L’evoluzione della legislazione linguistica nella repubblica italiana: analisi del caso friulano

AutorWilliam Cisilino
CargoResponsabile Ufficio Lingua Friulana della Provincia di Udine
Páginas173-201

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  1. La tutela delle minoranze linguistiche nell’ordinamento italiano: quadro storico

1.1. La prima attuazione dell’art 6 della Costituzione: fra «minoranze riconosciute » e « inoranze non riconosciute»

I primi* dodici articoli della Costituzione della Repubblica italiana —entrata in vigore il 1° gennaio 1948— contengono i «Principi fondamentali» su cui si fonda il nostro ordinamento giuridico. Essi, pertanto, costituiscono i criteri che devono guidare ogni azione dei pubblici poteri e, in particolare, l’attività del legislatore.

Accanto ai principi di democrazia, pluralismo, uguaglianza —e quasi come una loro diretta conseguenza— l’Assemblea Costituente decise di inserire tra tali articoli anche il principio di tutela delle minoranze linguisti-Page 174che. Secondo l’art. 6 della Costituzione, infatti, «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche».

La scelta dei Padri della Carta fondamentale si doveva principalmente alla volontà di rompere con le politiche di assimilazione linguistica e culturale che avevano caratterizzato il ventennio fascista, ma che anche in precedenza si erano manifestate con una certa evidenza.

Proprio per questo suo valore, l’art. 6 della Costituzione —oltre ad essere un’ulteriore specificazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3— doveva impegnare «l’ordinamento alla tutela delle minoranze linguistiche, non in ottemperanza ad eventuali vincoli internazionali, bensì ad un principio autonomamente rilevante sul piano interno», come può leggersi negli Atti della Costituente.

Negli anni a venire, invece, lo Stato non corrispose a tale spirito della norma, ma, al contrario, applicò l’art. 6 esclusivamente alle popolazioni alloglotte che costituivano vere e proprie «minoranze nazionali», vale a dire alle sole comunità linguistiche che potevano contare sul sostegno di Stati confinanti con i quali l’Italia aveva assunto dei precisi impegni internazionali.

Inizialmente, quindi, le uniche minoranze ad essere specificamente riconosciute furono i tedeschi del Sudtirolo, i francesi della Valle d’Aosta e —più tardi e in modo meno organico— gli sloveni delle Province di Trieste e di Gorizia. Oltre a queste, solo i ladini del Sudtirolo, grazie al loro particolare status di «minoranza nella minoranza» ricevettero un ulteriore riconoscimento (estesosi, in seguito, anche ai ladini del Trentino). Restarono, invece, prive di ogni protezione le comunità linguistiche parlanti il friulano, l’occitano, il francoprovenzale, il sardo, l’albanese, il croato, il greco e il catalano, oltre alle popolazioni germanofone presenti nel resto dell’arco alpino, ai ladini del Bellunese e agli sloveni della Provincia di Udine.

Ma, com’è stato autorevolmente rilevato dalla dottrina, «ferma restando la legittimità della opzione per una regolamentazione non uniforme, sembrava quanto meno inopportuno e in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione il permanere di una posizione che si traduceva, alla prova dei fatti, in un malcelato tentativo di repressione e assimilazione forzata degli appartenenti a quelle culture minoritarie non abbastanza forti, soprattutto perché non sostenute all’esterno da corrispondenti culture nazionali, per pretendere misure di protezione adeguate» (Piergigli, 2001).

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1.2. La competenza a legiferare riguardo alle minoranze linguistiche L’evoluzione della giurisprudenza della Corte Costituzionale

La situazione sopra descritta fu ulteriormente aggravata dal fatto che lo Stato considerava in ogni caso la tutela delle minoranze come una materia di sua esclusiva competenza, ostacolando qualsiasi iniziativa locale tesa a disciplinare questo fenomeno. In tal modo, veniva a crearsi una situazione paradossale poiché da un lato lo Stato si arrogava una specifica competenza in tema di minoranze a scapito delle Regioni, dall’altro, però, non attivava tale presunta competenza impedendo, di fatto, l’adozione di ogni misura a tutela delle realtà minoritarie più deboli.

Va ricordato, tuttavia, che una felice eccezione alla generale inerzia del legislatore statale fu l’approvazione della legge 8 agosto 1977, n. 546 (recante «Ricostruzione delle zone della regione Friuli-Venezia Giulia e della regione Veneto colpite dal terremoto nel 1976»), istitutiva dell’Università degli Studi di Udine, in cui —per la prima volta in un provvedimento normativo statale— si fece riferimento alla lingua friulana. Infatti, l’art. 26 di tale legge stabilisce che «l’Università di Udine si pone l’obiettivo di contribuire al progresso civile, sociale e alla rinascita economica del Friuli, e di divenire organico strumento di sviluppo e di rinnovamento dei filoni originali della cultura, della lingua, delle tradizioni e della storia del Friuli».

