Istituzioni medievali fra campagna e città

AutorManlio Bellomo
Páginas9-20

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L'esigenza di attualizzare i problemi del passato, di per sé metodologicamente corretta, impone tuttavia il compimento di un'operazione delicata. Poiché guardiamo al passato come figli e protagonisti del nostro tempo siamo portati a utilizzare le categorie mentali che ci appartengono. A volte le utilizziamo anche inavvertitamente. Corriamo perciò il rischio di non cogliere in pieno la ´convenienzaª dei tempi passati col tempo presente, e di convertire e svilire il nostro punto di vista per la pretesa di imporre al passato schemi mentali e culturali che sono del presente e furono estranei al passato 1.

Debbo tuttavia osservare che tale problema è solitamente trascurato in alcuni ambiti della storiografia contemporanea, specialmente quando si affrontano trattazioni istituzionali. Sono frequenti, infatti, due linee differenti, distanti tra loro e tuttavia coincidenti per la loro astoricità. Da una parte autori di manuali anche recenti adottano rigide strutture narrative e lasciano intendere che nel passato vi sia stato sempre e costantemente, senza tentennamenti e senza variazioni, una impalcatura statale identica a quella attuale, sicché per ogni epoca si cercano (e si trovano!) istituzioni, organi di governo, strutture amministrative e fiscali, magistrature, eserciti bene ordinati, come se la storia fosse andata all'indietro nel tempo piuttosto che in avanti 2. Da altra parte si Page 10 inclina al dogmatismo di tradizione pandettistica, e si costruiscono manuali istituzionali che hanno perso l'uomo come soggetto della storia giuridica, e al posto dell'uomo e della società hanno posto ´istitutiª e ´dogmiª 3.

È maturata in me la convinzione che occorre semplificare, vale a dire sgombrare il terreno dalle frequenti e spesso troppo analitiche concettualizzazioni che ci portano a costruire modelli interpretativi sulla base di esperienze che il passato non ha conosciuto.

Vorrei cominciare a ricordare le condizioni della campagna nei primi secoli del medioevo, dal secolo v/vi al secolo xi/XII all'incirca: ovviamente per brevissimi accenni.

La prima immagine è lontanissima dall'esperienza del mondo contemporaneo. Penso a enormi spazi non abitati o poco abitati, a boschi estesi fino a stringere e a minacciare le mura cittadine, a campi incolti disseminati a scacchiera in mezzo alle foreste, a fiumi e laghi di acque limpide popolate da pesci in abbondanza. Vi sono motivi per sognare: per fare sognare, almeno, quanti ai nostri giorni amerebbero una natura così incontaminata.

Occorre prudenza, però, nella valutazione storiografica. Quella natura era spietata e vincente, e spesso atterriva l'uomo per catastrofi naturali o per imperversanti carestie e pestilenze. Era una natura che l'uomo di quel tempo avrebbe voluto dominare, ma non ne aveva i mezzi. Doveva affidarsi al lavoro delle proprie braccia e a pochi e inadeguati strumenti agricoli.

A fronte dell'immane compito l'uomo cercava il conforto della fede, la speranza dell'aldilà, e intanto nutriva una irrazionale fiducia nelle pratiche di magia che avrebbero dovuto aiutare a dominare le forze maligne mentre, nella realtà, suscitavano nuove angoscie e terrori.

Il poco che la natura concedeva serviva appena per l'alimentazione quotidiana, per la personale difesa contro animali feroci e contro le intemperie stagionali o le insidiose paludi e ancora meno contro le malattie dilaganti. Le piante medicinali erano largamente inefficaci quando per errore o incompetenza non erano addirittura velenose: ma non si conosceva altro, se non la superstizione e la magia per la prevenzione e per la cura.

La campagna non era il luogo eletto per lo svago del cittadino, non era il sogno del riposo e del divertimento. La caccia era una necessità, niente affatto uno sport. La campagna o il bosco incontaminato non erano rinchiusi in una Page 11 ´riserva naturaleª: erano incombenti e dilaganti, allarmavano e atterrivano, tanto che ancora nel secolo XIX saranno il luogo eletto per le favole raccontate ad ammaestramento degli innocenti o per le fantasie ad avvertimento dei viandanti.

Il tutto stava in una contestualità necessaria. In amplissimi territori mediterranei, dall'Italia meridionale alla penisola iberica almeno, l'uomo viveva in villaggi rupestri: penetrava e si immedesimava nel corpo vivo della pietra, e dall'ambiente conquistato traeva il massimo per la sua salute e per la sua soprav vivenza. Si è calcolato che la media della vita in grotta era superiore di circa cinque anni rispetto alla vita in edifici di pietra o di legno o di canne e fango (circa 42/43 anni di vita per l'uomo e poco meno per la donna).

