La nova comunicació bancària a Itàlia: de la transparència administrativa a la transparència lingüística

AutorDaniele Fortis
CargoLinguista e comunicatore pubblico, è esperto di scrittura professionale e di linguaggio amministrativo
Páginas13-54

Parole chiave: pianificazione di corpus (corpus planning); comunità discorsiva; semplificazione del linguaggio; metodi reader-based.

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1. Introduzione

Il 29 luglio 2009 la Banca d’Italia ha emanato una nuova normativa in materia di «trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari» e di «correttezza delle relazioni fra intermediari1 e clienti». Pubblicate in Gazzetta Ufficiale il successivo 10 settembre2 ed entrate in vigore 15 giorni dopo, le nuove disposizioni prevedono che i destinatari debbano adeguarsi ad esse entro il 31 dicembre, attuando nuove modalità di comunicazione con la clientela, implicanti una revisione della contrattualistica e della relativa documentazione, nonché mettendo in atto, sul piano organizzativo, procedure atte a garantire un’adeguata tutela del cliente in ogni momento del rapporto.

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È degno di nota il metodo “partecipativo” che è stato seguito nella messa a punto delle norme in oggetto, la cui adozione è stata preceduta da una fase di consultazione pubblica durata due mesi. Il 17 marzo, infatti, è stata pubblicata una bozza, una proposta di disciplina (accompagnata da una relazione illustrativa, da una relazione preliminare sull’analisi di impatto e da un questionario volto a rilevare i costi di compliance per gli intermediari), sollecitando i soggetti interessati a esprimere osservazioni su di essa entro il 17 maggio. La versione definitiva tiene conto dei commenti pervenuti da parte di banche e associazioni di consumatori nel corso della consultazione3.

La nuova normativa non solo stabilisce a carico degli intermediari una serie di adempimenti di carattere amministrativo e organizzativo, ma contiene anche – e ciò rappresenta un’innovazione di indubbio rilievo rispetto alla disciplina preesistente – delle prescrizioni di natura linguistica: impone l’uso di un linguaggio chiaro e comprensibile, dettando anche una serie di criteri per la redazione dei documenti.

Nel presente contributo, ci si soffermerà specialmente su quest’ultimo aspetto: dopo un sommario inquadramento della nuova disciplina, si esamineranno nel dettaglio le norme più specificamente linguistiche, analizzando criticamente questo tipo di approccio, evidenziandone i vantaggi e i limiti, alla luce della ricerca in materia di linguistica applicata, di scrittura e di pianificazione linguistica.

2. Il contenuto della riforma (in sintesi)

Le nuove regole in estrema sintesi prevedono:

• la semplificazione del contenuto dei documenti destinati alla clientela (come il foglio informativo), tramite l’eliminazione delle informazioni in eccesso;

• l’adozione di schemi standard, predisposti dalla Banca d’Italia, per i prodotti più diffusi, quali i conti correnti e i mutui offerti ai consumatori;

• una più chiara illustrazione dei diritti della clientela, realizzata anche attraverso la predisposizione di guide pratiche, secondo modelli elaborati dalla Banca d’Italia;

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• una maggiore immediatezza delle informazioni rese, specialmente sui costi dei servizi (da realizzarsi, ed esempio, attraverso un più diffuso impiego degli indicatori sintetici di costo e tramite l’allegazione ai contratti di un documento di sintesi, che riporta in maniera personalizzata, secondo quanto previsto dal contratto, le condizioni economiche relative allo specifico tipo di operazione o servizio);

• l’invio al correntista di un riepilogo di tutte le spese effettuate nell’anno per la tenuta del conto corrente e per i servizi di gestione della liquidità e di pagamento, al fine di permettergli di confrontare facilmente i costi sostenuti con quelli di analoghi prodotti presenti sul mercato;

• la disciplina di un conto corrente semplice, destinato a soddisfare le esigenze di base dei consumatori, che consente di effettuare, verso il pagamento di un canone annuo fisso, un numero predeterminato di operazioni;

• criteri per la redazione e la presentazione dei documenti, che devono essere stilati in un linguaggio chiaro e semplice;

• una più stringente disciplina riguardante i requisiti organizzativi degli operatori, ai quali è richiesto di adottare procedure di controllo interno dirette a monitorare la distribuzione e la presentazione dei prodotti da parte degli addetti alla vendita e a gestire adeguatamente i reclami.

Punto qualificante della nuova normativa è il suo essere informata a un generale principio di proporzionalità: gli obblighi di trasparenza sono diversificati in relazione alle differenti caratteristiche dei servizi offerti e dei destinatari, in considerazione del fatto che non tutte le tipologie di clienti e non tutti i rapporti necessitano dello stesso grado di tutela.

3. Presupposti e finalità

La nuova normativa esordisce esplicitando immediatamente (Sez. I, par. 1.1) le proprie finalità:

La disciplina sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari persegue l’obiettivo, nel rispetto dell’autonomia negoziale, di rendere noti ai clienti gli elementi essenziali del rapporto contrattuale e le loro variazioni, favorendo in tal modo anche la concorrenza nei mercati bancario e finanziario. Il rispetto delle regole e dei principi di trasparenza e correttezza nei rapporti con la clientela attenua i rischi legali e di reputazione e concorre alla sana e prudente gestione dell’intermediario.

L’obiettivo generale della disciplina della trasparenza è quello di ridurre la co-Page 18siddetta “asimmetria informativa”, ossia la diversa distribuzione di conoscenza fra venditori e acquirenti, quella situazione per cui mentre i primi conoscono bene i prodotti che propongono, i secondi spesso incontrano difficoltà nel reperire informazioni adeguate sui prodotti che intendono comprare. Tale asimmetria appare particolarmente accentuata nei settori bancario e finanziario, a causa della peculiare natura dei beni e dei servizi che vi sono scambiati.

Una maggiore trasparenza sulle caratteristiche e sui costi dei prodotti finanziari riduce i fenomeni che vanno sotto il nome di misselling (termine che designa le pratiche, eticamente scorrette, messe in atto da un venditore, aventi l’effetto di fornire al compratore una rappresentazione non veritiera o fuorviante delle caratteristiche dell’oggetto della transazione), contribuendo, così, a contenere «i rischi legali e di reputazione» a carico degli operatori, ossia il danno d’immagine e il contenzioso conseguenti a condotte poco limpide.

Favorendo la conoscibilità e la confrontabilità delle condizioni contrattuali praticate dagli intermediari, la normativa sulla trasparenza consente alla clientela di confrontare efficacemente le offerte di diversi operatori, spingendo questi ultimi a offrire prodotti e servizi di migliore qualità e rafforzando, in tal modo, la concorrenza e la competitività del mercato.

In generale, una maggior trasparenza accresce il grado di fiducia che i consumatori ripongono nel settore, rendendo più probabile che nuovi soggetti diventino utilizzatori di prodotti finanziari. Ciò può tradursi in un maggiore sviluppo dei mercati finanziari, soprattutto al dettaglio, e dunque in un beneficio per l’intero sistema economico.

4. Il contesto e la disciplina previgente

La nuova normativa sulla trasparenza sopraggiunge in un momento in cui la fiducia dei consumatori italiani nel sistema creditizio registra una profonda crisi. Sulle banche, infatti, ricade gran parte della responsabilità delle perdite subite da migliaia di piccoli risparmiatori, danneggiati da alcuni recenti scandali fra cui spiccano i crac della Parmalat4 e della Cirio5 e la vicenda dei bondPage 19 argentini6 che hanno investito il mercato finanziario del paese. In particolare, agli istituti di credito è stata imputata la colpa di non aver informato adeguatamente la clientela dei rischi connessi ai suddetti investimenti. Il tema della trasparenza è stato dunque posto al centro delle polemiche.

La regolamentazione della trasparenza preesistente a quella qui presa in esame7 era improntata alle medesime finalità e, sotto alcuni aspetti, aveva contribuito a migliorare il rapporto fra intermediari e clienti. La prassi applicativa, tuttavia, aveva rivelato che l’informazione resa dalle banche, anche laddove perfettamente conforme a quanto normativamente previsto, spesso risultava, di fatto, scarsamente comprensibile, non alla portata di tutte le fasce di utenza. Erano frequenti le lamentele da parte dei clienti circa le difficoltà incontrate nel comprendere le caratteristiche dei prodotti e dei servizi acquistati. Erano emersi con evidenza i limiti della disciplina: eccesso di documenti cartacei, informazioni sovrabbondanti fornite al pubblico, eccessiva analiticità di alcune prescrizioni. La documentazione di trasparenza imposta dalla normativa era ridondante e complicata, tanto da risultare di scarso ausilio per l’ordinario cliente, che spesso rinunciava a leggerla. L’ottemperanza agli obblighi previsti costituiva un aggravio per le banche, in termini di costi e oneri organizzativi, non compensato da un corrispondente vantaggio per l’utenza. Il rispetto della disciplina della trasparenza si era insomma ridotto a una serie di adempimenti formali e burocratici, con scarsi risultati concreti.

La nuova disciplina si propone di superare i limiti sopra descritti e di garantire alla clientela una tutela effettiva.

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  1. Gli obblighi di trasparenza

5.1. Informazione precontrattuale

Nella fase anteriore alla conclusione del contratto, le nuove norme contemplano che siano forniti al cliente una serie di documenti:

• un documento generale denominato • Principali diritti del cliente, redatto secondo il modello predisposto dalla Banca d’Italia;

• un foglio informativo contenente informazioni sull’intermediario, una breve descrizione del prodotto o servizio e dei rischi tipici ad esso connessi, le condizioni economiche offerte, nonché le clausole contrattuali concernenti il diritto di recesso e i mezzi di reclamo. Anche in tal caso la Banca d’Italia predisporrà dei modelli standard di fogli informativi relativi ai contratti di conto corrente e mutui ipotecari;

• la copia completa dello schema di contratto:

• il documento di sintesi che espone le principali condizioni del contratto.

Si tratta degli stessi documenti previsti dalla normativa previgente, ma l’identità è solo apparente, in quanto le prescrizioni relative al loro contenuto e alla loro struttura riflettono lo sforzo di renderli più comprensibili e concretamente utili.