In generale, però, l’impostazione centralista dello Stato continuò per molto tempo, ricevendo anche l’avallo della Corte Costituzionale, secondo cui la tutela delle minoranze linguistiche doveva intendersi come «una materia esclusivamente riservata allo Stato» (si vedano in particolare le Sentenze n° 32 del 18 maggio 1960 e, con riferimento proprio ad un provvedimento del Consiglio della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, la n° 14, del 12 marzo 1965).

Tuttavia, a partire dalla sentenza n° 312 del 18 ottobre 1983, la Consulta mutò completamente indirizzo, sostenendo, al contrario, che il dettato dell’articolo 6 della Costituzione, sancendo che «la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche» conferma —anche per il suo inserimento entro i «Principi fondamentali»— che la tutela delle minoranze non è una «materia», ma un principio cui devono attenersi tutte le entità costituenti la Repubblica, siano esse lo Stato, le Regioni o gli altri enti locali, ogni qual volta operino nell’esercizio delle rispettive competenze.

Tale interpretazione si consolidò alla fine degli anni Ottanta e fu, in seguito, sempre ribadita dalla Corte. Tuttavia le Regioni tardarono a ritagliarsi, entro le proprie competenze, dei veri e propri spazi di intervento legislativo sulle minoranze linguistiche, limitandosi ad emanare —comePage 176avevano già incominciato a fare a partire dalla fine degli anni Settanta— semplici provvedimenti di sostegno alle attività culturali (in applicazione, quindi, dell’art. 9, anziché dell’art. 6 della Costituzione).

Intanto, il divario fra le cosiddette minoranze «riconosciute» e quelle «non riconosciute» era diventato sempre più ampio, poiché le prime avevano potuto godere, in vario modo, di provvedimenti che andavano ad incidere positivamente sui diritti linguistici dei parlanti, le altre invece o non avevano ricevuto nessun tipo di sostegno da parte delle istituzioni, oppure avevano potuto disporre solamente dei citati interventi regionali di carattere culturale che, oltre a non evitare i fenomeni di assimilazione linguistica, privilegiavano spesso gli aspetti più strettamente folcloristici delle identità minoritarie.

1.3. Il mutamento del quadro giuridico internazionale e la «riscossa» delle Regioni e degli Enti locali

Le minoranze «non riconosciute» incominciarono a recuperare terreno nel riconoscimento dei propri diritti linguistici solo a partire dalla metà degli anni Novanta, anche grazie ad un mutato quadro internazionale. Infatti, l’adozione in seno al Consiglio d’Europa di specifici trattati internazionali sulle minoranze (in particolare la Convenzione-quadro per la protezione delle minoranze nazionali, del 1995, e ancor più, la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie, del 1992), oltre all’introduzione di specifiche linee di finanziamento per le minoranze linguistiche da parte della Comunità europea, convinsero via via gli Stati a considerare l’esistenza delle lingue minoritarie come un fattore di ricchezza, anziché come una minaccia all’integrità statale.

Contestualmente le Regioni, non senza alcune difficoltà (un caso per tutti fu quello della legge regionale sulla tutela del sardo del ’93, impugnata davanti alla Consulta e dichiarata incostituzionale nel ‘94), si decisero ad emanare provvedimenti legislativi più organici sulla tutela delle proprie lingue minoritarie, in base alle rispettive competenze normative. Da questo punto di vista, la legge regionale 15/96 sulla tutela della lingua friulana costituì un vero e proprio modello, se consideriamo che fu la prima ad affrontare dettagliatamente la tutela di una lingua minoritaria «non riconosciuta» disciplinandone anche gli usi pubblici, oltre alle forme di semplice promozione culturale. Subito dopo l’approvazione di tale legge, vennero adottate le leggi regionali del Molise e della Sardegna (nel 1997) e, l’anno seguente, le leggi regionali della Basilicata e della Sicilia.

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Ma un ruolo importante, per giungere ad un «riconoscimento dal basso» delle realtà minoritarie, è stato rivestito anche dagli enti locali. Molti di essi, infatti, in conseguenza dell’introduzione dell’autonomia statutaria per comuni e province (operata con la legge 142/1990), inserirono nei propri statuti specifiche norme per sostenere le lingue minoritarie che, in certi casi, si spinsero sino al riconoscimento degli usi pubblici delle stesse (non senza censure e ricorsi da parte dei rispettivi Comitati Regionali di Controllo).

L’insieme di tali interventi (locali, regionali e internazionali) spinse, infine, anche il legislatore statale ad approvare —con un ritardo di oltre cinquant’anni rispetto al dettato dell’art. 6 della Costituzione— una legge di tutela delle minoranze linguistiche (la legge 482/99), che da un lato ha consentito all’Italia di conformarsi agli standard europei su tali tematiche, dall’altro ha posto fine ad una ingiusta suddivisione fra minoranze di serie «a» e minoranze di serie «b». E tale secondo aspetto risulta alquanto importante se si considera che le disparità di trattamento riguardavano anche cittadini appartenenti alla medesima minoranza o gruppo linguistico.

