituzionale, infatti, il «domicilio» corrisponde a «qualunque luogo (abitazione, studio, roulotte, stanza d’albergo, ecc.) in cui la persona esplica la propria vita privata e professionale (residenza, dimora, ecc.)» (coe 1997: 14).

Sulla base di queste riflessioni, Silvestri (1989: 235-236) afferma che, dal punto di vista semantico, bisogna rinunciare a considerare il significato delle parole della Costituzione come il fondamento semantico, il paradigma di tutti gli altri rami del diritto.

Considerando il valore semantico dei termini della Costituzione, l’autore fa notare che, talvolta, l’uso degli stessi è desumibile dalla Costituzione, mentre altre volte dev’essere rapportato alle regole d’uso di una comunità più vasta di quella degli operatori del diritto; così facendo, ancora una volta, Silvestri vuole dimostrare che non sempre la Costituzione rappresenta un contesto razionalizzatore per tutti i termini giuridici.

Il giurista porta a sostegno della sua tesi due esempi di principi costituzionalmente garantiti: il principio di irretroattività della legge penale (Cost., art. 25) e il diritto alla salute (Cost., art. 32). Mentre il principio di irretroattività fa perno sul termine «legge», termine che può benissimo essere interpretato secondo il significato desumibile dagli artt. 70 sgg. della Costituzione italiana, la tutela del diritto alla salute fa riferimento al termine «diritto».

Questo termine assume un significato non definibile a partire da altre parole appartenenti al medesimo testo costituzionale. Pertanto, il significato di «diritto» si ricostruisce avendo riguardo alle regole d’uso di una comunità più vasta di quella degli operatori del diritto, con la conseguenza che viene meno la precisione tecnica del termine. Infatti, la stessa espressione «diritto alla salute» ha un significato e una portata ben diversa a seconda che si riferisca alla Costituzione o alla legge ordinaria (Silvestri 1989: 245-6).

Nel primo caso fa riferimento «all’aspettativa dei cittadini di uno stato sociale ad usufruire di interventi pubblici a tutela dell’ambiente e di prestazioni sanitarie adeguate ai propri bisogni per conservare, acquistare o riacquistare una condizione media di benessere psico-fisico» (1989: 246). Nel secondo caso «acquista il significato di pretesa ... ad ottenere le prestazioni sanitarie e gli interventi a tutela dell’ambiente previsti dalle leggi» (1989: 246).

Un ultimo punto merita di essere esaminato a questo proposito. Vi sono vari articoli (art. 3, co. 2; art. 35 e art. 38) che riportano il termine «la-Page 18voratori» : tale termine assume una diversa estensione di significato a seconda della disposizione costituzionali nella quale sia inserito. Ad esempio, nell’art. 3, co. 2, il richiamo ai «lavoratori» si riferisce a categorie che si trovano in condizioni di inferiorità dovute all’assetto socio-economico. Il termine, pertanto, non si riferisce alle disuguaglianze riassunte nel rapporto di lavoro operaio, bensì a quelle categorie che in diversi periodi storici e congiunturali si troveranno svantaggiate (Cuocolo 1994: 699-700). All’art. 35, co. 2 «lavoratori» si riferisce prevalentemente ai lavoratori subordinati (coe 1997: 75), in particolare alla formazione dei giovani attraverso la creazione degli istituti professionali di Stato o con appositi strumenti giuridici come l’apprendistato, il contratto di formazione lavoro, i tirocini informativi e le borse lavoro (coe 1997: 76). Infine, all’art. 38, co. 2, il termine «lavoratori» fa riferimento a chi vive solo con i proventi del proprio lavoro e che, non avendo altre forme di reddito, si trova nelle condizioni previste per vantare, verso lo Stato, le prestazioni previdenziali (coe 1997: 80).

Con questi esempi è stato messo in evidenza che «le potenzialità semantiche [dei termini della Costituzione] non derivano dalla minore o maggiore indeterminatezza delle parole o degli enunciati, ma dal diverso ambito di riferimento e quindi dalle diverse regole d’uso della medesima espressione linguistica» (1989: 246).

