Il caso Italia: medicina riproduttiva e obiezione di coscienza (Italiano)

AutorAngela Balzano
CargoPhd Student in Bioethics, Law and New Technologies at the Cirsfid - Alma Mater Studiorum, Bologne
Páginas11-23

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1. Legge 194 e obiezione di coscienza: la normativa italiana tra i Trattati internazionali ed europei sui Diritti Umani

Ricostruire l’iter politico e normativo che ha portato all’approvazione della legge 194 in Italia, vuol dire riconoscere il carattere cattolico della cultura dominante. Seguendo la metodologia della Jasanoff in Fabbriche della Natura, ovvero l’analisi comparata delle culture nazionali, non possiamo non riconoscere che: la cultura politica di una nazione è rilevante nel dar forma alla politica della scienza e della tecnologia1».

Il dibattito in medicina riproduttiva è animato, in Italia, dalla dialettica tra laici e cattolici. Il tema del corpo, dei suoi diritti e delle sue libertà, ha rappresentato il terreno di una battaglia culturale, in molti casi anche politica. La capacità delle donne di procreare è stata al centro di numerose polemiche mediatiche, così come è stata oggetto di encicliche papali e relazioni ministeriali. Il contesto culturale italiano è segnato dall’ingerenza della morale cattolica. In questa situazione i corpi delle donne, con tutte le potenzialità di riprodurre o meno la vita, hanno a lungo svolto funzione di simbolo e di segno. Il percorso che ha portato al varo della legge 194 non è stato, dunque, affatto lineare. Essa si presenta come il risultato del lavoro sinergico di più soggettività, prime tra tutte le donne. Grazie alla spinta propulsiva dei movimenti femministi dagli inizi degli anni 70 prende il via una collaborazione tra collettivi di donne, intellettuali, medici professionisti, esponenti della magistratura, parlamentari e giornalisti, al fine di scardinare le norme obsolete, risalenti al Codice penale fascista, che ancora regolavano la vita quotidiana degli individui. Come argomenta Paolo Veronesi nel suo contributo, dal titolo "Lo Statuto del corpo", pubblicato nel Trattato di Biodiritto : «Sono stati i vari movimenti per il riconoscimento dei civil rights a imporre un dibattito serrato sulla liberazione del corpo. In tal senso si pensi alle pressioni esercitate dal femminismo e dalle lotte per la libertà sessuale; alla riflessione sui temi dell’aborto e dell’identità di genere[...].Da un lato esse hanno infatti scavato nell’opinione pubblica, trasformando la coscienza e gli stessi comportamenti sociali. Gli operatori giuridici sono stati così indotti a rivolgersi alla Carta nell’intento di reperire il materiale normativo utile a risolvere i nuovi problemi2». Una sentenza della Corte Costituzionale molto importante a questo proposito è la n. 27 del 18 febbraio 1975. Oggetto della sentenza è uno di quegli obsoleti articoli del codice penale criticati dai movimenti degli anni settanta: l’art. 546 del Codice Penale, che punisce chi porta a termine un’ interruzione di gravidanza anche su donna consapevole ed esposta a seri rischi di salute e integrità psichica. Secondo i giudici questo articolo contrasta con il secondo comma dell’art. 31 e con il primo comma dell’art. 32 della nostra Costituzione, che ricordiamo tutelare il primo maternità e infanzia, il secondo salute individuale e collettiva. Con una felice espressione i giudici dichiarano sin dall’incipit che l’art. 546 del Codice Penale rappresenta un ostacolo per il diritto alla salute delle donne, pertanto «la dichiarazione d'illegittimità della norma consentirebbe invece a moltissime donne di poter ricorrere