Va sottolineato, peraltro, che l’intervento del legislatore statale risultò imprescindibile per introdurre delle disposizioni a tutela delle minoranze linguistiche nelle materie di sua competenza (come le amministrazioni statali, la scuola e la radiotelevisione pubblica) sulle quali le Regioni non avevano potuto legiferare, se non in modo defilato e poco incisivo.

1.4. La riforma del Titolo V della Costituzione Nota

Prima di passare all’analisi della normativa regionale e statale in tema di minoranze linguistiche e, in particolare, di lingua friulana, va premesso che il quadro giuridico in base al quale avevano operato sia la maggior parte dei Consigli regionali, sia il Parlamento, risulta alquanto modificato in conseguenza della recente riforma del Titolo v della Costituzione (Legge costituzionale n. 3/2001), in quanto sono state attribuite alle Regioni nuove competenze, anche in materie di vitale importanza per la tutela delle lingue minoritarie (in primis la scuola).

Per quanto riguarda la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, va ricordato che, a norma dell’art. 10 di tale legge, sino all’adeguamento degli statuti di autonomia, le nuove norme si applicano anche alle Regioni a Statuto Speciale, nella misura in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle attribuite. Inoltre, va sottolineato che trattandosi di una Regione a Statuto speciale può godere, a norma dell’art. 18 della legge 482/99 di forme di intervento ulteriori in tema di minoranze linguistiche,Page 178attraverso l’emanazione di specifiche norme di attuazione dello Statuto.

Pertanto, essendo diverso il riparto di competenze su cui si erano basate sia la legge regionale 15/96 di tutela della lingua friulana, sia la legge 482/99 di tutela delle minoranze linguistiche storiche, e potendosi ulteriormente sviluppare le disposizioni di quest’ultima con specifiche norme attuative, non si mancherà di far notare, nell’analisi di tali leggi, quali sono le disposizioni ormai superate dalla nuova normativa e quali invece le possibilità di ulteriori sviluppi e implementazioni dei livelli di tutela delle minoranze.

2. Lingua friulana e normativa di rilevanza della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia
2.1. La legge regionale 15/96 Iter di approvazione ed elementi innovativi

Con il nome di «Norme per la tutela e promozione della lingua e della cultura friulane e istituzione del Servizio per le lingue regionali e minoritarie», il Consiglio della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia ha approvato, il 27 febbraio 1996, la prima legge organica di tutela della lingua friulana. Tale legge è nata dall’esame abbinato delle proposte di legge n. 85 e n. 42 presentate nel corso della vii Legislatura. Per i motivi di cui si è dato conto supra, l’iter della legge non è stato agevole, poiché il primo progetto di legge, approvato dal Consiglio Regionale il 27 settembre 1995, fu subito rinviato dal Governo con nota del 8 novembre 1995. Fra le motivazioni addotte dal Governo in tale nota si leggeva:

Le disposizioni contenute in artt. 1, 2, 6, affermando rispettivamente competenza regionale in tema di politica linguistica, riconoscimento del friulano quale una tra le lingue proprie della regione et essere politica linguistica una funzione pubblica di regione, non rientrano in alcuna materia aut previsione dello Statuto Speciale.

Le disposizioni concernenti l’uso pubblico della lingua friulana […], pur dichiarando di fare salve competenze statali, esulano da competenze attribuite dallo Statuto alla Regione essendo di stretta competenza statale, in base agli articoli 3 e 6 Cost., dettare norme che concernano l’uso della lingua e la tutela delle minoranze.

Il Consiglio Regionale fu quindi costretto ad apportare alcune modifiche (sebbene non sostanziali) al primo testo e, in seconda battuta, vennero meno —anche in seguito ad una trattativa politica con il Governo centra-Page 179le— le riserve di quest’ultimo, che diede il proprio nulla osta alla promulgazione della legge. La legge regionale 15/96 fu pertanto promulgata e pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia del 27 marzo 1996 in italiano, e nel Bollettino ufficiale della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia del 19 marzo 1997 nella versione in friulano.

La minoranza linguistica friulana ha tratto un notevole vantaggio da questo provvedimento, poiché —nelle infinite more dell’approvazione della legge statale di tutela— ha potuto disporre, per la prima volta, di un testo legislativo organico per la salvaguardia e la valorizzazione della propria lingua, che affrontasse non solo gli aspetti inerenti al sostegno delle attività culturali di enti locali e delle associazioni, ma anche forme più incisive di intervento, almeno nell’ambito delle competenze regionali.

Infatti, prima dell’approvazione della legge regionale 15/96, non erano mancate iniziative legislative tese alla promozione della lingua friulana —come il Titolo vi della legge regionale 68/1981, recante «Attività intese alla tutela e alla valorizzazione della lingua e della cultura friulana» oppure la legge regionale 6/1992 recante «Interventi regionali per la tutela e la promozione della lingua e della cultura friulana»— ma tali provvedimenti, fatta salva qualche generica affermazione di principio, si limitavano a stabilire esclusivamente forme di sostegno contributivo alle attività sulla lingua e cultura friulana promosse da soggetti pubblici o privati.

