La natura della monarchia spagnola: il debattito storiografico

AutorAurelio Musi
Páginas1051-1062

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I La fortuna di una formula

La fortuna di una formula come quella di «composite Monarchies», proposta quasi vent’anni fa da John Elliott1, per indicare la struttura di alcune organizzazioni politiche europee nella prima età moderna, è legata a fattori diversi.

Il primo può essere identificato nel contesto storico e storiografico inglese in cui nasce e si sviluppa quella formula. C. Russell e A. J. Gallego hanno rilevato una linea di continuità fra il concetto di «composite States» di Koenigsberger, elaborato nel 1975, quello di «multiple Kingdoms» (Russell 1990) e le «composite Monarchies» di Elliott del 19922. Si è trattato, secondo i due storici, di un «tema inglese per eccellenza»: il Regno Unito è sorto, infatti, da una pluralità di monarchie giuridicamente distinte e autonome, tenute insieme unicamente dalla persona del monarca.

Il secondo fattore di fortuna si comprende entro un orizzonte storiografico più ampio che, soprattutto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, ha costituito il punto di riferimento di una koiné, presto diventata vulgata, tendente a mettere in discussione il paradigma, considerato obsoleto, quasi fantasmatico, dello Stato moderno come nuova e più efficace forma di organizzazione politi-

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ca. Su questo punto decisivo tornerò successivamente. Qui è appena il caso di notare che mentre il termine Stato, sia pure nei suoi caratteri complessi, appare ancora nel concetto di Koenigsberger del 1975, esso scompare nei costrutti successivi, sostituito dai più asettici -e meno associati ad una precisa e ben connotata tradizione di studi- Regni o Monarchie. Il fatto è che gli anni Settanta furono una congiuntura storiografica in cui «Stato moderno» rappresentava ancora un riferimento forte e comunemente accettato, sia pure, naturalmente, rivisto e arricchito di nuove connotazioni rispetto alla sua accezione tradizionale3. A metà degli anni Novanta del Novecento, il termine Stato è invece associato, da Russell e Gallego, al «ciclo storico dell’uniformità e della centralizzazione, aperto nel 1789»: non solo, secondo i due storici, «per ora esso si chiude», ma addirittura comincia a sparire già trecento anni prima4. Pertanto composite Monarchies, al plurale, sta ad indicare che il carattere pluralistico non è solo prerogativa della Monarchia spagnola, ma della costituzione politica, per così dire, di altri paesi europei.

Più in generale -ed è il terzo fattore di successo- la fortuna della formula si spiega anche nel quadro di una sensibilità politico-culturale, tipica dell’epoca della globalizzazione, altalenante e pendolare, oscillante di continuo tra la convinzione della crisi, della morte presunta, ma anche di un’improvvisa resurrezione degli Stati-nazione5: laddove, tuttavia, la percezione della crisi e della morte ha prevalso e prevale sulle improvvise rinascite e ha fatto pensare e fa pensare alla possibilità di un’integrale sostituzione degli Stati-nazione con strutture di integrazione sovrastatuale e sovranazionale, capaci di costituire un’alternativa più efficace alle forme politiche tradizionali nella governance mondiale.

II Forme di unione

Più di recente il rapporto presente-passato ha fatto scattare un altro collegamento: quello tra le forme di integrazione sovrastatuale e sovranazionale del tempo presente e le «forme di unione», cioè le modalità e le dinamiche dell’incorporazione di entità politiche differenti dell’età moderna, attraverso un confronto privilegiato tra le Monarchie inglese e spagnola tra XVII e XVIII secolo soprattutto6. Entro questa nuova cornice di interessi, lo stesso Elliott ha avuto modo di precisare meglio il concetto di composite Monarchies. Qualsiasi termine scegliamo -egli scrive- «composite Monarchies», «multiple Kingdoms»,

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dynas ticagglomerates

7-ora possediamo un’idea più precisa del loro significato: ci riferiamo a due o più entità politiche che costruiscono insieme «form of association or merger»8. Riprendendo un trattatista del primo Seicento, Juan de Solorzano Pereira, Elliott afferma che le forme di unione possono essere di due specie: «accessory union», ossia l’incorporazione di un’entità in uno stesso organismo politico, quindi accessoria, complementare ad esso, sottostante agli stessi diritti e alle stesse leggi di quell’intero organismo; unione «aeque principaliter», ovverossia un’entità che si associa ad un organismo più ampio conservando proprie leggi ed istituzioni, anche se dipendente dallo stesso governo9.

Nella composite Monarchy spagnola esistono dunque due tipologie di unione o incorporazione: quella dei regni d’oltremare, giuridicamente incorporati nella Corona di Castiglia, e quella dei regni e province che formavano parte della Monarchia spagnola, come, ad esempio, Navarra e Napoli, tecnicamente «conquered territories»10, ma politicamente riconosciuti come dotati di proprie leggi e istituzioni.