Una completa novità è invece rappresentata dalle Guide, ad uso della clientela, che le banche devono redigere, secondo modelli predisposti dalla Banca d’Italia, al fine di impartire indicazioni pratiche relative ai contratti di conto corrente, ai mutui ipotecari e ai meccanismi di risoluzione stragiudiziale delle controversie.

Altra novità è costituita dall’indicatore sintetico di costo che il foglio informativo e il documento di sintesi relativi a determinati prodotti e servizi devono riportare. Si tratta di un utile strumento con la funzione di consentire ai clienti un agevole raffronto tra le condizioni applicate dai diversi intermediari.

5.2. Il contratto

I contratti devono essere redatti per iscritto a pena di nullità.

In tema di contenuti contrattuali, vale la pena ricordare la disposizione secondo cui «nei contratti con i clienti al dettaglio è opportuno che gli intermediari evitino l’utilizzo di clausole contrattuali particolarmente complesse e intrinsecamente poco trasparenti quali la commissione di massimo scoperto o altre similari» (Sez. III, par. 3).

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5.3. Comunicazioni alla clientela

La banca è tenuta a comunicare espressamente al cliente le variazioni unilaterali apportate alle clausole del contratto. Tale messaggio, che deve recare, evidenziata, la formula «Proposta di modifica unilaterale del contratto», deve pervenire al cliente con preavviso minimo di trenta giorni. La modifica si intende approvata se il cliente non recede dal contratto entro sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione (Sez. IV, par. 2).

L’intermediario ha inoltre l’obbligo di inviare ai clienti al dettaglio, il 31 dicembre di ogni anno, un estratto conto che riporti il riepilogo delle spese complessivamente sostenute nell’anno solare per la tenuta del conto corrente e per i servizi di gestione della liquidità e di pagamento (Sez. IV, par. 3.2).

5.4. Requisiti organizzativi

È previsto che le banche adottino procedure interne atte a garantire la trasparenza e la correttezza nella commercializzazione dei prodotti, un’adeguata informazione alla clientela e una corretta gestione dei reclami.

6. Le prescrizioni linguistiche: la Guida alla redazione dei documenti di trasparenza
6.1. Principi sottostanti

Gli accorgimenti volti alla trasparenza fin qui descritti risulterebbero vanificati se i messaggi in cui essi si sostanziano fossero espressi in un linguaggio non comprensibile all’utente. Non basta fornire informazioni corrette ed esaurienti; è necessario che queste siano decodificate dal destinatario. Di questo principio ovvio, ma troppo spesso ignorato, sembra ora ben consapevole la Banca d’Italia, la quale, nella relazione illustrativa che accompagna le nuove disposizioni, prende atto che

La documentazione elaborata dagli intermediari, sebbene completa nei contenuti, può risultare difficile da leggere e comprendere per i clienti, soprattutto se si tratta di consumatori. Il disagio è sicuramente dovuto a contenuti per loro natura complessi e tecnici, ma viene aggravato da un linguaggio e da una formulazione sovente oscuri per il consumatore. Ne risentono negativamente la trasparenza dei rapporti e la reputazione dell’intermediario.[...]

Per agevolare gli intermediari nella redazione dei testi, vengono [...] fornite al-Page 22cune raccomandazioni, conformi alle migliori prassi della comunicazione al pubblico.

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All’aspetto linguistico della trasparenza è dedicato il par. 4 della sez. I delle nuove disposizioni, intitolato «Redazione dei documenti»:

I documenti informativi disciplinati dal presente provvedimento sono redatti secondo criteri e presentati con modalità che garantiscano la correttezza, la completezza e la comprensibilità delle informazioni, così da consentire al cliente di capire le caratteristiche e i costi del servizio, confrontare con facilità i prodotti, adottare decisioni ponderate e consapevoli.

A tal fine, gli intermediari prestano attenzione ai seguenti profili:

- criteri di impaginazione che assicurano elevati livelli di leggibilità;

- struttura dei documenti idonea a presentare le informazioni in un ordine logico e di priorità che assecondi le necessità informative del cliente e faciliti la comprensione e il confronto delle caratteristiche dei prodotti;

- semplicità sintattica e chiarezza lessicale calibrate sul livello di alfabetizzazione finanziaria della clientela cui il prodotto è destinato, anche in relazione alle caratteristiche di quest’ultimo. I termini tecnici più importanti e ricorrenti, le sigle e le abbreviazioni sono spiegati, con un linguaggio preciso e semplice, in un glossario o in una legenda;

- coerenza tra presentazione delle informazioni e canale comunicativo, che tenga conto di criticità e vantaggi dei diversi canali.

L’allegato 1 riporta una guida con le principali indicazioni redazionali che gli intermediari possono applicare per assicurare il rispetto dei criteri previsti dal presente paragrafo.

6.2. Le indicazioni redazionali

I principi molto generali enunciati nel paragrafo precedente trovano dunque attuazione e sviluppo nella Guida alla redazione dei documenti di trasparenza, riportata nell’allegato 1 alle disposizioni della Banca d’Italia9. Questo testo contiene le «raccomandazioni, conformi alle migliori prassi della comunicazione al pubblico» preannunciate dalla relazione illustrativa, ossia una serie di linee guida finalizzate a rendere i documenti più chiari, aumentando le probabilità che essi vengano capiti dalla clientela. Esse si possono suddividere in quattro categorie:

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  1. Linee guida di natura grafica, ossia relative ai criteri di impaginazione e alle scelte tipografiche. Sono mirate a favorire la leggibilità materiale dei testi, ossia il grado di facilità o difficoltà di lettura dipendente dalla forma fisica con cui essi si presentano agli occhi del lettore (corrisponde all’inglese legibility, concetto distinto da quello di readability, che denota invece la leggibilità linguistica, dipendente dalle scelte lessicali e sintattiche). A tal riguardo, si raccomanda di:

    - usare i mezzi di enfatizzazione grafica (corsivo, grassetto, sottolineato, maiuscolo, maiuscoletto) per evidenziare le informazioni più rilevanti e segnalare, così, al lettore la gerarchia informativa del testo;

    - essere coerenti nell’utilizzo di tali espedienti (adottare la stessa forma grafica per informazioni dello stesso tipo o livello);

    - evidenziare in neretto le parole chiave del testo, ma con parsimonia per non disorientare il lettore (segnalare troppo equivale a non segnalare nulla);

    - non abusare delle maiuscole e delle sottolineature, che, se adoperate per segmenti di testo troppo estesi, compromettono la leggibilità;

    - non usare caratteri troppo piccoli;

    - ricorrere, ove opportuno, a liste puntate e tabelle, dispositivi grafico-testuali che favoriscono la leggibilità rispetto alla forma discorsiva, in quanto consentono di presentare le informazioni in modo ordinato e agevolano il confronto fra di esse;

    - evitare i lunghi blocchi ininterrotti di testo andando spesso a capo (ove la struttura logico-semantica del discorso lo consenta) e segmentando, così, il testo in capoversi.

  2. Linee guida di natura testuale, cioè relative all’organizzazione informativa generale del testo, alla sua struttura complessiva. Si consiglia, in proposito, di:

    - presentare le informazioni in un ordine logico e di priorità che assecondi le necessità informative del cliente e agevoli il confronto fra le caratteristiche dei prodotti;

    - seguire, nella disposizione delle informazioni, un tendenziale andamento dal generale al particolare;

    - accorpare le informazioni afferenti allo stesso tema;

    - utilizzare il cosiddetto “paratesto”, ossia quegli elementi che corredano il testo propriamente detto e ne rendono più agevole la fruizione, in quanto ne esplicitano la struttura: titoli, sottotitoli, parole chiave evidenziate, indici, glossari, legende;

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    - formulare titoli e sottotitoli adeguatamente informativi circa il contenuto del testo a cui si riferiscono.

  3. Linee guida di natura sintattica, riguardanti la struttura delle frasi:

    - scrivere frasi brevi;

    - far sì che ciascuna frase contenga una sola informazione principale;

    - optare per la paratassi, ossia per una costruzione del periodo fondata sui rapporti di coordinazione, limitando le subordinate e gli incisi;

    - preferire la forma attiva dei verbi a quella passiva;

    - esprimere il soggetto, quindi evitare quelle costruzioni che lo occultano (ad es., anziché «In mancanza di opposizione...», scrivere: «Se il cliente non presenta opposizione...»);

    - evitare la nominalizzazione, cioè preferire il verbo al sostantivo da esso derivato (scrivere «Per attivare il conto...» e non «Per l’attivazione del conto...»);

    - preferire, ove grammaticalmente possibile, il modo indicativo al congiuntivo (quindi evitare le congiunzioni che richiedono quest’ultimo, come qualora, da sostituire con se);

    - evitare il gerundio, specie all’inizio della frase, preferendogli una proposizione di forma esplicita (non «Essendo il finanziamento a tasso fisso...», ma «Poiché il finanziamento è a tasso fisso...»)

  4. Linee guida di natura lessicale, concernenti la scelta delle parole:

    - privilegiare le parole ed espressioni di uso comune rispetto a quelle di registro elevato, letterarie, arcaiche, burocratiche o pseudotecniche (usare firmare, questo, potere anziché sottoscrivere, il presente, avere la facoltà di);

    - preferire congiunzioni e preposizioni semplici a locuzioni complesse, formate da tre o quattro parole (per anziché con l’obiettivo di; se invece di nel caso in cui);

    - evitare le riprese anaforiche tipicamente burocratiche come detto, predetto, suddetto, summenzionato, succitato, per richiamare elementi testuali precedenti: meglio ripetere l’elemento stesso;

    - spiegare, in un glossario o in una legenda, i termini tecnici ricorrenti, usando un linguaggio semplice, che però non sacrifichi la precisione;

    - indicare la denominazione estesa delle sigle e delle abbreviazioni (fatta eccezione per quelle di uso corrente o facilmente decifrabili) almeno la prima volta che compaiono nel testo.