A tale riguardo bisogna operare una netta distinzione tra ambiguità e vaghezza nel diritto: questi due termini non sono affatto sinonimi, come apparentemente potrebbe sembrare. L’ambiguità è l’indeterminazione semantica, legata alla polisemia; mentre la vaghezza è l’indeterminazione casistica, ovvero non si conoscono quali fattispecie concrete rientrino nella fattispecie astratta contemplata dal termine. Si può così concludere che mentre la vaghezza è consustanziale e necessaria alle parole contenute nei testi di legge poiché —come ha illustrato Waismann (1951: 121)— rappresenta una incompletezza essenziale, l’ambiguità è rappresentata da un eccesso di significato. Per capire la differenza riporto un illuminante esempio proposto da Twining and Miers (1982: 211):

A testator leaves his vessels to his son. If the question is whether this includes his flying boat, it is the vagueness of ‘vessels’ which is the source of the trouble; but if the question is whether the bequest refers to the testator’s boats or drinking cups, ambiguity is responsible.

Termini con un alto grado di indeterminatezza non sono presenti solo a livello costituzionale, ma a tutti i livelli della produzione normativa e non sarebbe utile fondare una teoria della lingua costituzionale su questo presupposto (Schauer 1993: 802). Tuttavia, si possono ugualmente fare due considerazioni.

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In primo luogo, si può dire che la lingua costituzionale «ripropone e rinnova le condizioni di legittimazione dell’intero ordinamento giuridico e fornisce la fondazione generale dei processi comunicativi tecnicizzati, che si svolgono nelle varie sfere del mondo dei fenomeni giuridici.» (Silvestri 1989: 247). La lingua costituzionale, pertanto, fa «continuo riferimento a convinzioni morali, prassi sociali ed evoluzioni politiche e, in forza della sua superiorità gerarchica e della funzione legittimante dei principi in essa contenuti, sottopone tutte le disposizioni normative dell’ordinamento ad uno stress ininterrotto» (1989: 247).

In secondo luogo, la lingua costituzionale forza la lingua giuridica ad adattarsi alle nuove esigenze del diritto, senza che questa forzatura implichi necessariamente un «ampliamento del significato degli enunciati, giacché le esigenze di legittimazione possono condurre talvolta a notevoli restrizioni» (1989: 247).

Le espressioni linguistiche costituzionali assolvono alla loro funzione legittimante poiché «appaiono agli occhi dell’opinione pubblica come un coagulo di teorie morali, politiche e sociali adeguate, o adeguabili, alla cultura diffusa e dominante in un dato momento storico» (1989: 247). Questa forzatura della lingua giuridica ad opera della costituzionale avviene in modo tale da provocare continui aggiustamenti e rettifiche di significato in senso conforme al sentire collettivo di un dato periodo storico (1989: 247-8). Pertanto, se la lingua costituzionale legittima i mutamenti di significato in un dato periodo storico, il testo costituzionale presenta una serie di potenzialità semantiche non conosciute, e neanche immaginabili, dai Costituenti (Schauer 1993: 809).

Il significato dei termini costituzionali può essere analizzato anche dal punto di vista temporale, poiché «il decorso temporale gioca un ruolo importante nella precisazione del significato delle sue norme» (Silvestri 1989: 251), specialmente di quelle costituzionali.

L’evoluzione diacronica del significato dei termini costituzionali risulta evidente da due articoli della Costituzione italiana: l’art. 40 sul diritto allo sciopero e l’art. 9, co. 2 sulla tutela ambientale. In entrambi i casi si sono verificate delle estensioni del valore semantico delle parole «sciopero» e «paesaggio».

Nel primo caso, l’evoluzione (in senso estensivo) del significato del termine «sciopero» si è resa necessaria poiché sono sorte nuove forme di agitazione sindacale, quale lo sciopero a singhiozzo, a scacchiera, lo sciopero bianco o quello a sorpresa (NDG 1998: 1105, voce «sciopero»), tutte forme anomale di sciopero, sicuramente non contemplate dal legislatore originario, e legate allo sviluppo sempre più complesso dei rapporti di lavoro odierni.