Il riferimento di Elliott dimostra come l’interesse della trattatistica e del dibattito politico soprattutto secentesco per la natura composita delle Monarchie sia assai vivo e diffuso. L’eterogeneità tra i membri integrati in un’unità politica è già al centro della riflessione di Bodin11. Il tema dell’unità e della diversità nella Monarchia spagnola scorre nella trattatistica tra XVI e XVII secolo. Lo ricorda Pablo Fernandez Albaladejo12. Pedro Calixto Ramirez nel 1616 sostiene l’idea della Monarchia di Spagna come somma di territori progressivamente integrati e incorporati. Tre anni dopo, Juan de Salazar, parla di tre forme di unione di «bodies and souls», praticate dalla Monarchia di Spagna: quella dei corpi attraverso i matrimoni; delle economie, attraverso il lavoro e i commerci; delle anime, attraverso la fede e la religione.

Non mi pare tuttavia che l’accento posto dalla trattatistica cinque-secentesca sulla pluralità, sulla relativa autonomia, sull’eterogeneità dei membri della Monarchia spagnola ne metta in discussione il carattere unitario e l’unicità del potere sovrano. Cerco di presentare qualche esempio tratto dalla produzione giuridica del Regno di Napoli.

La produzione giuridica del Regno di Napoli è tesa da un lato ad affermare con vigore posizioni regalistiche e una progressiva acquisizione da parte del sovrano di spazio politico sul regno, ma d’altra parte è tesa a rivendicare l’autonomia della civiltà giuridica territoriale, a difenderne prerogative. Questa duplice posizione è in qualche modo rispecchiata nelle opere dei giuristi dei

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primi decenni del Seicento. Essi, in particolare, rivelano questa doppia cifra nel loro modo di intendere il ruolo del viceré nel rapporto col Regno: da un lato esaltano i poteri della sovranità e il sentimento di appartenenza ad un corpo politico particolare come l’impero spagnolo; d’altro lato cercano di limitare i poteri del viceré, inquadrandolo nel governo del territorio e nel sistema delle magistrature regnicole come «primus inter pares». Insomma l’idea che i poteri del viceré siano limitati «non solo verso l’alto ma anche nei confronti del Regno, è fortemente radicata nella coscienza politica del paese ed ha grande rilievo nei testi di diritto pubblico»13.

Nel corpo politico della comunità il viceré conserva posto e prerogative solo in quanto è parte di un’endiadi indissolubile formata dal regio ministro e dalla più importante magistratura del Regno, il Consiglio Collaterale. Sia la metafora del corpo sia l’endiadi viceré-Collaterale sono ben espresse nelle opere dei giuristi Andrea Molfesio, Giovan Francesco Capobianco, Fabio Cape-ce Galeota e Giovan Domenico Tassone.

Molfesio14cita Castillo de Bovadilla a proposito della comunità come corpo politico: la testa è il re, le orecchie sono i ministri, gli occhi i giudici, la lingua gli avvocati, il cuore i consiglieri, le mani i militari. Il sistema del governo per consigli, in cui è inserito pure il viceré, ha molto a che fare con l’ideale del «governo misto», vagheggiato dalla seconda Scolastica, in particolare da Francisco Suarez. In questa visione i poteri del viceré di Napoli sono integralmente assorbiti in quelli della Corona.

Per Capobianco15il potere del viceré non può essere assoluto. Esso è limitato dalle magistrature del Regno, perché i letrados consiglieri sono «membra principis»16e i reggenti del Collaterale fanno corpo con il viceré. E il giurista si spinge fino a sostenere che alcuni tumulti sono nati nel Regno di Napoli per l’abuso di potere dei viceré17.

Fabio Capece Galeota scrive che «collaterales consiliarii sunt pars totius corporis prorregis, unde membra a capite separari non debent [...] cum sit caput, monstrum esset sine corpore et membris eXIstere, proinde si omisso Consilio Collateralium procederet, quidquid ageret, esse nullum»18.

Sia il re che il viceré non possono essere autorità dispotiche. Ma l’assolutismo del sovrano è riconosciuto, sia pure entro i vincoli della «monarchia limitata»: egli governa con la legge. I limiti del viceré sono più sostanziali perché egli, a Napoli, governa con la legge e col Consiglio Collaterale. Deve essere subordinato al diritto comune del Regno. Ha l’obbligo di dare esecuzione alle

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sentenze del Sacro Regio Consiglio. Necessita dell’autorizzazione regia per procedere contro titolati e magistrati dei tribunali maggiori19.

Quando si tratta di difendere le regalie del sovrano nei confronti degli abusi dei sudditi, di ceti e corpi, i giuristi sono tuttavia assai meno drastici nel marcare il discrimine tra i poteri del re e quelli del viceré. Si ribadisce che la giurisdizione concessa dal re ai signori feudali è di natura ordinaria. Quella straordinaria è riservata solo al re o al viceré che lo rappresenta. Il feudo è concesso in dominio utile, mai diretto. Solo al re o al viceré spetta creare magistrati come fonte di tutta la...

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