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    La Guida fornisce anche alcune indicazioni di natura pragmatica, se così si può dire, in quanto dedicate all’appropriatezza del rapporto fra forma del messaggio e contesto di ricezione, fra modalità di presentazione delle informazioni e canale comunicativo: ad esempio, quando, in considerazione delle condizioni fisiche di fruizione, si prescrive per gli avvisi da affiggere ai muri l’uso di un corpo tipografico adeguatamente grande, leggibile a distanza; o quando vengono dettate linee guide specifiche per la scrittura in Internet, che tengono conto delle particolari caratteristiche del medium10.

    Punto qualificante della Guida è poi l’affermazione che «semplicità sintattica e chiarezza lessicale sono calibrate sul livello di alfabetizzazione finanziaria delle differenti fasce di clientela». La Banca d’Italia fa quindi proprio il principio cardine della scrittura – e, più in generale, della comunicazione – efficace, ossia quello dell’adattamento al destinatario. Chi scrive, se vuole farsi capire, deve tener conto delle conoscenze pregresse (la cosiddetta background knowledge) dei lettori a cui si rivolge11 e variare in funzione di esse le caratteristiche della propria prosa. Ciò, naturalmente, presuppone una preliminare analisi del proprio pubblico. La audience analysis – un importante settore degli studi sulla scrittura – mette a disposizione una serie di tecniche e metodi che potrebbero soccorrere in tale compito12.

6.3. Precedenti esperienze nel mondo

L’Italia è giunta in ritardo, rispetto ad altri paesi, ad adottare misure in materia di chiarezza della comunicazione bancaria. Altrove nel mondo si è iniziato ad affrontare questo problema oltre trent’anni fa. Fu proprio unPage 26 documento bancario, infatti, a segnare l’esordio del cosiddetto plain language movement13: nel 1975 la Citibank di New York semplificò un vaglia cambiario − una “promissory note” − che in precedenza era stato causa di parecchi inconvenienti per via della sua oscura formulazione14. Quell’iniziativa, adeguatamente pubblicizzata, ottenne, al di là delle aspettative dei suoi stessi promotori, una grande e inattesa risonanza mediatica − il che testimonia la pressante richiesta di chiarezza da parte dei consumatori –: l’evento fu riportato dalla stampa e dalla televisione, con grande giovamento per l’immagine della Citibank, che si conquistò la reputazione di banca “dal volto umano”, all’avanguardia e vicina ai clienti. La chiarificazione del documento determinò anche una riduzione del contenzioso tra la banca e la clientela. Il successo di questa esperienza stimolò l’emanazione, nel 1978, da parte dello stato di New York, della cosiddetta Legge Sullivan (dal nome del parlamentare che la propose), che stabiliva che ogni contratto del consumatore15 doveva essere «written in a clear and coherent manner using words with common and everyday meanings» e «appropriately divided and captioned by its various sections».16

Questa fu la capostipite delle cosiddette plain language laws: leggi che stabiliscono che i contratti del consumatore e alcuni atti a questi connessi (prospetti informativi, notifiche, ecc.) devono essere redatti in un linguaggio chiaro, prevedendo, altresì, diversi criteri per determinare se tale obbligo sia stato adempiuto, nonché vari rimedi per la sua eventuale violazione. Dalla metà degli anni Settanta, infatti, sono state emanate negli Stati Uniti varie leggi federali che prescrivono l’utilizzo di un linguaggio chiaro e comprensibile inPage 27 certi documenti relativi a varie specie di contratti del consumatore: ad esempio, nelle garanzie relative ai prodotti commerciali17, nei documenti che enunciano i termini delle transazioni finanziarie eseguite mediante terminali elettronici18, in quelli che espongono le condizioni di un conto corrente bancario19 e in molti altri. Ma anche a livello dei singoli stati si è legiferato nella stessa direzione: sono, infatti, più di trenta gli stati degli USA che si sono dotati di plain language laws applicabili alle transazioni effettuate in vari settori, compreso, spesso, quello bancario20. Anche il Canada ha promulgato leggi che impongono l’uso di un linguaggio chiaro a tutela dei consumatori in vari ambiti: di particolare interesse per il tema qui trattato, si segnalano il Bank Act (1995) e il Financial Consumers Act (1990)21. E il Sudafrica – nazione sensibile al tema della chiarezza del linguaggio nei rapporti giuridici e commerciali, a causa della sua popolazione multilingue e scarsamente alfabetizzata22 – ha adottato una legislazione particolarmente protezionistica, anche sotto il profilo linguistico-comunicativo, verso i percettori di credito e gli utenti di servizi finanziari.23

Degna di nota, negli Stati Uniti, in materia finanziaria, l’attività della Securities and Exchange Commission (SEC), organismo governativo con il compito di assicurare la trasparenza del mercato dei titoli. Per legge, fin dagli anni Trenta, le società americane che emettono azioni e obbligazioni sono tenute a pubblicare dei prospetti informativi che comunichino ai potenziali acquirenti una serie di dati (come la situazione finanziaria e la struttura organizzativa della società emittente) che è opportuno che essi possiedano prima di decidere l’acquisto24. È evidente che tale funzione di salvaguardia degli investitori risulta vanificata se i prospetti in questione sono scritti in un linguaggio fortemente tecnico, comprensibile solo a uno specialista del ramo. NelPage 28 1998, per assicurare che i prospetti informativi assolvano realmente al loro compito, la SEC emana un regolamento25 con cui stabilisce che essi, in generale, siano scritti «in a clear, concise and understandable manner»26; e, più nel dettaglio:

(1) To enhance the readability of the prospectus, you must use plain English principles in the organization, language, and design of the front and back cover pages, the summary, and the risk factors section.

(2) You must draft the language in these sections so that at a minimum it substantially complies with each of the following plain English writing principles:

(i) Short sentences;

(ii) Definite, concrete, everyday words;

(iii) Active voice;

(iv) Tabular presentation or bullet lists for complex material, whenever possible;

(v) No legal jargon or highly technical business terms; and

(vi) No multiple negatives.

(3) In designing these sections or other sections of the prospectus, you may include pictures, logos, charts, graphs, or other design elements so long as the design is not misleading and the required information is clear27.

Per agevolare l’adempimento di questa nuova normativa, La SEC ha realizzato e diffuso gratuitamente un valido manuale.28

Ma, indipendentemente dalle prescrizioni normative, varie banche hanno intrapreso spontanee iniziative – alcune delle quali ben documentate in letteratura – di semplificazione della documentazione da esse prodotta29. Queste esperienze sono state determinate sia dalla volontà degli istituti di credito di migliorare la propria reputazione e il proprio rapporto con la clientela, sia dalla prospettiva di possibili risparmi: numerosi studi, infatti, hanno evidenziato i benefici economici e d’immagine ottenuti da grandi organizzazio-Page 29ni, sia pubbliche che private, grazie all’adozione di pratiche comunicative più efficaci30.

Va menzionata, inoltre, l’attività svolta dalle associazioni bancarie in materia di promozione della chiarezza nella comunicazione con la clientela. La Canadian Bankers’ Association, ad esempio, nel 1990 pubblicò, congiuntamente con il locale Ordine degli Avvocati, un rapporto significativamente intitolato The Decline and Fall of Gobbledygook: Report on Plain Language Documentation31, in cui si raccomandavano vari modi per rendere più chiaro il linguaggio usato sia nella professione forense che nell’attività bancaria. In vari paesi, inoltre, le rispettive associazioni bancarie hanno adottato un codice di condotta (code of banking practice) che sancisce gli standard di comportamento che l’industria bancaria si impegna a tenere nei confronti dei clienti. Uno dei principi fondamentali, presente in tutti i testi di questo tipo, riguarda la chiarezza del linguaggio utilizzato per enunciare i termini e le condizioni dei servizi offerti. Ad esempio, il Banking Code britannico proclama: «All written terms and conditions will be fair and will set out your rights and responsibilities clearly, legibly and in plain language. We will only use legal or technical language where necessary» (par. 6.6)32. I codici di condotta bancaria dell’Australia, della Nuova Zelanda, del Sudafrica33 e di molti altri paesi contengono dichiarazioni dello stesso tenore (puntualizzando però, talvolta, che la comprensibilità del linguaggio va perseguita, ma deve cedere il passo dinanzi alle esigenze della certezza del diritto: «Plain language should be used to the extent that this is consistent with the need for legal certainty», recita, ad esempio, il codice di Hong Kong (2004, par. 5.3)). Quelli descritti sono codici di autodisciplina, di natura volontaria, quindi privi di valore normativo; sono comunque rilevanti in quanto testimoniano la volontà delle banche nel migliorare la propria comunicazione con i clienti; inoltre, in alcuni casi il discostamento di una banca dagli standard stabiliti può essere addotto come prova di una violazione del dovere di diligenza e buona fede, e agevolare il cliente in un eventuale contenzioso.

Al di là delle norme di diritto positivo e degli atti di autoregolamentazione, il trend a favore della comprensibilità del linguaggio usato nella comunicazio-Page 30ne bancaria sembra essere sempre più recepito dalla giurisprudenza: si moltiplicano, infatti, in vari paesi, le sentenze sfavorevoli alle banche a causa dell’inintelligibilità dei contratti e dei moduli da esse predisposti34.

6.4. Precedenti esperienze in Italia

Mentre nei paesi anglofoni il plain language movement è nato nel settore privato (banche, aziende, compagnie di assicurazione) e solo in un secondo momento ha coinvolto le istituzioni pubbliche, in Italia, invece, le iniziative volte a riformare il linguaggio giuridico-amministrativo hanno finora trovato espressione quasi esclusivamente all’interno della pubblica amministrazione,35 il cui linguaggio denominato spregiativamente “burocratese” è sempre stato bersaglio di aspre critiche per la sua oscurità36

A partire dai primi anni Novanta − in concomitanza con una serie di interventi legislativi che hanno profondamente trasformato l’amministrazione pubblica, rendendola meno autoritaria e più vicina ai cittadini37 − è sorta in Italia una nuova sensibilità per la qualità e la trasparenza della comunicazione pubblica, e si è avviato un moto di riforma del linguaggio amministrativo, che si prefigge di rendere quest’ultimo più chiaro e accessibile ai suoi destinatari38.