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Nel secondo caso, il significato della parola «paesaggio» ha subito notevoli estensioni: infatti, originariamente, il termine indicava solo le bellezze naturali, la natura (coe 1997: 9), quindi, il legislatore tendeva a tutelare solo lo scenario naturale. Col passare del tempo, però, la giurisprudenza ha fornito un’accezione ben più ampia, includendovi la nozione di «ambiente», «l’insieme di fattori fisici, chimici, biologici e sociali» (NDG 1998: 58, voce «ambiente»).

La lingua costituzionale ha, in più, una sua forza emozionale, un plusvalore semantico che rafforza la sua funzione legittimante (1993: 801); infatti, molti dei suoi principi e delle sue disposizioni hanno un valore metaforico ed emozionale, e sono carichi di potenzialità generative. Sarà il sentire collettivo di una data società in una data epoca a razionalizzare e rendere concreto il contenuto di quelle espressioni costituzionali «metaforiche». Esempi di queste espressioni dalle grandi potenzialità metaforiche sono l’art. 52 della Costituzione italiana («la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino.»); l’art. 3 («tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge...»), ed il preambolo della Costituzione spagnola (dove si parla di «un orden económico y social justo» e di «digna calidad de vida»).

È importante sottolineare che la vaghezza dei termini costituzionali di cui si è parlato precedentemente non viene a coincidere con i principi generali del diritto quali i concetti di «buona fede», «interesse pubblico», «moralità», negligenza», ecc. Secondo l’opinione di Pound (1930: 118), i principi generali possiedono tre caratteristiche: implicano un certo giudizio morale sulla condotta («equo», «coscienzioso», «ragionevole», «prudente», «diligente»...); si richiamano al senso comune o intuito e, infine, non viene dato al principio generale un contenuto esatto, ma il loro contenuto è legato ai tempi, luoghi e circostanze. Pertanto non è vero che tutti i termini o norme vaghe siano principi generali.

Nella Costituzione italiana vi sono principi generali quali «buon costume» (art. 19; art. 21) , «il buon andamento della pubblica amministrazione» (art. 97, 1) e vi sono termini vaghi quali «numerose» in «famiglie numerose» (art. 31): una famiglia con tre figli, considerato i bassi livelli di natalità in Italia, è da considerarsi numerosa? È naturale che una famiglia con dieci figli sia numerosa, ma alcune volte non è possibile stabilire se un caso rientri o meno nella fattispecie astratta prevista dalla norma costituzionale.

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Le potenzialità pragmatiche della lingua costituzionale

Passerò ora al secondo intento di questo articolo, che estende le considerazioni sulle potenzialità della lingua costituzionale anche all’aspetto pragmatico.

Tutti gli enunciati linguistici sono costituiti da una struttura superficiale, apparentemente lineare, e da una struttura più profonda, e più complessa; tale distinzione appartiene a quel filone della linguistica denominato da Chomsky, «generativismo» o «grammatica generativa». Quello che si vuole sostenere in questa seconda parte è che la lingua costituzionale e quella normativa possono «costruire un numero potenzialmente infinito di derivazioni sintattiche che consentono di chiarire le relazioni tra una struttura [linguistica] profonda e una struttura superficiale» (Silvestri 1989: 249).

In questo ambito s’inseriscono le osservazioni sull’aspetto pragmatico della lingua costituzionale, in particolare sul carattere prescrittivo e performativo degli enunciati costituzionali.

Negli enunciati costituzionali spesso viene usato l’indicativo presente per indicare, in realtà, una prescrizione (è questo il caso del cosiddetto «indicativo prescrittivo», usato in luogo del verbo deontico «dovere»), probabilmente per sottolineare l’ineluttabilità dell’azione (Jori 1994: 2096).

Un esempio è dato dall’art. 32 della Costituzione italiana che afferma: «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». In questo caso siamo in presenza di una norma prescrittiva formulata in linguaggio descrittivo, interpretabile dal giurista come «deve tutelare» e «deve garantire».