Il vero merito della legge regionale 15/96, quindi, sta nel fatto di aver introdotto nell’ordinamento regionale degli elementi fortemente innovativi rispetto al precedente quadro giuridico che, sebbene non portino a definirla come una vera e propria legge di politica linguistica, hanno senz’altro posto le prime basi per avviare una consapevole azione di normalizzazione del friulano in alcuni importanti ambiti della vita sociale.

Nel corso degli anni la legge, che originariamente constava di 33 articoli, è stata più volte emendata, in particolare, mediante l’introduzione di un articolo aggiuntivo (l’art. 11 bis) e l’abrogazione di un intero Capo a seguito della riforma del Servizio per le lingue minoritarie. Inoltre ben sette articoli (tutti quelli riguardanti l’Osservatorio per la lingua friulana) sono stati abrogati ai sensi della lr 4/2001, ma successivamente sono stati reinseriti dalla lr 12/2003, a causa delle convulse vicende legate alla riforma del principale organismo di politica linguistica regionale.

La legge è suddivisa in tre Titoli. Il primo si occupa della «Tutela del patrimonio linguistico della Regione», e si divide in due parti: una riguardante i «Principi e obiettivi fondamentali» (Capo I); l’altra la definizione di una «Grafia unitaria» (Capo II). Nel secondo Titolo, avente ad oggetto gli «Strumenti di tutela del patrimonio linguistico della Regione», sono statePage 180completamente abrogate le norme del Capo II sull’«Istituzione del Servizio per le lingue regionali e minoritarie» e, una volta completata la riforma dell’Osservatorio per la lingua e la cultura friulane, saranno abrogate anche gran parte delle norme contenute nel Capo I, dedicate principalmente a questo organismo. Il Capo III è invece dedicato allo «Studio della lingua e della cultura friulane nella scuola dell’obbligo». La legge si chiude col Titolo III, recante «Norme transitorie, finanziarie e finali».

2.2. Finalità e obiettivi generali della legge regionale

Fra le norme di principio più importanti del Titolo I, che si richiamano, fra l’altro, ai precetti della «Carta europea delle lingue regionali o minoritarie» (già firmata dal Governo italiano nel 2000 e ora al vaglio del Se- nato per la rispettiva legge di ratifica), meritano una maggior attenzione gli articoli 1 e 2.

L’articolo 2 contiene il primo vero e proprio riconoscimento esplicito e diretto del friulano come «lingua»: definisce, infatti, il friulano come «una delle lingue della comunità regionale». Appare difficile, tuttavia, stabilire se tale riconoscimento «regionale» possa da solo (vale a dire, a prescindere dal successivo riconoscimento «statale») far rientrare anche i friulani fra le «minoranze riconosciute», con tutte le conseguenze individuate dalla giurisprudenza dalla Corte Costituzionale. Forse una tale interpretazione si sarebbe potuta sostenere se la legge regionale 15/96 avesse fatto esplicito riferimento all’art. 6 della Costituzione oppure all’art. 3 dello Statuto Speciale (secondo cui «Nella Regione è riconosciuta parità di diritti e di trattamento a tutti i cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico al quale appartengono, con la salvaguardia delle rispettive caratteristiche etniche e culturali»). La legge, invece —a differenza di analoghi provvedimenti legislativi di altre Regioni anteriori alla legge 482/99— non contiene nessun richiamo del genere, fermo restando che la forma più sicura per operare tale riconoscimento sarebbe stata l’adozione di una specifica norma di attuazione dell’art. 3 dello Statuto speciale.

L’art. 2, inoltre, stabilisce che «la Regione autonoma Friuli-Venezia

Giulia considera la tutela della lingua e della cultura friulane una questione centrale per lo sviluppo dell’autonomia speciale». Tale norma non va considerata come una mera dichiarazione di principio, considerato che, molto probabilmente, in sede di riscrittura dello Statuto di Autonomia, tale giustificazione della specialità assumerà un notevole valore nella nuova Carta fondamentale della Regione.

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Altrettanto importante risulta l’articolo 1, che impegna la Regione:

ad esercitare una politica attiva di conservazione e sviluppo della lingua friulana quali componenti essenziali dell’identità etnica e storica della comunità regionale

.

Le istituzioni della Regione, pertanto, non devono limitarsi solo a «conservare» il patrimonio linguistico friulano, ma devono intervenire «positivamente» a favore della comunità linguistica friulanofona attivandosi — nel rispetto delle competenze attribuite allo Stato — per rimuovere gli ostacoli che ne impediscono un pieno sviluppo. A tale enunciato fa eco anche l’articolo 10 della legge che fissa gli «Obiettivi generali dell’azione regionale», secondo cui:

Costituiscono obiettivi generali dell’azione regionale: a) La conservazione e la valorizzazione della lingua friulana mediante iniziative ordinarie e straordinarie;

b) lo sviluppo della lingua friulana come codice linguistico adatto a tutte le situazioni della vita moderna e, in particolare, utilizzabile attraverso i mezzi di comunicazione sociale

.