Per tutta la seconda metà del primo millennio, dunque, vi sono vastissimi territori europei il cui paesaggio è poco segnato dal profilo di città murate, e molto più da colline puntellate di grotte stanziali scavate dall'uomo con fatica. Gli insediamenti rupestri sono diffusi dappertutto. Alcuni sono celebri, come quelli della penisola iberica, della Francia meridionale, del meridione d'Italia e della Sicilia, del bacino orientale del Mediterraneo.

Non mancavano le costruzioni in pietra o in legno, ma quasi nulla è sopravvissuto: segno, questo, di estrema fragilità. Erano diffuse soprattutto nell'area del centro Europa, dove la foresta poteva dare l'illusione, e in parte non era solo illusione, che la casa fosse in qualche modo protetta da una fitta e svettante vegetazione.

Sto presentando un quadro fin troppo elementare, ma il quadro va tenuto presente, perché esso non è indifferente alla storia del diritto. Al contrario, a me sembra che senza penetrare nel senso della vita di quel mezzo millennio saremmo condannati a esposizioni storiografiche astratte, del tutto prive di contestualizzazioni: in breve, prive della vita che storicamente fu vissuta.

La prima osservazione riguarda le istituzioni e le norme che erano intrinseche ad ogni comunità che si era istituzionalizzata o si andava istituzionalizzando.

Ai vertici abbiamo sovrani di ´regnaª, ma i ´regnaª non sono propriamente identificabili come formazioni statali e neppure paragonabili a tali formazioni. I sovrani erano uomini d'arme, analfabeti per lo più o appena alfabetizzati, circondati da uomini di masnada che solo le rappresentazioni romantiche del nostro Ottocento hanno voluto immaginare come ´cavalieriª; non avevano una sede stabile, sicché la storiografia può svagare da città a città nel fantasticare che almeno una di esse sia stata una ´capitaleª. Amavano la vita della tenda nel campo della battaglia o nel campo della trattativa piuttosto che l'abitazione murata, probabilmente umida e fredda più che il riparo in un accampamento.

Esistevano regni così fatti, ed esisteva anche il ´Sacro Romano Imperoª. Però per tanti aspetti si trattava solo di simboli, emblemi di un potere militare e politico. Questo potere incideva nella vita delle disperse comunità della campagna e delle decadute città solo in modi negativi: solo quando riusciva ad essere presente con la forza delle armi e con la congiunta spietatezza della rapina e dell'angheria, quasi che rapina e angheria fossero imposizioni tributarie, quasi che poi dovessero essere amministate da magistrature fiscali. Oppure il potere si imponeva con il fascino propagandato della sacralità di una corona. Page 12

Non è un caso che la legge carolingia sia stata ´legge oraleª e come tale abbia operato nella svariata diversità delle tradizioni scritte: ed è quanto di più lontano possiamo immaginare in base alla nostra educazione giuridica di derivazione romana e tardo-medievale. I regni e l'impero sono istituzioni, indubbiamente, ma hanno caratteri che non coincidono con l'idea che oggi abbiamo di una istituzione regia o imperiale. Come si è osservato, il progetto costituzionale di Carlo Magno fallì perché i carolingi non distinsero tra imperium e dominium 4. Non è poco. È basilare.

Le comunità locali sono più concretamente individuabili e storiograficamente comprensibili. Queste vivevano rispettando consuetudini di antica origine, di volta in volta ´romanaª o ´barbaricaª. Erano le consuetudini del buon vicinato, del rispetto parentale, del controllo sociale che serviva ad evitare o a punire maleficia diversamente rilevanti, come il furto, il danneggiamento di cose altrui, la rottura di confini, i ferimenti e le mutilazioni dolosi, l'omicidio. Erano anche le consuetudini che imponevano obblighi connessi con lo status delle persone, libere o schiave che fossero: obblighi che ancora a distanza di secoli saranno chiamati ´involontariª 5, come quelli verso i parenti, i vicini, o verso un padrone.

Le consuetudini erano orali e la loro memoria era affidata ad ´antiquiores lociª che fossero al contempo degni di fede e rispettati come tali. Si trattava pur sempre di norme che noi possiamo e dobbiamo considerare ´giuridicheª, anche se in quel tempo in poco o per nulla si distingueva tra norme morali e valutazioni teologiche, da un lato, e norme giuridiche, dall'altro lato 6. Tutte, nel fatto, erano gestite e applicate soprattutto da uomini di chiesa, che talvolta erano anche uomini di spada: e ciò perché chiunque subiva un torto o un danno, o almeno lo temeva, era indotto a cercare il giudizio del parroco, prima ancora -e forse ad esclusione- del giudizio del signore territoriale o feudale, e nei casi maggiori, nella città, ambiva al giudizio del vescovo nella forma consueta e diffusa della ´episcopalis audientiaª. Page 13

Per il resto mi riesce difficile pensare che vi siano stati giuristi professionalmente formati, capaci di essere giudici o avvocati o notai nel senso che noi diam oa queste parole. Mi riesce difficile perché mancano notizie sull'esistenza di scuole adeguate a tale tipo di...

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