Altro esempio di prescrittività è il seguente: «La Repubblica [...] adegua le sue leggi alle esigenze delle autonomie locali [...]» (Disp. trans. e fin., IX).

Come sottolinea Silvestri, questo tipo di enunciazioni «senza la struttura deontica profonda potrebbero essere facilmente dimostrate false» (1989: 250): infatti, tali proposizioni prevedono comportamenti da tenere che non sono ancora stati attuati al momento della prescrizione e che potrebbero venire disattesi (Mortara Garavelli 2001: 60).

Vi sono altri enunciati costituzionali in cui l’uso del presente indicativo non ha valenza prescrittiva, bensì costitutiva (è il cosiddetto «indicativo costitutivo»).

È questo il caso dell’art.10 della Costituzione italiana: «l’ordinamento giuridico italiano si conforma (cors. agg.) alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». In questo caso «si conforma» non è sostituibile con «deve conformarsi», poiché l’enunciato contestualmente pro-Page 22voca il conformarsi dell’ordinamento italiano alle norme internazionali; e «in virtù dell’art.10 Cost. si è realizzato un meccanismo di automatico adattamento del nostro sistema giuridico ad una parte del diritto internazionale, precisamente a quella parte di esso che, come dice lo stesso art.10, è generalmente riconosciuta. Questo meccanismo si è realizzato proprio grazie al fatto che la norma non prescrive l’adattamento ma lo attua» (Carcaterra 1994: 222).

La differenza tra l’enunciato costituzionale dell’art.32 e l’art.10 è grande. Le proposizioni «prescrittive» esercitano «una pressione sul comportamento di qualcuno ... le situazioni o i fatti prescritti si pongono in maniera mediata, vengono in essere attraverso un iter che comprende almeno due atti distinti e successivi, quello di chi prescrive e quello, decisivo, di chi esegue la prescrizione» (Carcaterra 1994: 224-225).

Le proposizioni «costitutive», invece, «producono l’effetto, che è il loro scopo e il loro contenuto, realizzandolo da sé: lo costituiscono — ecco la loro caratteristica — nel momento stesso del loro entrare in vigore ... le situazioni e i fatti costituiti o disposti si producono in maniera immediata sono destinati ad acquistare realtà mercé un unico atto, quello (eventualmente complesso) col quale si emana la norma, senza che occorra fare appello all’obbedienza o alla collaborazione esecutiva di qualcuno» (1994: 224-225).

In aggiunta alle proposizioni assertive (o descrittive) e alle proposizioni precettive (o prescrittive), le proposizioni costitutive rappresentano nel discorso giuridico, e in quello costituzionale qui studiato, un nuovo genere proposizionale (Carcaterra 1994: 225-6). Infatti, queste proposizioni si qualificano come una forma «straordinariamente forte di performatività» (Garzone 1996: 51).

Il concetto di enunciati «performativi» è stato formulato da John Langshaw Austin nell’opera «How to do things with words». Secondo Austin, l’enunciato è performativo quando «the uttering of the sentence is, or is part of, the doing of an action» (1976: 5); la conseguenza è che «to say something is to do something; or in which by saying or in saying something we are doing something» (1976: 12). Pertanto, come afferma Carcaterra, «il loquente fa ciò che dice e per il fatto che lo dice» (1994: 226).

Dal punto di vista morfo-sintattico, gli enunciati performativi generalmente presentano verbi nella prima persona singolare della forma attiva del presente dell’indicativo; tuttavia, questi enunciati possono essere espressi anche nella prima persona plurale. Inoltre il presente dell’indicativo è ammesso anche con verbo in forma passiva alla seconda o terza persona singolare o plurale.

Gli enunciati costitutivi, visti come tipo particolare di enunciati perfor-Page 23mativi, hanno la capacità di instaurare un nuovo stato di cose (questi enunciati costitutivi sono anche detti «thetici»).

