Metodi storico-comparatistici e modelli costituzionali nello studio dell'esperienza repubblicana in Italia

AutorFrancesco Alicino
Páginas425-441

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Importati dal lessico comune, nel contesto normativo alcuni vocaboli mutano il senso, assumendone uno specificamente giuridico: è il caso di termini quali colpa, dolo, negozio, delitto e via dicendo1. Ciò non toglie che, in un tale contesto, il significato di alcune parole, e dei relativi referenti concettuali, possa rimandare a dei substrati culturali: “Stato costituzionale”, ad esempio, sottende complesse variabili filosofiche e politiche che, intrecciandosi con l’esegesi giuridica2, vanno a definire un modello ordinamentale – o archetipo teorico –, delimitandone l’ambito del giuridicamente concepibile. Tuttavia, la qualificazione effettiva di un ordinamento positivo non sempre risponde a degli schemi predefiniti, ma è in primo luogo la risultanza delle scelte di quello che la moderna teoria costituzionale suole indicare come il “potere costituente”3, sul quale è notevole l’influenza esercitata dall’élite politica del momento, a sua volta culturalmente orientata dalla varietà dei modelli costituzionali.

Questi ultimi, infatti, raggruppano una certa quantità di dati (modi di funzionamento delle istituzioni, princìpi costituzionali, istituti giuridici, norme etc.), conferendo loro una coerenza d’insieme. Gli archetipi teorici, pertanto, servono a rendere intelligibile un ordinamento, o quantomeno le sue più

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importanti caratteristiche che, se rapportate ad un dato “modello costituzionale”, possono variare dall’opposizione all’identità, passando per l’indifferenza, la verosimiglianza o la perfetta equivalenza. In alcuni casi, infatti, è la stessa struttura costituzionale di qualche ordinamento che assurge a paradigma. In materia di controllo di costituzionalità delle leggi, ad esempio, possiamo individuarne alcuni concretamente operanti in importanti realtà statali, come quella che fa capo agli Stati Uniti d’America, il cui modello di giustizia costituzionale premette un controllo di legittimità di tipo diffuso che, di conseguenza, si contrappone a quello accentrato o misto, così come invece si è affermato in diversi Paesi dell’Europa continentale. Operazione valida anche per ciò che concerne il “modello francese” della laïcité de combat, che presenta non poche divergenze rispetto al “modello canadese” della coesistenza multietnica e multiculturale, nonché alla laicità concordata o «confessionista»4 italiana, ma anche spagnola, portoghese e tedesca. Il ricorso alla cultura e ai modelli giuridici permette, quindi, di rilevare coerenze o discrepanze in un singolo ordinamento positivo quanto ad una determinata tematica, facilitando così l’opera di interpretazione di alcuni fenomeni normativi, in un dato momento storico.

Per le stesse ragioni, l’utilizzo dei modelli costituzionali agevola anche la comprensione degli elementi che, in vario modo e con una differente intensità, hanno alimentato le “vene” (storiche, politiche, giuridiche, dottrinali) “acquifere” – per utilizzare l’immagine di Thomas Mann5–, sgorgate, in modo sorprendentemente unitario, nella “sorgente” della Costituzione del 1947, il primo e il più eminente prodotto della neonata Repubblica italiana. Ed è quanto emerge dalla lettura dei saggi raccolti e coordinati, con buona cura, da Marco Fioravanti nell’Opera collettanea intitolata Culture e modelli costituzionali dell?Italia repubblicana6, che arricchisce ulteriormente la già importante Collana – diretta dal Prof. Ferdinando Cordova – dei Quaderni del Giornale di Storia Contemporanea. Questo libro, infatti, ha in primo lungo il merito di ricostruire e “illuminare” i vari filamenti teorici, la varietà delle istanze ideologiche e, non ultima, la carismatica autorevolezza di una parte della dottrina italiana, che, in un modo o nell’altro, sono confluiti nell’esperienza repubblicana, la cui trama storica trova un fondamentale punto di snodo in quel importante “laboratorio costituzionale” rappresentato dell’Assemblea costituente del 1946.

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Invero, l’Opera curata dal Fioravanti rende palese un altro importante aspetto nello studio del diritto costituzionale che, in una materia come quella ivi esaminata, è importante tenere sempre in considerazione: l’utilizzo di un modello premette una sua adeguata conoscenza, ciò che, a sua volta, passa necessariamente da una compiuta operazione definitoria; da una definizione del modello in questione che, in base alle finalità imposte alla ricerca, possa erigersi a parametro sul quale, eventualmente, formulare un giudizio. E de-finire dei modelli significa innanzitutto de-limitare, ovvero assegnare loro dei confini concettuali. Un modello indefinito è infatti un modello senza alcun limite: non

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sappiamo quando e a cosa si applica, cosa include e cosa esclude. Non può pertanto essere utilizzato per accrescere la comprensione di determinati fenomeni.