È evidente, infatti, che un’efficace politica linguistica, per affrancare la lingua minoritaria da uno status subordinato, deve unire alle politiche più strettamente statiche e conservative forme più dinamiche di intervento, mediante politiche linguistiche tese ad introdurre la lingua minoritaria nei principali ambiti di socializzazione dell’identità e in particolare in quelli su cui la Regione, grazie alle sue competenze, può intervenire direttamente.

2.3. La delimitazione dell’ambito di operatività della legge regionale e le disposizioni di politica culturale

Particolarmente importante è anche l’art. 5, che —sulla base del principio di territorialità— stabilisce le modalità di delimitazione dell’ambito in cui avrà operatività la legge. Fra le tante possibili soluzioni del problema, il legislatore scelse di delegare tale compito alla Giunta regionale, «anche sulla base delle attestazioni fornite dalle Amministrazioni comunali», e con il solo vincolo di comprendervi esclusivamente le zone in cui la lingua friulana «è tradizionalmente e significativamente parlata». In attuazione di tale norma, fu emanato dal Presidente della Giunta Regionale un primo Decreto di delimitazione (dpgr n° 0412/Pres. del 13.11.1996), che fu successiva-Page 182mente integrato per comprendervi alcuni comuni che erano stati ignorati dalla prima delimitazione (dpgr n° 0160/Pres. del 20.05.1999).

Va sottolineato, peraltro, che l’art. 1, comma 5, del Regolamento attuativo della legge 482/99 ha fatto salve le delimitazioni operate anteriormente mediante legge regionale, rendendo possibile, in tal modo, la coincidenza in linea di massima fra i comuni cui si applicano le due leggi. In base ai citati Decreti (confermati anche dalla Delibera della Giunta Regionale 2680/2001), su un totale di 219 comuni presenti nella Regione, sono stati inseriti nell’ambito di tutela della lingua friulana 175 comuni. A questi tuttavia (e limitatamente ai fini della legge 482/99) vanno aggiunti altri tre comuni (Malborghetto-Valbruna in provincia di Udine, e Sagrado e Monfalcone in provincia di Gorizia), individuati dalle Province competenti secondo le modalità previste dall’art. 3 della legge 482/99 (si tratta, per la Provincia di Gorizia, delle Delibere consiliari 6/2003 e 28/2003 e per la Provincia di Udine della Delibera consiliare 86/2003). La lingua friulana, pertanto è parlata sull’81,3 % del territorio regionale.

Come si è già accennato supra, la legge regionale 15/96 contiene molte disposizioni di politica culturale volte a dare sostegno alle attività di promozione della lingua e della cultura friulana svolte da altri soggetti e, in tal senso, ha avuto il merito di riunire in una sola legge la disciplina di questi interventi (sebbene alcune leggi successive abbiano contribuito a rendere nuovamente meno chiaro il quadro normativo).

Gli interventi di sostegno sono stati suddivisi essenzialmente in due categorie. In primo luogo, la Regione ha individuato alcuni enti che, per la loro storia e struttura, costituiscono per l’Amministrazione regionale un punto di riferimento nelle attività di promozione della lingua friulana. Essi sono sia istituzioni pubbliche, come l’Università degli Studi di Udine (art.7) e la Biblioteca civica «Vincenzo Joppi» (art. 9), sia associazioni, come la Società Filologica Friulana (art. 8). Proprio per il fatto di svolgere una speciale funzione di servizio scientifico e culturale, tali enti possono contare su specifiche sovvenzioni garantite annualmente mediante la legge finanziaria regionale oppure su speciali finanziamenti basati su apposite convenzioni.

Altre iniziative per la valorizzazione della lingua e della cultura friulana possono essere promosse da associazioni senza scopo di lucro, enti locali o scuole ai sensi degli articoli 18 e 19 della legge regionale 15/1996 e con le modalità previste dalla legge regionale 68/1981. La gestione di tali contributi è stata affidata alle Province alle quali, ogni anno, va presentata una specifica domanda di contributo che può riguardare il settore degli studi e delle ricerche; il settore della stampa, dell’editoria, delle produzioni audio-Page 183visive e dei mezzi di comunicazione sociale; il settore della scuola; il settore dello spettacolo; il settore della toponomastica.

2.4. I limiti della legge e le vicende dell’Osservatorio per la lingua e la cultura friulane

Pur essendo importanti le forme di sostegno alle attività di promozione delle lingue e delle culture minoritarie, il principale limite della legge regionale 15/96 è stato però quello di puntare principalmente, in sede di riparto delle risorse finanziarie, su tali interventi, anziché su specifiche azioni di politica linguistica esercitate direttamente dall’Osservatorio per la lingua e la cultura friulane (olf). Il risultato è stato una perdita di ruolo, oltre che una lunga crisi di quest’ultimo soggetto, cui peraltro il legislatore non è stato in grado di porre rimedio in tempi adeguati.