Considerando come forma dell’enunciato quella formata da una frase principale con verbo dichiarativo-ingiuntivo (la frase principale è stata denominata «prefisso performativo» da Levinson) più una secondaria formata dal «dictum» o «disposto», gli enunciati tetici presentano una particolare caratteristica: la transitività. Infatti, la loro forza performativa non si limita al verbo della frase principale, ma investe anche la proposizione contenuta nel «dictum», attuando contestualmente entrambi gli atti, quello della proposizione principale e quello del «dictum». Questa proprietà è importante in testi come quello normativo e costituzionale, poiché questi testi spesso si limitano al solo disposto.

Ad esempio, l’art. 48 della Costituzione italiana conferisce contestualmente il voto a tutti i maggiorenni cittadini italiani, senza premettere un verbo performativo all’articolo: «Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età».

Il caso appena citato, come molti casi della lingua legislativa e costituzionale, illustra un performativo-costitutivo espresso in forma ellittica, in cui viene omesso il verbo performativo dispositivo e l’articolo si limita ad enunciare la situazione disposta — il disposto — che appare in forma descrittiva: nell’art. 48, infatti, la struttura profonda «con la presente norma si dispone/stabilisce che sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età», che è il senso vero della norma, si riduce concretamente al semplice enunciato «sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età».

Pertanto la «proposizione dipendente che volta a volta riempie la lacuna indica ciò che non a caso la scienza giuridica dice ‘disposto’, ossia l’effetto giuridico che la norma, appunto disponendolo, realizza nell’atto medesimo della sua posizione o entrata in vigore» (Carcaterra 1994: 228).

In verità, in ambito costituzionale, il prefisso performativo, che indica la soggettività dell’enunciato, è spesso dislocato al di fuori dell’enunciato e si trova nelle premesse del testo costituzionale stesso ove, con speciali formule, si specifica l’autorità di chi emette il testo (ad esempio, nel preambolo costituzionale). Tale autorità è poi avallata dalla firma finale della persona investita dei legittimi poteri, e questo può avvenire grazie alla proprietà transitiva degli enunciati tetici che garantisce l’estensione al disposto del valore performativo proprio della formula introduttiva.

Nella Costituzione italiana, ad esempio, il prefisso performativo è dislocato nella formula sacramentale, all’inizio del dettato costituzionale, che attribuisce al Capo dello Stato italiano l’autorità garante della forza degliPage 24 enunciati performativi costituzionali: «Il Capo Provvisorio dello Stato promulga la Costituzione della Repubblica italiana nel seguente testo ...».

Anche la Costituzione spagnola presenta il prefisso performativo nella formula introduttiva: «Don Juan Carlos I, Rey de España, a todos los que la presente vieren y entendieren, sabed: que las Cortes han aprobado y el pueblo español ratificado la siguiente Constitución: ... En consecuencia, las Cortes aprueban y el pueblo español ratifica la siguiente ...».

Come si può ben vedere dagli esempi proposti e come fa notare Garzone (1996: 60), «il prefisso performativo è impostato in modo da conferire all’intero testo normativo lo status di apposizione rispetto al complemento diretto della proposizione principale» (nell’esempio italiano, «nel seguente testo» e in quello spagnolo, «la siguiente Constitución»); in questo caso il testo si trova in posizione appositiva rispetto a certe espressioni.

Talvolta il prefisso performativo viene addirittura eliso, non comparendo nemmeno in posizione paratestuale o dislocata; in questi casi la forza performativa dell’enunciato è garantita dal quadro istituzionale o convenzionale in cui l’enunciato si colloca, sicché la forza del disposto deriva comunque da un soggetto che ne garantisce la validità (Garzone 1996: 60).

Si è fin qui spiegato che i performativi tetici presentano il carattere di azione e sono produttivi di effetti extralinguistici, oltre che linguistici. Questa caratteristica degli enunciati tetici, ovvero quella di produrre effetti extralinguistici determinati dal contenuto proposizionale e di produrre effetti extralinguistici reali, potrebbe far pensare a una sorta di magia, o meglio al valore magico, demiurgico di tali enunciati. Questa somiglianza degli enunciati tetici con il linguaggio magico ha condotto diversi autori ad indagare sulle probabili origini «magiche» dei performativi tetici.