Il primo passo concreto che il Governo ha compiuto verso la semplificazione del linguaggio amministrativo risale al 1993, con la pubblicazione del CodicePage 31 di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche39: un volume, edito dal Dipartimento della Funzione Pubblica, contenente un’ampia introduzione teorica, una serie di raccomandazioni per la redazione di testi amministrativi chiari e per un uso non sessista e non discriminatorio della lingua e un’antologia di documenti autentici di vario genere (bandi, moduli, deliberazioni, circolari), con, a fianco, versioni rielaborate secondo i principi precedentemente enunciati.

Quattro anni dopo, esce il Manuale di stile40, promosso dallo stesso Dipartimento della Funzione Pubblica, realizzato da un gruppo di esperti coordinato dal giurista Alfredo Fioritto e inteso come la prosecuzione e lo sviluppo del Codice. Più agile ed essenziale rispetto a quest’ultimo, il Manuale vede ridotte al minimo le premesse teoriche: il suo intento è infatti quello di fornire agli operatori della pubblica amministrazione un maneggevole strumento di lavoro, da utilizzare nella pratica quotidiana. Il libro è articolato in tre parti: una guida alla redazione dei documenti amministrativi, che fornisce raccomandazioni su testualità, sintassi e lessico; un glossario che spiega circa 500 termini spesso ricorrenti nei testi amministrativi; una guida all’impaginazione dei documenti.

Nel 2002 il Dipartimento vara il progetto “Chiaro!”, che contempla varie iniziative volte a migliorare la qualità del linguaggio istituzionale, la più importante delle quali è una direttiva41 che detta linee guida stilistiche simili a quelle già contenute nel Codice e nel Manuale, le quali, però, adesso che sono recepite da un atto ufficiale del governo, acquistano un carattere più formale e autorevole, e da semplici raccomandazioni, sembrano ora tramutarsi in regole (tale è infatti il termine con cui sono definite nella direttiva stessa) in senso proprio, dotate almeno in teoria di una forza impositiva estranea alle pubblicazioni sopra citate.

Una seconda direttiva42 viene emanata nel 2005: non dissimile dalla precedente nei contenuti, essa sembra differenziarsene solo per la prospettiva adot-Page 32tata, cioè per una particolare focalizzazione sul processo della scrittura, e non solo sul prodotto, e per un’inedita considerazione dei nuovi strumenti introdotti dalla rivoluzione telematica: la videoscrittura e Internet. Per il resto, le linee guida contenute nei testi precedenti vengono sostanzialmente ribadite43.

Oltre alle iniziative del Dipartimento della Funzione Pubblica, fin qui illustrate, vanno segnalate quelle autonomamente intraprese da singole amministrazioni per formare il proprio personale e migliorare la qualità dei testi da esso redatti.

In anni recenti, inoltre, si è assisitito allo sviluppo di una produzione manualistica in materia di scrittura amministrativa, non più sotto l’egida del Governo, bensì a firma di singoli studiosi, linguisti operanti di propria iniziativa44: segno inequivocabile, questo, dell’interesse crescente verso la tematica in questione. Si tratta di testi dal taglio più accademico rispetto a quelli promossi dal Dipartimento, il che attesta un incremento della riflessione scientifica sul problema della comprensibilità del linguaggio pubblico, accanto agli interessi eminentemente pratici.

Come si è visto, le esperienze fin qui descritte hanno riguardato esclusivamente la pubblica amministrazione. Per quanto concerne, invece, la politica linguistica italiana relativa al settore privato, vanno menzionate solo alcune norme dalla formulazione piuttosto generica emanate in attuazione di varie disposizioni dell’Unione Europea in tema di protezione del consumatore. La direttiva CEE 93/1345, all’art. 5, statuisce:

Nel caso di contratti di cui tutte le clausole o talune clausole siano proposte al consumatore per iscritto, tali clausole devono sempre essere redatte in modo chiaro e comprensibile. In caso di dubbio sul senso di una clausola prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore.

L’Italia ha recepito questa direttiva con la legge n. 52/199646, che ha novellato il Codice Civile, introducendovi un nuovo capo, rubricato «Dei contrattiPage 33 del consumatore»47, sostituito poi, nel 2005, dal Codice del consumo48. Quest’ultimo provvedimento, che accorpa e armonizza la normativa previgente in materia di tutela del consumatore, contiene vari riferimenti agli aspetti linguistici.

Si segnalano, in particolare, il principio generale sancito dall’art. 5, comma 3:

Le informazioni al consumatore, da chiunque provengano, devono essere adeguate alla tecnica di comunicazione impiegata ed espresse in modo chiaro e comprensibile, tenuto anche conto delle modalità di conclusione del contratto o delle caratteristiche del settore, tali da assicurare la consapevolezza del consumatore.

nonché l’articolo 35, che riproduce letteralmente il testo, sopra riportato, dell’art. 5 della direttiva CEE 93/13. Anche l’ordinamento italiano, dunque, prescrive ora la chiarezza e la comprensibilità dei contratti del consumatore (fra i quali, i contratti bancari occupano un posto di sicuro rilevo). La mancanza di tali requisiti, oltre a essere sanzionata con la classica previsione dell’interpretatio contra stipulatorem (la regola ermeneutica secondo cui le clausole di un contratto, nel dubbio, si interpretano nel senso più sfavorevole alla parte che le ha predisposte), potrà essere valutata dal giudice come indice di un «significativo squilibrio», a danno del consumatore, dei diritti e degli obblighi nascenti dal rapporto, e far sì che le clausole contestate siano giudicate «vessatorie», consentendo così l’attivazione dei previsti meccanismi di tutela.

Un’iniziativa non legislativa, bensì di autoregolamentazione, maturata nello specifico settore bancario, è rappresentata da PattiChiari, un consorzio di banche fondato nel 2003 «con la missione di offrire ai cittadini strumenti per capire i prodotti finanziari e scegliere quelli più adatti alle proprie esigenze»49. Tuttavia, i pur apprezzabili progetti e campagne messi in atto da PattiChiari finora si sono concentrati sulla completezza dei contenuti delle informazioni divulgate e sull’educazione finanziaria dei consumatori, ma non sembrano aver mai affrontato in modo esplicito gli aspetti prettamente linguistici della comunicazione banca-cliente. La Guida alla redazione dei documenti di trasparenza recentemente emanata dalla Banca d’Italia rappresenta, dunque, la prima iniziativa specificamente volta a migliorare la comprensi-Page 34bilità del linguaggio impiegato dalle banche, e costituisce, in questo senso, una novità assoluta.

6.5. L’approccio prescelto

Le norme che, nei vari ordinamenti, mirano a garantire la chiarezza dei documenti legali destinati ai consumatori adottano metodi diversi per conseguire il proprio obiettivo. Da un’analisi complessiva di tale normativa è possibile individuare quattro possibili approcci50:

  1. Un’enunciazione di principio

    Vi sono norme – la legge dello stato di New York sopra ricordata (§ 6.3) ne offre un esempio – che stabiliscono, in termini molto generali, che tutti i documenti di un determinato tipo devono essere redatti in un linguaggio chiaro. Dettano, insomma, una generica prescrizione di chiarezza, senza definire tale concetto con criteri precisi e oggettivi. In caso di controversia, è rimesso alla discrezionalità del soggetto cui compete far rispettare la norma (giudice, autorità di controllo o di vigilanza) stabilire caso per caso se il documento contestato sia chiaro.

  2. Linee guida orientative

    La norma, in questo caso, non si limita a disporre che i testi che ricadono sotto la sua applicazione siano chiari, ma impartisce anche i criteri cui il redattore deve cercare di attenersi per raggiungere tale obiettivo. Tali criteri, comunque, vanno intesi come indicazioni di massima, non come regole assolute. Un esempio di questo tipo di approccio è fornito dal Plain Language Consumer Contract Act della Pennsylvania:

    (1) The contract should use short words, sentences and paragraphs.

    (2) The contract should use active verbs.

    (3) The contract should not use technical legal terms, other than commonly understood legal terms, such as “mortgage,” “warranty” and “security interest.”

    (4) The contract should not use Latin and foreign words or any other word whenever its use requires reliance upon an obsolete meaning.

    (5) If the contract defines words, the words should be defined by using commonly understood meanings.

    (6) When the contract refers to the parties to the contract, the reference should usePage 35 personal pronouns, the actual or shortened names of the parties, the terms “seller” and “buyer” or the terms “lender” and “borrower.”

    (7) The contract should not use sentences that contain more than one condition.

    (8) The contract should not use cross references, except cross references that briefly and clearly describe the substances of the item to which reference is made.

    (9) The contract should not use sentences with double negatives or exceptions to exceptions51.

  3. Regole rigide e oggettive

    Si tratta di un approccio estremo, in cui il legislatore detta regole linguistiche e grafiche assai minuziose, rigide e oggettivamente misurabili (non indicazioni orientative, come nel caso precedente) cui un contratto deve attenersi per essere legalmente considerato chiaro. Un esempio è rappresentato dalla plain language law dello stato del Connecticut:

    A consumer contract is also written in plain language if it fully meets all of the following tests[...]:

    (1) The average number of words per sentence is less than twenty-two; and

    (2) No sentence in the contract exceeds fifty words; and

    (3) The average number of words per paragraph is less than seventy-five; and

    (4) No paragraph in the contract exceeds one hundred fifty words; and

    (5) The average number of syllables per word is less than 1.55; and

    (6) It uses personal pronouns, the actual or shortened names of the parties to the contract, or both, when referring to those parties; and

    (7) It uses no type face of less than eight points in size; and

    (8) It allows at least three-sixteenths of an inch of blank space between each paragraph and section; and

    (9) It allows at least one-half of an inch of blank space at all borders of each page; and

    (10) If the contract is printed, each section is captioned in boldface type at least ten points in size. If the contract is typewritten, each section is captioned and the captions are underlined; and

    (11) It uses an average length of line of no more than sixty-five characters52.

    Si tratta, come si è detto, di criteri totalmente oggettivi: se il documento rispetta i parametri indicati, è per ciò stesso considerato in plain language (quand’anche fosse, di fatto, incomprensibile).