L’idea di creare un Osservatorio per la lingua friulana, quale cabina di regia di una vera e propria politica linguistica regionale a favore del friulano, è stata una delle idee più innovative, e pertanto apprezzabili, della legge regionale 15/96. Secondo tale logica, il legislatore aveva affidato all’olf numerosi compiti: dalle analisi sociolinguistiche alle campagne promozionali, dagli studi avanzati alla formazione degli insegnanti, dalla promozione del friulano nei mezzi di comunicazione alle traduzioni, ecc… (art. 16). Altrettanto numerose le modalità operative per perseguire tali obiettivi: l’attività diretta, le convenzioni, le borse di studio, i contratti di collaborazione, le sovvenzioni e i contributi (art. 17).

Per quale motivo, allora, tale meccanismo non ha funzionato e, da vari anni, il legislatore sta tentando (senza successo) di riformare l’olf? Probabilmente non si è trattato solamente di un problema di risorse, né tanto meno di funzioni, bensì di strutturazione. L’olf, infatti, ha scontato il fatto di essere stato strutturato come un organismo ibrido, a metà fra un ente autonomo incastonato nell’Amministrazione regionale e una semplice Commissione Consultiva. Tale contraddizione è facilmente riscontrabile anche ad una prima lettura della legge: se da un lato l’olf è definito come lo «strumento della Regione» per il perseguimento della tutela del patrimonio linguistico friulano (art. 15), dall’altro è pensato come un «Comitato scientifico» (art. 21) privo di strutture e risorse adeguate e più adatto a esprimere pareri che ad operare direttamente per il perseguimento della politica linguistica.

Tale soluzione, già di per sé poco felice, è stata ulteriormente aggravata dal fatto che accanto all’olf è stato creato un Servizio per le lingue re-Page 184gionali e minoritarie dotato di funzioni non facilmente integrabili con quelle dell’Osservatorio e, per certi versi, confliggenti. Una efficiente riforma dell’olf, pertanto, dovrebbe tenere conto dell’esperienza sopra descritta, optando definitivamente per la creazione di un organismo autonomo, dotato di risorse e soprattutto di una struttura professionalmente preparata per intervenire nei vari ambiti di socializzazione della lingua friulana.

2.5. Individuazione della grafia ufficiale della lingua friulana e norme sull’uso del friulano negli enti locali, negli uffici regionali e nella toponomastica

Un’ulteriore innovazione introdotta dalla legge 15/96 è stata la definizione delle modalità di scelta della grafia ufficiale della lingua friulana sulla base delle quali, dopo alterne vicende, è stata adottata (con Decreto del Presidente della Giunta Regionale) la «Grafia friulana normalizzata» di Xavier Lamuela approvata dal Consiglio provinciale di Udine il 15 luglio 1986. Con un apposito emendamento approvato nel 1998, tale grafia (con alcune lievi modifiche) è stata introdotta anche nel testo della legge regionale 15/96 (art. 13). Importante sottolineare che, a norma dell’art. 14, la Regione, gli Enti locali e i rispettivi Enti strumentali non possono sostenere finanziariamente, neppure indirettamente, corsi e scuole in cui si insegni una grafia diversa da quella ufficiale e la pubblicazione di materiale didattico o suscettibile di uso scolastico che usi una grafia diversa. Nella stessa grafia devono, inoltre, essere redatti tutti i documenti, le pubblicazioni, la cartellonistica e la segnaletica stradale dei suddetti enti.

Uno dei pochi ambiti di competenza regionale non legati ad aspetti culturali in cui il legislatore è intervenuto per introdurre specifiche norme sull’uso del friulano, è stato l’ordinamento degli enti locali e degli uffici ed enti regionali (art. 11). Tale disciplina ha trovato fondamento nelle competenze esclusive attribuite alla Regione in tali materie dall’art. 4 dello Statuto di Autonomia ed è stata ulteriormente implementata nel 1998 (con l’art. 11 bis) in seguito all’approvazione delle norme di attuazione dello Statuto introdotte dal D. Lgs. 9/97, il cui art. 13 (Tutela delle minoranze linguistiche e valorizzazione delle lingue locali), ha previsto una generica competenza degli enti locali a «tutelare le minoranze linguistiche e le lingue locali» mediante i rispettivi statuti.

Originariamente, l’art. 11 stabilì che: «Fermo restando il carattere ufficiale della lingua italiana, l’amministrazione regionale, gli enti locali e i loro rispettivi enti strumentali operanti nei comuni in cui la lingua friulana siaPage 185storicamente radicata possono usare il friulano, nei limiti consentiti dalle leggi statali e dai rispettivi statuti». In particolare, veniva specificata la possibilità di usarlo nei Consigli comunali. Un primo effetto pratico della norma fu quello di porre fine a ogni dubbio di legittimità circa le disposizioni sull’uso della lingua friulana inserite in numerosi statuti degli enti locali a partire dai primi anni Novanta sulla base della legge 142/1990 (sull’ordinamento delle autonomie locali).

In seguito, l’art. 11 bis (inserito mediante la lr 13/1998) stabilì espressamente una più precisa competenza «a dettare norme per la tutela e lo sviluppo della lingua friulana» degli statuti degli enti locali, specificando che tali norme potevano riguardare «in particolare: a) l’uso scritto ed orale della lingua friulana nei rispettivi consigli; b) l’uso, accanto ai toponimi ufficiali, dei corrispondenti termini in lingua friulana in tutte le situazioni in cui sia ritenuto opportuno; c) l’uso della lingua friulana in altre situazioni, ivi compresi i rapporti dell’amministrazione con i cittadini».