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all'opera dei sanitari, anziché a quella pericolosissima delle fattucchiere3». La sentenza evidenzia, inoltre, un’ altra contraddizione inerente all’allora in vigore normativa sull’aborto, quella relativa al conflitto tra i diritti del concepito e i diritti della donna. La Corte ammetteva che la tutela del concepito gode della protezione costituzionale, quella prevista dall’art. 31. Tuttavia, secondo i giudici, l’aborto non poteva più essere inquadrato nell’ambito dei "reati contro la stirpe" e punito in nome del "benessere demografico", come durante il regime fascista. Occorreva inserirlo in un ambito più confacente, quale quello dei reati contro la persona. Bisognava constatare che persona è la donna, e che ella gode dei più ampi diritti costituzionali, mentre il concepito è definibile persona solo in potenza. A questo proposito la Corte Costituzionale ha anticipato un dibattito ancora oggi molto accesso, quello intorno alla possibile definizione di persona del feto e dell’embrione. La soluzione prevista dalla Corte per questo dilemma della bioetica, è molto ancorata alla realtà, a favore del diritto delle donne alla libertà procreativa; così, infatti, si esprimono i giudici: «Non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi é già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare4». Questa sentenza costituisce un precedente giurisprudenziale, non prevedendo sanzioni in caso di aborto terapeutico, ed anticipa l’approvazione del testo di legge 22 maggio 1978 n. 194, intitolata "Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza". Questa legge permette di garantire due diritti fondamentali: il diritto alla salute e il diritto all’autodeterminazione. Prima del 1978, infatti, in Italia si eseguivano moltissimi aborti clandestini. La legge 194 trova una delle sue ragioni di essere proprio nella necessità di limitare il ricorso all’aborto clandestino, molto pericoloso per la salute della donna. La legge, tuttavia, presenta numerose imperfezioni che hanno dato luogo a spiacevoli conseguenze, una per tutte l’obiezione di coscienza da parte dei ginecologi. Vediamo, più da vicino, dunque, il testo stesso della 194. Il primo articolo di questa legge stabilisce che: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L'interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non e’ mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell'ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che lo aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite5». Con l’art. 4 si entra nel vivo della questione, e compare finalmente il diritto delle donne all’interruzione volontaria di gravidanza. Essa è permessa entro i primi 90 giorni e può essere richiesta per svariati motivi. Il legislatore in quest’art. specifica che essa può essere ottenuta quando è a rischio la salute fisica e psichica della donna, quando le difficoltà economiche, sociali e familiari costituiscono un impedimento alla buona riuscita della gravidanza, quando la situazione in cui è avvenuto il concepimento è critica (in caso di stupro), quando sono accertate gravi malformazioni o patologie del feto. In tutti questi casi le donne italiane hanno il diritto di rivolgersi a un consultorio pubblico e ottenere il necessario certificato. All’art. 5 si legge che i consultori, prima di rilasciare tale consenso, devono assicurarsi che

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le cause che inducono la donna ad abortire non siano irrimediabili. Nel caso in cui, invece, il medico della struttura in questione, riconosce fondatezza e urgenza, egli è tenuto a rilasciare «immediatamente alla donna un certificato»6.

L’ articolo 9 riguarda direttamente l’obiezione di coscienza. Esso prevede la possibilità per il personale sanitario di avvalersi dell’obiezione di coscienza in materia di interruzione di gravidanza. Tale obiezione non può essere invocata per le procedure mediche antecedenti o seguenti l’intervento di aborto. Pur ammettendo l’obiezione, il legislatore sottolinea che le strutture sanitarie devono «assicurare lo espletamento delle procedure previste dall'articolo 7 e l'effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8» e che in aggiunta «la regione ne controlla e garantisce l'attuazione anche attraverso la mobilità del personale7». L’obiezione di coscienza è, inoltre, oggetto di normative internazionali sui diritti umani. A questo proposito ricordiamo che il Comitato del CEDAW ha espresso la sua preoccupazione sulle difficoltà nell’accesso all’IVG causate dalle leggi che permettono l’obiezione di coscienza. Il Comitato ha chiarito che è compito del governo nazionale assicurare che vi siano alternative per garantire i diritti riproduttivi delle donne. Secondo il Comitato, il servizio pubblico nazionale dovrebbe sempre assicurare l’accesso alle procedure di IVG, anche obbligando il personale medico a non ostacolare le stesse, in nome del diritto delle donne a non essere costrette a portare a termine la gravidanza8.

Anche il Comitato per i Diritti Umani ha sollevato il problema dell’obiezione di coscienza del personale medico alle pratiche di IVG, sottolineando soprattutto la mancanza di informazioni e dati a riguardo, e sollecitando gli stati a monitornarne diffusione e conseguenze9. In ambito europeo è stata, poi, avanzata una proposta per regolamentare in maniera più omogenea la pratica dell’obiezione di coscienza nel contesto della salute riproduttiva. Il 20 luglio 2010 il Comitato Questioni Sociali Salute e Famiglia porta all’ attenzione dell’ Assemblea Parlamentare Europea un documento intitolato Women’s access to lawful medical care: the problem of unregulated use of conscientious objection, presentato da Ms Christine McCafferty.10Pur riconoscendo il diritto all’obiezione di coscienza nell’esecuzione di alcune pratiche mediche, il Comitato si dice molto preoccupato riguardo alla diffusione, in alcuni paesi europei, spropositata e non...

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