Tuttavia, Garzone chiarisce ogni dubbio circa la natura degli enunciati tetici, sottolineando il fatto che «... se nella civiltà odierna l’enunciato performativo ... non si inserisse in un quadro ... di tipo istituzionale il suo potere demiurgico parrebbe non trarre fondamento da alcunché al di fuori della parola stessa e di chi la pronuncia e non potrebbe quindi salvarsi da sospetti di magia: è invece l’istituzione che istituisce la performatività tetica ed emana le regole e le convenzioni a cui essa si conforma e da cui trae la propria legittimità ...» (1996: 62).

Anche Filipponio chiarisce che «gli effetti extralinguistici non sono prodotti dall’enunciazione stessa, ma da regole costitutive di una convenzione e, che, di conseguenza, gli effetti non sono reali ma convenzionali.» (1994: 214); inoltre, l’autrice aggiunge ancora: «L’enunciazione performativa si verifica e produce effetti per convenzione e in una convenzione» (1994: 215).

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Si prenda, ad esempio, il Presidente della Repubblica italiana il quale, con una dichiarazione solenne (scritta in questo caso), attraverso una formula sacramentale fissa ed immutabile, fa sì che un testo di legge approvato dalle due Camere parlamentari diventi una legge vera e propria. La formula sacramentale scritta del Presidente della Repubblica italiana recita così: «La Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica hanno approvato; Il Presidente della Repubblica promulga la seguente legge:» — segue poi il testo della legge — «La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato».

L’enunciazione performativa qui illustrata produce effetti extralinguistici solo perché soddisfa le «condizioni di validità relative alla persona enunciante e alle circostanze dell’enunciazione» (Benveniste 1990: 327). A tali affermazioni vi è un corollario: un enunciato tetico, come quello appena illustrato, non è valido se non è attribuito in capo alla persona prevista dalle convenzioni (in questo caso, il Presidente della Repubblica) e se non è pronunciato nel modo adeguato, con le esatte parole previste per tale atto e in speciali circostanze pur esse previste da convenzioni.

Le conseguenze di un’enunciazione tetica, come quella illustrata nell’esempio, è di due tipi (Olivercrona 1994: 175-176): in primo luogo, l’enunciazione tetica avrà l’effetto psicologico immediato di far sentire il destinatario vincolato a rispettare tale enunciato (nell’esempio, farà sentire nel cittadino o nei confronti dei destinatari della legge il dovere di rispettarla). In secondo luogo, l’enunciato corrisponde a certi requisiti previsti dal diritto e ricollegati a un’autorità: in questo esempio, i destinatari di tale legge si troveranno esposti a sanzione da parte delle autorità se non osserveranno quanto previsto dalla legge stessa.

La presenza di una struttura profonda negli enunciati costituzionali è anche evidente da un altro elemento. Anche se le indicazioni per la stesura di testi di legge raccomandano di utilizzare il presente dell’indicativo al posto del verbo espresso in forma deontica (infatti, i verbi servili sembrano rendere indiretto l’instaurarsi di uno stato di cose che l’enunciazione ha di per sé l’effetto di porre in atto), nella Costituzione italiana vi sono molti esempi di verbi servili.

La presenza di una struttura profonda negli enunciati costituzionali è evidente perché spesso non è possibile sostituire il presente dell’indicativo al posto del verbo servile senza cambiarne profondamente il significato.

Si prenda ad esempio, l’art. 77, co. 2 della Costituzione italiana che recita: «Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il GovernoPage 26 adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.». Se sostituissimo «deve presentarli» con «li presenta», falseremmo il significato reale dell’enunciato: infatti, se non presentati alle Camere entro i 60 giorni, i decreti decadono definitivamente.

Anche nell’art. 39, 3 della Costituzione spagnola la sostituzione del verbo deontico con l’indicativo non è possibile, senza falsarne il significato: «Los padres deben prestar asistencia de todo orden a los hijos habidos dentro o fuera del matrimonio ...»; anche in questo esempio, la sostituzione del verbo deontico con l’indicativo implicherebbe il carattere universale-oggettivo dell’enunciazione, la cui certezza non è affatto incontrovertibile.