Tuttavia, per quanto riguarda la toponomastica in lingua friulana della segnaletica stradale, va sottolineato che l’art. 14, 3° comma, stabilisce che in territorio friulanofono «oltre alle indicazioni ufficiali, vengono usati cartelli indicatori con il corrispondente termine friulano nella grafia ufficiale». Vista la competenza concorrente della nostra Regione in materia di toponomastica e considerato il tono precettivo della norma, potrebbe dedursi che gli enti locali sarebbero tenuti ad apporre la segnaletica (anche stradale) bilingue, a prescindere da una espressa previsione dei rispettivi Statuti. A tale proposito il secondo comma stabilisce che le relative spese possono essere rimborsate dalla Regione ai sensi della legge regionale 20/1973.

Infine, la legge regionale 13/2000 ha stabilito che la segnaletica bilingue prevista dall’articolo 14 della legge regionale 15/1996 «deve essere conforme a quanto disposto dalla legge 5 luglio 1995, n. 308, nonché dalle norme del Codice della strada e del relativo Regolamento di esecuzione e attuazione approvato con dpr 16 dicembre 1992, n. 495, in particolare mediante aggiunta del nome delle località in lingua minoritaria direttamente sotto il nome in italiano, con medesimi caratteri e dimensioni, entro lo stesso pannello e secondo le caratteristiche contenute nell’articolo 78 del dpr 495/1992». I nomi delle località in lingua friulana devono essere scritti nella grafia ufficiale e sono soggetti a parere preventivo dell’olf.

Per quanto riguarda gli uffici, i servizi e gli Enti strumentali dell’Amministrazione regionale, il 2° comma dell’art. 11 (così come modificato dalla lr 13/1998) ha rimandato ad apposito regolamento «da emanarsi entro il 31 dicembre 1998» la disciplina delle modalità d’uso della lingua friulana. Sinora, però, tale Regolamento non è stato mai emanato, impedendo diPage 186fatto l’introduzione della lingua friulana nelle normali attività degli uffici regionali.

Rimandando al paragrafo dedicato alle legge 482/99 la trattazione del rapporto fra le disposizioni degli artt. 11 e 11 bis e la legislazione statale, va comunque sottolineato che tale normativa riveste particolare importanza anche nel quadro nazionale, poiché è stata la prima del suo genere nell’ambito delle minoranze «non riconosciute».

2.6. Sostegno alle attività scolastiche e alle trasmissioni radiotelevisive Altra normativa regionale di rilievo

Se per quanto riguarda enti locali e regionali il legislatore ha adottato una disciplina sufficientemente avanzata, lo stesso non può dirsi per ciò che riguarda l’insegnamento nelle scuole. Nel 1996, infatti, il legislatore regionale non disponeva (come ora) di una competenza concorrente riguardo all’istruzione, ma solo di una più limitata competenza integrativa e di attuazione sulla base dell’art. 6 dello Statuto Speciale. Come aveva dimostrato l’esperienza sarda del 1993, però, le competenze integrative non potevano spingersi sino ad introdurre il friulano come materia o come lingua veicolare nelle attività scolastiche, pertanto ci si limitò a ribadire forme di sostegno finanziario alle attività scolastiche, simili a quelle già introdotte negli anni precedenti, con l’unica eccezione degli istituti di formazione sui quali la Regione poteva contare su una competenza concorrente.

Pertanto, limitatamente ai soli istituti di formazione professionale dipendenti dalla regione, si stabilì (art. 12) che il Presidente della Giunta potesse disporre l’introduzione in via sperimentale dello studio della lingua friulana (ma tale facoltà non fu mai esercitata). Per quanto riguarda, invece, le scuole materne e le scuole dell’obbligo, furono previsti (art. 27) specifici finanziamenti per «corsi integrativi di lingua e cultura friulana» cui potessero accedere direttamente le scuole.

Infine, nel settore radiotelevisivo pubblico —disciplinato nel suo complesso mediante una specifica convenzione tra il Ministero delle Comunicazioni e la rai— la Regione si è limitata a stabilire una generica possibilità di stipulare ulteriori convenzioni con la rai per la realizzazione di programmi televisivi in lingua friulana. Specifiche convenzioni, inoltre, possono essere stipulate anche con le emittenti private. Va sottolineato, peraltro, che ulteriori forme di intervento in tale materia potranno essere esercitate dalla Regione nell’ambito della nuova competenza concorrente assunta, in seguito alla riforma del Titolo v, in tema di ordinamento della comunicazione.