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  4. Un indice di leggibilità

    Alcune norme, per determinare se un documento sia sufficientemente chiaro, ricorrono alle formule di leggibilità53: strumenti matematici finalizzati a predire, attraverso un calcolo di tipo statistico, in che misura un testo sia difficile da leggere. Queste formule considerano, tipicamente, alcune caratteristiche quantitative del testo analizzato, come la lunghezza delle parole (la c.d. variabile semantica o lessicale) e delle frasi (la c.d. variabile sintattica), e, sulla base di tali parametri, forniscono un numero (un indice di leggibilità) che esprime il grado di difficoltà del testo stesso. Alcune leggi statunitensi (riferentisi, in genere, ai contratti assicurativi) stabiliscono che è da considerarsi chiaro il documento che consegue un indice minimo in base a una data formula (in genere tra 40 e 50 punti secondo la formula più famosa, quella di Flesch).

    Fra i quattro approcci suesposti, la Guida emanata dalla Banca d’Italia opta chiaramente per il secondo: le «indicazioni redazionali» che essa impartisce, infatti, si configurano come linee guida orientative, come indicazioni di massima, non certo come precetti rigidi e inderogabili. Quando, ad esempio, il provvedimento dice: «preferire la forma attiva a quella passiva», si intende che tendenzialmente, laddove risulti possibile e opportuno alla luce del contesto, il redattore dell’atto dovrebbe usare un verbo all’attivo piuttosto che al passivo; non che la forma passiva sia sempre, tassativamente da evitare. La flessibilità delle raccomandazioni formulate è confermata anche dalla relazione illustrativa che le ha accompagnate e che puntualizza: «Anche per non scoraggiare l’elaborazione di forme di comunicazione innovative ed efficaci, la Banca d’Italia non intende fornire criteri rigidi di redazione dei documenti. Ritiene invece necessario introdurre per via regolamentare standard minimi e generali di redazione» (par. 3.6).

    Si ritiene di condividere la scelta di questo approccio, che appare, per varie ragioni, preferibile agli altri sopra illustrati.

    Una generica prescrizione di chiarezza (del tipo: «Tutti i documenti della categoria x devono essere scritti in modo chiaro») – il primo degli approcci considerati – appare più appropriata a un atto di rango legislativo, che, per sua natura, deve avere carattere generale e astratto. La Guida in esame,Page 37 che ha invece natura di provvedimento amministrativo, rivolto a destinatari specifici (le banche), giustamente scende più nel dettaglio e detta linee guida più precise, benché, come si è visto, flessibili. Il suo intento, infatti, non è solo quello di imporre un obbligo, ma anche quello di fornire indicazioni operative su come adempierlo. La Banca d’Italia è organo di vigilanza e non legislativo, seppur dotato di un potere regolamentare, pertanto il suo compito non è tanto quello di sancire principi generali, quanto quello di indirizzare concretamente l’azione dei soggetti da essa controllati.

    La fissazione di standard estremamente precisi e oggettivamente misurabili il terzo tipo di approccio non è raccomandabile, perché contrasta con le attuali conoscenze relative ai processi cognitivi della lettura e della comprensione. Esso presuppone una obsoleta concezione meccanicistica di tali processi, secondo la quale il buon esito della comunicazione dipenderebbe dalla presenza o meno nel testo di alcune caratteristiche formali (frasi brevi, verbi attivi, caratteri sufficientemente grandi, ecc.). La chiarezza, invece, non può essere assicurata a priori dall’ottemperanza a un apparato di criteri predeterminati, poiché dipende – come la letteratura psicolinguistica degli ultimi decenni ha evidenziato – dall’interazione fra numerosi fattori, in gran parte extralinguistici, quali il contenuto informativo da trasmettere, le conoscenze pregresse dei destinatari, il contesto di ricezione, e così via. Non sarebbe difficile costruire esempi di testi che rispettano alla lettera i criteri numerici indicati e che, tuttavia, risultano incomprensibili. Come affermano Bowen, Duffy e Steinberg (1991: 23): «Legislating objective criteria may result in compliance with the letter of the law (i.e., the criteria), but may not result in compliance with the spirit of the law (i.e., usable documents)».

    Anche il quarto approccio, consistente nel prescrivere il raggiungimento di un dato indice fornito da una formula di leggibilità, sembra da respingere, data la scarsa attendibilità di tali strumenti. Le formule di leggibilità, infatti, non sono in grado di rispecchiare con sufficiente esattezza la reale difficoltà di un documento, perché, focalizzate come sono su caratteristiche superficiali e quantitative del testo analizzato (la lunghezza delle parole e delle frasi), esse non considerano fattori ben più profondi e importanti incidenti sulla comprensione, quali le caratteristiche del lettore, i contenuti veicolati, l’organizzazione delle informazioni, la coesione e la coerenza, la densità e l’astrattezza delle idee, vari aspetti della sintassi, la grafica e molti altri. Le formule non possono offrire nulla più che una vaghissima indicazione circa un probabile livello di difficoltà di un testo; non pare quindi opportuno farPage 38 dipendere conseguenze giuridiche più o meno rilevanti da strumenti così poco affidabili54.

6.6. L’efficacia delle indicazioni redazionali

Al di là delle considerazioni circa l’adeguatezza dell’approccio adottato sotto il profilo della tecnica normativa, resta da domandarsi se le indicazioni redazionali fornite dalla Guida siano realmente efficaci dal punto di vista linguistico-comunicativo, cioè se la loro applicazione conduca effettivamente alla realizzazione di documenti chiari e comprensibili.

Si può facilmente rilevare che le indicazioni in esame coincidono con le linee guida propugnate internazionalmente dai fautori del plain language movement, nonché con quelle rinvenibili nelle direttive e nei manuali italiani per la semplificazione del linguaggio amministrativo (cfr. § 6.4). Pertanto, valgono per le indicazioni redazionali rivolte dalla Banca d’Italia agli istituti di credito valutazioni analoghe a quelle valevoli per le linee guida proposte dal Dipartimento della Funzione pubblica e dai linguisti per i testi della pubblica amministrazione55.

Va innanzitutto rilevato che le linee guida presenti nelle pubblicazioni italiane sono state mutuate – vale a dire tradotte e lievemente adattate – da analoghe raccomandazioni elaborate in ambito anglofono, pertanto la loro applicabilità alla realtà linguistica e retorica italiana, almeno per alcune di esse, appare alquanto dubbia.

Ma la perplessità maggiore riguardo a queste linee guida – in qualunque contesto vengano proposte – è suscitata dalla scarsità della ricerca che ne dovrebbe costituire il fondamento scientifico. Esse, infatti, appaiono frutto più dell’intuizione di chi le propone, della tradizione, dell’esperienza − valori che pure non vanno sottovalutati − che della ricerca.

In realtà, negli Stati Uniti, verso la fine degli anni Settanta, ci si adoperò per trovare alle linee guida un supporto nella ricerca empirica, superando l’impressionismo che le aveva caratterizzate fino ad allora. Il più serio e ambizioso tentativo in tal senso fu compiuto dagli studiosi operanti presso il Docu-Page 39ment Design Center di Washington, che cercarono nella letteratura scientifica un sostegno alle linee guida comunemente suggerite56. Tuttavia, pur non potendosi disconoscere l’importanza dell’opera di questi ricercatori, il supporto che essi riuscirono a trovare alle varie linee guida individuato soprattutto in studi psicolinguistici degli anni Sessanta-Settanta appare alquanto debole e indiretto.

Lavori più recenti non sono comunque riusciti a dimostrare convincentemente l’efficacia delle linee guida considerate. Anzi, alcuni di questi studi hanno indicato casi in cui l’applicazione di una data linea guida si dimostra non solo inefficace ma controproducente.

Ad esempio, una raccomandazione assai frequente presente anche nella Guida approntata dalla Banca d’Italia è quella che suggerisce di evitare la forma passiva dei verbi. Ebbene: «Many believe that active voice is more effective than passive voice» − afferma Spyridakis (2000: 369) − «however, the research literature to support this folklore shows inconsistent results». Rhodes (1997) ha confrontato la versione attiva e quella passiva di quattro testi espositivi e ha rilevato livelli di comprensione sovrapponibili. Coleman (1997), in un articolo eloquentemente intitolato In defense of the passive voice in legal writing, evidenzia numerosi casi in cui la forma passiva risulta più appropriata di quella attiva. Riggle (1998), basandosi sull’analisi di un corpus di 185 documenti prodotti dal Ministero della Difesa statunitense, segnala svariati casi di utile impiego della forma passiva, non contemplati dai più diffusi manuali di stile57.

Anche l’immancabile raccomandazione di scrivere frasi brevi è stata largamente confutata. «Contrary to oft-quoted opinion» − sostiene Selzer (1983: 74) − «there is no evidence that shortening sentences will make writing more comprehensible». Schlesinger (1968: 78-79) ha sottoposto a prove di comprensione varie versioni di uno stesso testo che differivano unicamente nella lunghezza delle frasi e non ha riscontrato variazioni significative nei punteggi. Analogamente, gli esiti dei test di comprensione condotti da Charrow e Charrow (1979: 1320), nel loro influente studio psicolinguistico sulla comprensibilità di alcuni testi giuridici, «clearly illustrate that sentence length has virtually no effect on subjects’ performance».

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Gli studi sopra citati hanno misurato gli effetti che singole linee guida, isolatamente considerate, determinano sulla comprensibilità dei testi a cui sono applicate. Un’altra categoria di studi ha invece indagato quale effetto produca sulla comprensibilità di un testo non l’applicazione di una singola linea guida, bensì l’applicazione simultanea, da parte di redattori di assodata competenza, del complesso delle linee guida comunemente raccomandate58. In altre parole, anziché verificare l’efficacia di questo o di quello specifico intervento linguistico-testuale, questi lavori hanno cercato di valutare l’efficacia del metodo in questione, ossia dell’approccio alla scrittura tecnico-professionale (soprattutto giuridico-amministrativa) basato su linee guida; approccio che risulta, alla luce di tali indagini, non pienamente soddisfacente. Dal complesso di questi studi, infatti, si trae la conclusione che la revisione del testo basata sulle linee guida consolidate sembra migliorare sì, tendenzialmente, la comprensibilità dello stesso, ma non in tutti i casi, non in tutte le sue parti e non per tutte le categorie di lettori.