Valido per tutte le esperienze normative, un tale presupposto risulta particolarmente importante per chi cerchi di ragionare attorno alle tematiche proprie della dottrina costituzionale: dei diritti di libertà e delle forme di Stato o di governo. Ma la definizione dei modelli costituzionali non può prescindere dalle realtà a cui essi intendono rapportarsi: gli ordinamenti giuridici che concretamente hanno avuto origine e vigore in tempi diversi e fra comunità diverse. Altrimenti, l’unico risultato certo a cui si giungerà è che non troveremo mai delle realtà giuridiche di quel tipo: se, invece, di fronte ad un fenomeno normativo dichiariamo che “questo rispecchia una determinata forma di Stato o di governo”, ovvero che con codesto paradigma “si pone in netto contrasto”, il giudizio dipende dal raffronto della realtà sulla quale si sta indagando e dalla definizione, o quanto meno da una certa idea, di cosa quel archetipo teorico (modello) sia, possa o debba essere.

Insomma, occorre chiarire quali sono le principali caratteristiche di un modello costituzionale: dire che cosa esso significa. Esistono molti metodi per farlo e, in astratto, tutti si equivalgono, essendo ciascuno a suo modo “arbitrario”7. Dal punto di vista delle capacità operative, tuttavia, alcuni metodi risultano più efficaci di altri, poiché questi semplificano il discorso e, conseguentemente, la possibilità di intendersi: senza con ciò banalizzare la questione, ed anzi accrescendo il nostro potere di analisi. Si scopre in tal modo che, in molti casi, nella definizione di un modello costituzionale assume un certo rilievo il metodo storico-comparativo, che è poi il filo conduttore che lega i vari contributi contenuti nel libro qui recensito.

Quest’ultimo, infatti, nonostante l’attenzione riposta su alcuni istituti giuridici8 o sulle circostanze con cui si è sviluppata una determinata vicenda storica e istituzionale9, allarga lo sguardo ben oltre quegli istituti e quelle singole circostanze, aprendo così un visus potenzialmente fecondo nello studio dell’esperienza repubblicana: e segnatamente sui “modelli” che, più di altri, hanno influenzato la struttura costituzionale italiana10. In effetti, complessivamente intesa, quest’Opera dimostra che la comparazione giuridica è innanzitutto operazione intellettuale di rapporto fra ordinamenti, istituti e

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modelli: un’operazione che comporta la presa in considerazione dell’esistenza di differenti discipline normative appartenenti ad altrettanti sistemi, la cui valutazione può influenzare l’elaborazione dei progetti di una nuova Carta costituzionale, così come è avvenuto per la Costituzione repubblicana del 1947, o la revisione di alcuni dei suoi istituti.

In particolare, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, come è stato evidenziato, la sensibilità nei confronti della dimensione storico-politica e comparativa «dei problemi costituzionali ha un radicamento assai robusto nella storia della cultura giuridica»11. Tanto che nella prima letteratura di epoca statutaria «in quasi tutte le trattazioni non mancano profili storici e comparatistici»12i quali, però, si sono soventi scontrati con la (molto spesso) irriducibile peculiarità (politico-giuridica) del contesto statale. Sotto quest’ultimo aspetto, in uno dei saggi contenuti nel libro in commento, Andrea Buratti osserva che, dal periodo unitario fino «alla stagione costituente», in Italia «il ruolo della comparazione giuridica sembra» invero «essere rimasto quello di fornire alla classe politica definizioni sintetiche e semplificatorie in grado di circoscrivere il novero delle prospettazioni istituzionali mediante la progressiva esclusione di modelli da rifiutare, in ragione dell’irriducibile peculiarità [appunto]
... nazionale»13. Lo dimostra la delicata questione delle autonomie regionali, che «attraversa la storia dell’Italia dal risorgimento sino alle più recenti proposte di revisione costituzionale»14, diventando uno dei temi principali nella quotidiana lotta politica. Nella seconda metà dell’Ottocento, infatti, il “problema” del regionalismo alimentò una buona parte dell’opposizione «alle forze di governo e per queste vie si trasferì, con il progressivo allargamento del suffragio, dalle trattazioni degli uomini rimasti esclusi dagli equilibri di maggioranza alle rivendicazioni dei movimenti politici di stampo cattolico e meridionalista durante il giolittismo, seguendo l’onda del progressivo debordare del processo politico dalle aule parlamentari ai partiti di massa»15.

Parallelamente, sulla cultura giuridica del tempo continuava a pesare l’autorità dottrinale di alcuni studiosi. È il caso, fra gli altri, di Vittorio Emanuele Orlando16, che nell’analisi «degli istituti giuspubblicistici», rispondendo alla “domanda” di maggiore scientificità – ossia apoliticità – nello studio del diritto, sotto l’influenza della cultura giuridica tedesca17, «determinò una retrocessione

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del metodo storico-comparativo, ed un’accentuazione degli aspetti formali ed astratti»18. In questo contesto intervenne la dottrina di stampo fascista che, incentrata su una concezione pervasiva dello Stato centrale, ossia su una...

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