Generalmente, però, la sostituzione con l’indicativo può essere fatta senza pregiudicare gravemente il senso della frase. Ne è un chiaro esempio, l’art. 74, co. 2 della Costituzione italiana: «Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata».

Anche nell’art. 68, 6 della Costituzione spagnola tale sostituzione può essere effettuata senza causare una variazione nel significato: «El Congreso electo deberá ser convocado dentro de los veinticinco días siguientes a la celebración de las elecciones.».

Un altro esempio di trasformazioni linguistiche degli enunciati costituzionali è il capovolgimento della forma passiva in forma attiva, trasformazione non sempre attuabile viste le ripercussioni e le distorsioni sul valore semantico.

Silvestri fornisce l’esempio dell’art. 70 della Costituzione italiana, in cui si asserisce che «la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere». La forma passiva in cui compare l’enunciato attribuisce esclusivamente alle due Camere tale funzione, mentre nella forma attiva («Le due Camere esercitano collettivamente la funzione legislativa») tale attribuzione esclusiva verrebbe a mancare e la funzione legislativa verrebbe letta come «una mera attribuzione di competenza» (1989: 250-251).

Un ulteriore esempio di trasformazioni linguistiche è l’uso del futuro iussivo con valore d’imperativo di cortesia: soprattutto nella Costituzione italiana le prescrizioni sono spesso enunciate al futuro dell’indicativo come in «L’Assemblea Costituente sarà convocata dal suo Presidente» (Disp. trans. e fin., XVII).

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Riflessioni conclusive

Come risulta evidente dalle riflessioni fatte, le operazioni linguistiche sugli enunciati costituzionali non sono mai prive di conseguenze; questo prova una volta di più che l’interpretazione dei termini e degli enunciati costituzionali è un un compito assai delicato.

Tuttavia, occorre fare una precisazione a proposito del testo costituzionale: la Costituzione non è da considerarsi come «una sorta di deposito di concetti» (Silvestri 1989: 253), da estrarre a piacere da parte del giudice che li interpreta; al contrario, bisogna riconoscere che l’interprete-giudice manipola e ricostruisce il significato delle parole a partire dal testo linguistico.

Nel suo studio sulla lingua costituzionale, Schauer (1993: 802) mutua da Ronald Dworkin la terminologia di «concetto» e «concezione», ed enuncia che — seppur i concetti costituzionali restano immutati — quello che cambia nel tempo è la loro concezione. Le concezioni non vengono avanzate solo dal giudice-interprete, ma, vengono avanzate, soprattutto, dal legislatore, il quale — se scontento di come il potere giurisdizionale ha applicato un concetto costituzionale — potrà imporre delle correzioni per precisare i principi costituzionali, apportando delle modifiche al testo costituzionale stesso.

Quest’idea è stata ribadita e ripresa anche da altri studiosi (Maley 1987: 38-39; Lazzaro 1981: 176-177): se il legislatore è insoddisfatto di come una disposizione costituzionale è stata interpretata dal giudice, in quanto il giudice ne ha dato un’applicazione che non si adattava allo spirito della norma, tra le possibili alternative che si prospettano, vi è anche quella di emendare lo stesso testo di legge. Allora, la conseguenza più rilevante è che il mutamento e le precisazioni semantiche della Costituzione possono rappresentare un’alternativa al procedimento di revisione costituzionale.

In ultima analisi, la Costituzione è fatta dal suo testo linguistico che, attraverso l’attività di tutti i soggetti istituzionali che partecipano alla sua evoluzione ed integrazione, viene continuamente costruito e perfezionato dal punto di vista semantico.

Quello che, però, bisogna mettere in evidenza è che il significato dei termini della Costituzione non è attribuito dai soggetti istituzionali in maniera arbitraria, bensì questo significato è presente nella comunità sociale in un certo momento storico in quanto i termini costituzionali esistono nella prassi sociale, nella lingua comune (Silvestri 1989: 254-5).

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