I limiti delle linee guida che la letteratura citata ha evidenziato derivano dalla loro natura di strumenti text-based, basati sul testo. La loro focalizzazione è sul documento, non direttamente sul lettore. Chi semplifica il testo ricorrendo alle linee guida utilizza esclusivamente dati testuali, per lo più lessicali e sintattici, ricavabili dalla pagina scritta; i lettori sono esclusi dai fattori contemplati.

All’approccio text-based si contrappone quello reader-based, basato sul lettore, che consta di metodi finalizzati a rilevare come campioni rappresentativi dei potenziali destinatari rispondono al testo, al fine di utilizzare tale risposta come guida alla revisione del documento. I metodi pratici per sollecitare e raccogliere le reazioni dei lettori al testo sono molteplici − quesiti a scelta multipla, interviste, questionari, procedura cloze, protocolli verbali o comportamentali, ecc. − e per una loro disamina si rinvia alla vasta letteratura in materia di testing di usabilità59. Quel che importa evidenziare è che, con questo tipo di approccio, a orientare le scelte linguistico-testuali dello scrivente non sono linee guida generali e impartite a priori, bensì i dati empirici, qualitativi e quantitativi, ricavati dal comportamento dei lettori reali (cioè, di un loro campione rappresentativo) nell’interazione con il testo (cioè, con un suo prototipo, una sua versione provvisoria, dato che il responso dei lettori deve po-Page 41terne indirizzare i futuri sviluppi). Uno dei rari esempi italiani di approccio reader-based è stata la riscrittura di una bolletta della luce effettuata nel 1997 sulla base di test condotti su vasti campioni di lettori60.

È opinione largamente condivisa fra gli studiosi della scrittura che i metodi reader-based siano più efficaci di quelli text-based, per il motivo − piuttosto ovvio − che, per individuare i problemi di comprensione del testo, tali metodi si affidano direttamente ai lettori, che, per questo tipo di informazione, rappresentano l’unica fonte attendibile. Nel caso dei testi altamente tecnici categoria alla quale sono certamente ascrivibili quelli bancari, l’estensore, possedendo un’approfondita conoscenza della materia, è spesso incapace di rendersi conto delle difficoltà di comprensione incontrate dai lettori che di tale conoscenza sono privi. La sua padronanza dell’argomento agisce da paraocchi, rendendolo cieco alle esigenze dei lettori non specialisti: si tratta del cosiddetto «knowledge effect», ben descritto da Hayes e collaboratori (1986). Il feedback dei lettori, ottenuto mediante il testing, è prezioso proprio perché permette di superare questo limite. Vari studi mettono a diretto confronto i metodi text-based con quelli reader-based, mostrando la maggior efficacia dei secondi61.

Non si può ignorare, tuttavia, che testare i documenti comporta un dispendio di tempo e di mezzi tale da non risultare praticabile in via generale, neppure per un’organizzazione dotata di grandi risorse quale è una banca. Il testing implica, infatti, una sequenza di operazioni alquanto impegnative: l’allestimento di un setting, cioè di una situazione realistica; il reperimento dei partecipanti, in numero adeguato e dotati delle appropriate caratteristiche socioculturali; l’approntamento dei quesiti, attività non dilettantesca e da eseguirsi secondo metodiche ben precise; la valutazione dei risultati. È inoltre necessario disporre di adeguate attrezzature (nei test più avanzati, ad esempio, gli esaminati vengono talvolta filmati) e di personale specializzato, addestrato nelle tecniche del testing62.

Non essendo, dunque, pensabile che una norma imponga alle banche di testare i documenti, impartire delle indicazioni redazionali appare l’approccio più equilibrato. Benché sia stato messo in evidenza il debole fondamento scienti-Page 42fico di queste ultime, è tuttavia ragionevole ritenere che esse siano efficaci, perché sono consolidate e pressoché universalmente accettate, e la loro applicazione ha permesso di ottenere buoni risultati in molti casi ben documentati in letteratura63. In definitiva, seppur non adeguatamente suffragate dalla ricerca, le linee guida per la chiarezza della scrittura sembrano comunque avvalorate dall’evidenza aneddotica e dall’esperienza, che non sono irrilevanti. La loro efficacia risulta, quindi, se non sperimentalmente dimostrata, quanto meno assai plausibile.

6.7. La Guida come atto di pianificazione linguistica

Accanto al problema dell’efficacia delle indicazioni redazionali sotto il profilo linguistico-comunicativo, richiede qualche riflessione anche la forma giuridica che si è scelto di conferire alle stesse. La Guida è stata infatti incorporata in un provvedimento della Banca d’Italia: un atto amministrativo, dunque. Un atto che non ha rango legislativo – frutto, quindi, di una scelta, come si è visto (§ 6.5), diversa da quella operata in altri stati, dove invece si è optato per lo strumento legislativo –, privo perciò della forza impositiva delle leggi, ma comunque dotato di valore precettivo nei confronti delle banche, che sono tenute a conformarvisi.

Passando dal piano giuridico a quello sociolinguistico, siamo chiaramente di fronte a un atto di pianificazione linguistica, intendendo con tale espressione un’attività che ha luogo allorché un soggetto, legittimato a compierla, di norma, in virtù del proprio ruolo istituzionale (in questo caso la Banca d’Italia), adotta delle misure miranti a orientare il comportamento linguistico di un gruppo sociale (il personale delle banche), per renderlo conforme a degli obiettivi ritenuti socialmente e politicamente desiderabili (la comprensibilità dei contratti bancari per il cliente ordinario, e, più in generale, la tutela dei consumatori).

Nello specifico, si tratta di un caso di pianificazione di corpus (corpus planning), concetto che denota le misure adottate per incidere sul “corpus” di una lingua (o, come in questo caso, di una varietà linguistica: il linguaggio bancario), ossia sul materiale, se così si può dire, da cui essa è composta, sui suoi aspetti strutturali − fonetica, morfologia, lessico, sintassi, ortografia −, al fine diPage 43 metterla in condizione di soddisfare le esigenze comunicative a cui è destinata64.

È lecito domandarsi – tornando nuovamente al piano giuridico – quale possa essere l’effettiva cogenza esplicata dal provvedimento in esame, quale sia il suo grado di vincolatività. In parole povere: in che misura potrà esso obbligare le banche a usare un linguaggio chiaro nella documentazione destinata alla clientela? Poiché, di fatto, l’efficacia di una norma è inevitabilmente correlata all’efficacia delle sanzioni previste per la sua violazione, è ragionevole ritenere che gli effetti concreti di questo provvedimento non risulteranno molto incisivi, dato che l’unico cenno ai mezzi approntati per garantirne l’osservanza è quello contenuto nel par. 3.6 della relazione illustrativa: «Il rispetto di tali standard costituirà oggetto di particolare attenzione nell’ambito dei controlli». Un’affermazione decisamente blanda.

7. Osservazioni conclusive

L’emanazione della Guida alla redazione dei documenti di trasparenza va certamente salutata come un’iniziativa utile e opportuna. Sebbene le indicazioni che impartisce siano ancora in attesa di un’adeguata convalida della ricerca empirica, vi sono fondate ragioni per ritenere che, se utilizzate in modo accorto, esse possano migliorare significativamente la comprensibilità dei testi prodotti dalle banche.

Un limite della Guida consiste nel fatto che essa si basa esclusivamente su astratte “indicazioni redazionali” e non contempla alcuna forma di testing, alcun metodo di rilevamento del feedback concreto da parte dei lettori, mentre si ritiene di convenire con Schriver (1991: 151), quando afferma che «Instead of abstract “elements of style”, writers are looking for answers to concrete questions concerning how well the text is functioning for the intended audience».

Si deve, tuttavia, prendere atto che testare i documenti bancari (al pari, del resto, di quelli della pubblica amministrazione) sotto il profilo della com-Page 44prensibilità e dell’usabilità rappresenta un’aspirazione ideale e, a ben vedere, utopistica, che non fa conto della realtà, perché, come si è detto, le procedure di testing sono laboriose, impegnative, dispendiose; inoltre, richiedono competenze che sarebbe arduo reperire in Italia oggi. Infatti, la pratica di testare i documenti, relativamente consolidata in altri paesi (Stati Uniti, Australia, Paesi Bassi), è pressoché ignota in Italia. Non sarebbe, quindi, proponibile imporre alle banche italiane una pratica gravosa, che esse difficilmente sarebbero in grado di attuare e – soprattutto – della cui utilità difficilmente si convincerebbero.

Siano consentiti, tuttavia, due argomenti a sostegno dell’opportunità di ricorrere al testing:

a. il testing è sì oneroso, però i suoi costi sono forse inferiori a quelli provocati dalla scarsa chiarezza della documentazione: si pensi al tempo impiegato dai dipendenti – tempo, va ricordato, retribuito – per fornire all’utenza delucidazioni che documenti chiari renderebbero superflue; alle spese giudiziarie per gestire il contenzioso che una comunicazione più trasparente, anche linguisticamente, eviterebbe; al danno d’immagine derivante a una banca che si relaziona male con la propria clientela;

b. è vero che un test eseguito a regola d’arte è inevitabilmente macchinoso e costoso, ma esistono anche forme di testing definite “informali”, su scala ridotta, praticabili senza eccessivo dispendio di risorse; procedure prive del rigore che contrassegna il testing condotto secondo i protocolli più rigidi, ma che, nondimeno, forniscono risultati sufficientemente attendibili e adeguatamente informativi.

Sarebbe quindi auspicabile che il testing non venisse escluso in modo assoluto; semmai, se ne potrebbe suggerire l’impiego limitatamente a documenti di estrema rilevanza e larga diffusione, nel qual caso i benefici supererebbero i costi. Esso rimane invece improponibile per la scrittura corrente, cioè per l’immensa quantità di documenti ordinari che le banche producono quotidianamente.

Un altro problema connesso alle indicazioni redazionali contenute nella Guida concerne non tanto la loro efficacia intrinseca, quanto il loro uso appropriato da parte di chi ha il compito di redigere i documenti bancari. Esse non sono che strumenti, e uno strumento è valido nella misura in cui il suo utilizzatore lo sa adoperare. «The guidelines are only as good as the people who apply them», ammonisce Tiersma (1999: 224). Ebbene: i destinatari di queste linee guida,Page 45 cioè gli operatori bancari, sono in grado di applicarle in modo corretto e adeguato? C’è motivo di dubitarne.

Nonostante i propugnatori delle linee guida si premurino di sottolinearne − debitamente − la natura orientativa e flessibile, di ribadire, cioè, che non si tratta di regole in senso stretto, ferree e inflessibili, ciò non basta a impedire che coloro ai quali sono destinate le percepiscano come tali. Il personale delle banche proviene perlopiù da studi giuridici o economici e non ha, in genere, grande dimestichezza con la scrittura; più precisamente, non è abituato a scrivere per farsi capire da un pubblico non specialista. È perciò naturale che chi muove i primi passi su un terreno che non conosce tenda a rifugiarsi nella certezza della regola.

Idealmente, le tecniche di scrittura chiara dovrebbero essere utilizzate, per usare una metafora, come una sorta di cassetta degli attrezzi, dalla quale l’artigiano, di volta in volta, in base alle mutevoli esigenze del compito che gli si prospetta, sceglie quale estrarre. Fuor di metafora, lo scrivente dovrebbe avere la capacità di capire quale linea guida è opportuno impiegare, in base alla situazione retorica, agli obiettivi, al destinatario e ad altre variabili contestuali; dovrebbe, insomma, saper adoperare flessibilmente, con giudizio e sensibilità, le tecniche fornitegli. Invece, l’esperienza mostra che il rischio che queste vengano intese in senso prescrittivo e applicate in modo rigido e meccanico è assai concreto: «Evidence suggests that writers have difficulty recognizing when and how to apply guidelines» riferisce Schriver (1989: 245) «When guidelines are invoked too rigidly, they function as rules and can have the effect of stiffing creative solutions to rhetorical problems».

È quindi evidente che la Guida alla redazione dei documenti di trasparenza rischierà di rimanere lettera morta, se non sarà seguita da adeguati interventi formativi rivolti al personale delle banche e finalizzati all’acquisizione della competenza necessaria a utilizzare in maniera efficace le tecniche redazionali proposte. In alternativa, gli istituti bancari dovranno ricorrere a consulenti esterni, esperti di scrittura. In alcuni paesi, come negli Stati Uniti, le grandi organizzazioni spesso assumono scrittori professionali a tempo pieno, per inserirli stabilmente nel proprio organico (si tratta di una figura specifica, denominata writer-in-residence o in-house editor65). Simili casi in Italia sono ancora decisamente rari.

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Forse, però, il maggior ostacolo a che i criteri redazionali suggeriti dalla Guida vengano di fatto osservati risiede non tanto nella carente competenza scrittoria degli operatori di banca, quanto nel loro atteggiamento verso il linguaggio bancario tradizionale e nella percezione che ne hanno. Infatti, affinché essi siano disposti a modificare le proprie abitudini stilistiche, è necessario che ne avvertano la necessità, in quanto riconoscono il proprio modo di scrivere come inadeguato e bisognoso di rinnovamento. Ma non è affatto scontato che essi possiedano tale consapevolezza.

I bancari formano una comunità professionale, che si traduce − sociolinguisticamente parlando – in una comunità discorsiva, i cui membri, cioè, condividono determinati usi linguistici, modi convenzionali e istituzionalizzati di esprimersi e di comprendersi (e, in una certa misura, anche di pensare)66. Ogni comunità discorsiva possiede regole non scritte su cosa dire e su come dirlo, un peculiare registro stilistico, generi testuali specifici, convenzioni interpretative, obiettivi e aspettative comuni. Gli appartenenti alla comunità bancaria sono avvezzi al loro gergo, possiedono un retroterra di conoscenze condiviso e costituiscono un gruppo relativamente chiuso e refrattario al cambiamento.

Le istanze riformatrici sono destinate a scontrarsi con una serie di obiezioni facilmente prevedibili (anche perché largamente coincidenti con gli argomenti addotti dai funzionari pubblici restii a semplificare il linguaggio amministrativo67): che il linguaggio tradizionalmente usato nei documenti bancari è necessario a garantirne l’irrinunciabile precisione tecnico-giuridica, mentre uno stile diverso rischierebbe di pregiudicarne la validità o l’efficacia, rendendoli giudizialmente vulnerabili; che un certo livello di formalità è appropriato ai testi bancari e serve a conferire loro prestigio, autorevolezza, professionalità; che in fondo non è essenziale che i clienti capiscano il contratto, perché il suo scopo non è di informare (a quello provvede la spiegazione orale del funzionario), ma solo di regolare in modo corretto il rapporto giuridico sorto dalla sua stipulazione.

Campbell (2003), nell’ambito di uno studio sui contratti bancari neozelandesi, ha intervistato numerosi impiegati presso le banche locali. Le risposte ottenute hanno permesso all’autrice di tracciare un quadro assai vivido dei loro atteggiamenti riguardo al linguaggio utilizzato nell’attività bancaria:

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Many [bank personnel] seemed to genuinely believe that security documents, because they were legal contracts, had to be written in legalese. Long sentences with little or no punctua tion, legal terminology, confusing syntax, and other characteristics peculiar to legalese were believed to be necessary for the contracts to be valid and able to stand up in court. Some bank personnel interviewed even suggested that legal concepts to do with banking were too complex to be expressed in plain English and that plain English therefore would not “cover all the legal finer points” and provide the same level of legal security. In fact, the incomprehensibi lity seemed to reassure bank personnel that the documents were legally sound. That legalese is accepted without question by many bank staff is hardly surprising. The style of writing has been around for a long time, and is seen as precise, unambiguous, as well as prestigious. To banks, there is nothing unnatural about using legalese in consumer contracts because legalese is the “appropriate” way to write this kind of document. [...] Many bank personnel were of the opinion that the contracts such as the memorandum of mortgage or the guarantee were not meant for the consumer to read anyway, and so it did not really matter if they were written in legalese. The primary purpose of the contracts, they maintained, was to protect banks from possible loss.

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La mentalità che emerge dalle opinioni riportate – un vero concentrato di pregiudizi, concezioni erronee, distorte vedute – è probabilmente comune agli ambienti bancari di tutti i paesi, non escluso quello italiano.

È evidente che, se queste sono le convinzioni soggiacenti all’utilizzo del linguaggio bancario attualmente in uso, qualunque tentativo di riforma potrà avere successo solo se agli strumenti giuridici, come i provvedimenti della Banca d’Italia, si accompagnerà un cambiamento culturale.

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[1] Il termine “intermediari” designa i soggetti dotati di specifica abilitazione che offrono al pubblico servizi bancari e finanziari e sono vigilati dalla Banca d’Italia.

[2] Gazzetta Ufficiale , serie generale, n. 210 del 10 settembre 2009, supplemento ordinario n. 170. La normativa è altresì disponibile sul sito web istituzionale della Banca d’Italia (), insieme a una relazione sull’analisi d’impatto della regolamentazione e ad altri documenti di accompagnamento.

[3] Il documento di consultazione, gli atti che lo accompagnano e i pareri pervenuti sono disponibili anch’essi nel sito della Banca d’Italia, alla seguente pagina web: .

[4] Società produttrice di latticini, la Parmalat è stata al centro di uno dei più clamorosi casi europei di bancarotta fraudolenta e aggiotaggio. Il suo fallimento ha comportato l’azzeramento del patrimonio azionario dei piccoli azionisti, mentre i risparmiatori che avevano investito in obbligazioni hanno ricevuto solo un parziale risarcimento. Lo scandalo venne alla luce solo nel 2003, benché sia stato poi dimostrato che le difficoltà finanziarie dell’azienda fossero rilevabili già molti anni prima.

[5] Oltre 35 mila risparmiatori sono stati coinvolti nel crac della Cirio, società operante nel settore alimentare. Gli istituti di credito sono stati accusati di aver venduto con troppa leggerezza ai clienti obbligazioni emesse dalla Cirio, che in realtà avrebbero dovuto essere acquistate solo da investitori istituzionali. Si trattava, infatti, di titoli privi di rating e di prospetto informativo, requisiti richiesti dalla Consob (Commissione Nazionale per le Società e la Borsa) per il collocamento presso il pubblico.

[6] L’Argentina emise dei bond il cui valore si azzerò in seguito alla crisi finanziaria del paese. Le banche che avevano consigliato questi titoli ai consumatori sono state condannate a risarcirli, in quanto, secondo il giudice, esse avrebbero dovuto essere a conoscenza dell’alto rischio di insolvenza e informare i clienti.

[7] Ci si riferisce, qui, soprattutto al titolo VI del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, concernente la trasparenza delle condizioni contrattuali delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari; alla deliberazione del CICR (Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio) del 4 marzo 2003, recante «Disciplina della trasparenza delle condizioni contrattuali delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari»; a vari provvedimenti della Banca d’Italia contenenti norme di dettaglio in materia di trasparenza.

[8] Relazione illustrativa, sez. III, par. 6.

[9] La Guida è scaricabile dal seguente indirizzo web:

[10] Si suggerisce, ad esempio di: – collocare le informazioni più importanti nella prima parte della schermata (adottare, cioè, la cosiddetta struttura «a piramide invertita»);

– evitare le pagine web troppo lunghe segmentando il testo e distribuendo le informazioni su più pagine, avendo però cura di facilitare l’orientamento degli utenti attraverso un menu di navigazione chiaro e usabile;

– considerare le norme sull’accessibilità dei siti alle categorie svantaggiate, obbligatorie per legge solo per i siti delle pubbliche amministrazioni, ma utilmente applicabili anche ai siti delle banche.

[11] L’importanza del retroterra di conoscenze del lettore ai fini della comprensione è stata evidenziata da numerosissimi studi. Ricordiamo, fra i molti, i fondamentali BRANSFORD & JOHNSON (1972) e ANDERSON & PEARSON (1984).

[12] La audience analysis consiste in una serie di tecniche volte a identificare il lettore-tipo a cui ci si indirizza, rilevare le sue caratteristiche (anagrafiche, socio-economiche, culturali, ecc.) e valutare i suoi bisogni e le sue capacità di comprensione, così da poter modellare il testo di conseguenza. Per un’introduzione, cfr. il classico PEARSALL (1969) e SCHRIVER (1997: 151-207).

[13] Il plain language movement è un movimento che propugna la chiarezza del linguaggio usato dalle istituzioni verso i cittadini/consumatori. Nato nei paesi anglofoni negli anni Settanta, e legato inizialmente al più generale movimento per la tutela dei consumatori, si sviluppò poi autonomamente e si diffuse nella maggior parte delle moderne democrazie. Esso portò alla nascita di associazioni, centri di ricerca, riviste specializzate, incoraggiò iniziative governative e stimolò la produzione di una ricca letteratura scientifica. Per un’introduzione, cfr. REDISH (1985); KIMBLE (1992); MAZUR (2000); FORTIS (2005c: 87-90).

[14] Il documento originale e quello semplificato sono riportati integralmente in TIERSMA (1999: 257-262).

[15] Per «contratti del consumatore» (consumer contracts) si intendono quelli in cui uno dei contraenti è appunto un consumatore, vale a dire un individuo, una persona fisica, che agisce (acquista un bene o un servizio) a scopi personali, familiari, domestici, non rientranti nel quadro di una propria eventuale attività professionale; l’altro è invece un professionista: un imprenditore, un operatore commerciale, un venditore di beni o prestatore di servizi che agisce nell’esercizio della propria professione. Spesso quest’ultimo è una persona giuridica, cioè un’organizzazione, quale, ad esempio, una banca.

[16] New York General Obligations, § 5-702, a. Sui caratteri della legge, sulle circostanze della sua adozione e sugli effetti che produsse cfr. GIVENS (1981) e FELSENFELD (1991).

[17] Cfr. il Magnuson-Moss Consumer Product Warranty Act (1975).

[18] Cfr. l’Electronic Funds Transfer Act (1978).

[19] Cfr. il Truth in Savings Act (1991).

[20] Cfr. ASPREY (2003: 61-62). Cfr. anche la pur datata rassegna di tale legislazione contenuta nell’appendice di KIMBLE (1992).

[21] Del Bank Act si vedano, in particolare, le sottosezioni 459(1) e 576(1). Del Financial Consumers Act adottato dalla provincia dell’Alberta e finalizzato ad assicurare che i consumatori ricevano informazioni adeguate prima di acquistare determinati prodotti finanziari si veda la sezione 13.

[22] Cfr. KAHN (2001).

[23] Si segnalano, a tal proposito, il Financial Advisory and Intermediary Services Act (2002) e il National Credit Act (2005).

[24] Ciò è prescritto dal cosiddetto Securities Act del 1933.

[25] SEC release 33-7497, Plain English Disclosure, 28 gennaio 1998.

[26] Rule § 230.421(b) .

[27] Rule § 230.421(d). Si noti, per inciso, che queste norme sono plain nella loro stessa formulazione, tanto da rivolgersi direttamente al destinatario in seconda pesona («You must...»).

[28] U.S. SECURITIES AND EXCHANGE COMMISSION (1998). Il progetto di semplificazione intrapreso dalla SEC è descritto in modo esauriente in CLYDE (1998). Un articolato giudizio sulla nuova normativa è in BYERS (2000).

[29] La Bank of Nova Scotia in Canada (DICK, 1980), le banche dello stato del Michigan (MARTIN, 1989), la St. George Bank in Australia (BENNETT, 1993) e la Banca d’Irlanda (HUNT, 2002) costituiscono esempi di istituti di credito che hanno riscritto i propri contratti e i propri moduli secondo criteri di chiarezza.

[30] Cfr., fra i molti, U.S. DEPARTMENT OF COMMERCE, (1983, 1984); DUCKWORTH & BALMFORD (1994); DUCKWORTH & MILLS (1996); KIMBLE (1996-1997).

[31] JOINT COMMITTEE ON PLAIN LANGUAGE (1990).

[32] Il Banking Code del Regno Unito fu adottato dalla British Bankers’ Association nel 1992 e più volte modificato; qui ci cita dalla versione del marzo 2005.

[33] Cfr. LANE (2001).

[34] JAMES (2006: 20), ad esempio, riferisce di una sentenza australiana che ha dato torto a una banca esclusivamente sulla base della considerazione che i clienti non potevano aver compreso il contatto che avevano firmato.

[35] Si vedano, su questo punto, le considerazioni di WILLIAMS (2005).

[36] Sulle caratteristiche del linguaggio amministrativo italiano cfr. FORTIS (2005b: 51-88).

[37] Ci si riferisce soprattutto alla Legge 7 agosto 1990, n. 241, «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi», che ha segnato l’inizio di quel processo di riforma della pubblica amministrazione che è proseguito, attraverso tutti gli anni Novanta, fino ad oggi. Essa introduce nell’ordinamento amministrativo italiano i principi di pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa e il diritto d’accesso ai documenti. Benché questa legge non tratti esplicitamente del linguaggio, l’esigenza di una scrittura amministrativa più chiara costituisce un suo corollario ed è implicita nel suo spirito. Altra legge da ricordare è la Legge 7 giugno 2000, n. 150, «Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle pubbliche amministrazioni», la legge-quadro sulla comunicazione pubblica, che dà per la prima volta una sistemazione organica alle attività di informazione e comunicazione della pubblica amministrazione, istituendo anche nuove, specifiche figure professionali. Nemmeno questa legge fa espresso riferimento alle questioni linguistiche, ma crea il contesto entro il quale la semplificazione del linguaggio amministrativo trova adeguata collocazione.

[38] Per una trattazione più dettagliata della riforma del linguaggio amministrativo italiano qui ricostruita alquanto sommariamente cfr. FORTIS (2005b: 88 e ss.)

[39] DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA (1993).

[40] FIORITTO (1997).

[41] Dipartimento della Funzione Pubblica, «Direttiva sulla semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi», Roma, 8 maggio 2002.

[42] Dipartimento della Funzione Pubblica, «Direttiva per la semplificazione del linguaggio delle pubbliche amministrazioni», Roma, ottobre 2005. Questo provvedimento, in realtà, non è mai stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, ma solo nel sito web del Dipartimento della Funzione Pubblica, perciò sussistono dubbi circa la sua esecutività e il suo valore giuridico.

[43] Per una puntuale disamina di questa direttiva, cfr. FORTIS (2006).

[44] Segnaliamo CORTELAZZO & PELLEGRINO (2003); FRANCESCHINI & GIGLI (2003); RASO (2005). Ricordiamo inoltre il recentissimo FIORITTO (2009), che si caratterizza per la focalizzazione sugli atti amministrativi.

[45] Direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori.

[46] Legge 6 febbraio 1996, n. 52, « Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee» (nota come «Legge comunitaria 1994»).

[47] Si tratta del capo XIV-bis del titolo II del libro IV (artt. da 1469-bis a 1469-sexies), introdotto dall’art. 25 della Legge n. 52/1996

[48] Decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, «Codice del consumo, a norma dell’articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229».

[49] Dal sito ufficiale:

[50] Questa schematizzazione è proposta da TIERSMA (1999: 222-227) e ripresa, con qualche adattamento, da FORTIS (2005c: 92-96). Cfr. anche l’analisi di BOWEN, DUFFY & STEINBERG (1991).

[51] Pennsylvania Statutes Annotated, § 2205(b)

[52] Connecticut General Statutes, § 42-152

[53] Sull’uso delle formule di leggibilità nella scrittura giuridico-amministrativa, cfr. FORTIS (2005a)

[54] La letteratura scientifica che evidenzia i limiti delle formule di leggibilità è vastissima: per una sintesi, cfr. FORTIS (2005a: 48 e ss.)

[55] Si riprendono, da questo punto in poi, alcune riflessioni già svolte in FORTIS (2004; 2008: 183-188).

[56] I risultati di queste ricerche sono confluiti in FELKER (1980) e FELKER et al. (1981).

[57] Una discussione più approfondita dei vantaggi e degli svantaggi comunicativi connessi all’uso della forma passiva è in FORTIS (2004: 61-66).

[58] Tra gli studi di questo tipo, ricordiamo, ad esempio, DAVIS (1977); KINCAID et al. (1977); CHARROW et al. (1980); SWANEY et al. (1991).

[59] Una buona rassegna, datata ma tuttora valida, è offerta da SCHRIVER (1989).

[60] Cfr. DE MAURO & VEDOVELLI (1999).

[61] Ad esempio, SWANEY et al. (1991); LENTZ & DE JONG (1997); SCHRIVER (1997: 444-473).

[62] Sulle procedure di testing e sulle loro implicazioni, cfr. DUMAS & REDISH (1999).

[63] Rassegne di casi in cui le plain language guidelines sono state applicate con successo sono offerte da KIMBLE (1994-5; 1996-7) e da ASPREY (2003: 60-78). Per aggiornamenti sui casi più recenti, si consultino gli ultimi numeri della rivista Clarity.

[64] COOPER (1989: 154) annovera espressamente il plain language movement – nell’ambito del quale vanno inquadrate anche le misure oggetto del presente articolo – tra i casi di corpus planning, rilevando, tuttavia, il carattere peculiare di questo tipo di pianificazione, per designare il quale suggerisce il termine renovation (per distinguerlo da altre forme di pianificazione di corpus, che denomina graphization, standardization e modernization), intendendo con esso «an effort to change an already developed code, whether in the name of efficiency, aesthetics, or national or political ideology. [...] The renovated language fulfills no new communicative functions. [...] Renovation permits language codes to serve old functions in new ways».

[65] Cfr. GOOD (1995).

[66] Cfr. NYSTRAND (1982); SWALES (1990).

[67] Cfr. FORTIS (2003: 46 e ss.)

[68] CAMPBELL (2003: 25).

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