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Per concludere, si segnalano altre due norme di carattere regionale che non si trovano nella legge 15/1996, ma che, per il loro contenuto, sono molto importanti. Si tratta dell’art. 123 del Regolamento interno del Consiglio regionale, che stabilisce che «nelle sedute del Consiglio regionale è consentito ai consiglieri di esprimersi, sia oralmente che per iscritto, oltre che nella lingua italiana, in una delle lingue dei gruppi linguistici della Regione. Gli atti e la verbalizzazione fanno riferimento esclusivamente alle espressioni in italiano». L’altra norma si trova nell’art. 42 della legge regionale del 9 settembre 1997, n° 31, in cui la Regione si impegna ad adottare «i mezzi adeguati a rendere effettiva, anche con riferimento ai diritti da esercitarsi nei rapporti con gli uffici del Consiglio e dell’Amministrazione regionale, la parità di trattamento dei cittadini appartenenti a gruppi linguistici minoritari della Regione».

3. La legge 482/99 sulla tutela delle minoranze linguistiche storiche Riflessi sullo status giuridico del friulano
3.1. Storia della legge 482/99 e individuazione delle minoranze linguistiche

La legge 482/99, recante «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche» è stata promulgata il 15 dicembre 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 297, del 20 dicembre 1999.

Come espressamente stabilito dall’art. 2, tale legge è stata emanata «in attuazione dell’art. 6 della Costituzione» al fine di tutelare la lingua e la cultura «delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il francoprovenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo». Con oltre cinquant’anni di ritardo, pertanto, lo Stato italiano ha dato attuazione ad uno dei principi fondamentali del suo ordinamento, portando a termine un provvedimento legislativo sul quale il Parlamento stava discutendo da oltre vent’anni.

Le prime proposte di legge riguardanti le minoranze linguistiche «non riconosciute», infatti, incominciarono ad essere presentate da più forze politiche fra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, dando avvio a numerosi dibattiti svoltisi soprattutto nell’ambito della I Commissione Affari Costituzionali della Camera. Sin dall’inizio la I Commissione avviò un esame abbinato delle varie proposte —riguardanti anche provvedimenti di carattere generale, ma per lo più specifici gruppi linguistici (fra-Page 188cui anche i friulani)— nella prospettiva di pervenire all’elaborazione di un unico atto normativo riguardante la tutela di tutte le minoranze linguistiche presenti in Italia.

Più volte, tuttavia, lo scioglimento anticipato delle Legislature impedì la conclusione dei lavori avviati —che peraltro trovavano un forte ostruzionismo da parte delle componenti più nazionaliste presenti trasversalmente in Parlamento— e quando nel 1991 (x Legislatura) la Camera dei Deputati approvò un testo unificato, la legge si arenò al Senato a causa della contrarietà del suo presidente, Giovanni Spadolini.

Nel corso della XI e XII Legislatura il testo unificato fu nuovamente discusso e rielaborato nella I Commissione della Camera, senza mai giungere però in Aula. Ma, muovendo proprio dal provvedimento sul quale aveva già espresso il proprio parere positivo la I Commissione nella XII Legislatura, la Camera approvò il 17 giugno 1998 il testo recante «Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche», che, senza modifiche, ricevette il placet definitivo del Senato il 25 novembre 1999 diventando legge dello Stato.

In base all’art. 17 della legge 482/99, successivamente è stato emanato dal Governo —con dpr 2 maggio 2001, n. 345, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del 13 settembre 2001, n. 213— uno specifico Regolamento di attuazione, di cui si dirà meglio nel prosieguo.

Come palesa lo stesso titolo della legge, essa si riferisce solamente alle minoranze linguistiche «storiche», vale a dire solamente alle dodici minoranze —elencate nell’art. 2— che sono storicamente e stabilmente stanziate in un determinato territorio, con esclusione, pertanto delle cosiddette «nuove minoranze» formate dalle comunità di recente immigrazione. Queste ultime, infatti, presentano problematiche del tutto diverse rispetto alle prime e, pertanto, il Legislatore —in linea con la normativa degli altri Stati membri dell’Unione europea— ha scelto di tenere separata la disciplina dei due fenomeni.

La legge 482/99, inoltre, al fine di evitare possibili discussioni sulla definizione dei soggetti cui applicare la nuova normativa, ha scelto di elencare nominativamente le minoranze linguistiche storiche cui applicare la legge, tenendo conto di fattori linguistici, storici, geografici oltre che della coscientizzazione dei diversi gruppi minoritari. Tale elenco, in realtà, è del tutto identico a quello stilato dagli insigni linguisti Giovan Battista Pellegrini e Tullio De Mauro in un apposito studio commissionato nel 1978 dalla Camera dei Deputati.

Peraltro, per quanto riguarda la qualificazione del friulano come lingua, oltre alle evidenti caratteristiche oggettive, va rimarcato che a partirePage 189dagli anni Settanta in numerosi documenti statali —normativi e non— possono trovarsi riferimenti alla «lingua friulana». È il caso, ad esempio, del citato art. 26 della legge 546/77 istitutiva dell’Università di Udine, che individua fra gli obiettivi dell’Ateneo «lo sviluppo e il rinnovamento dei filoni originali della lingua del Friuli».

Altri riferimenti alla lingua friulana in testi statali di carattere normativo si trovano nei provvedimenti (dei primi anni Ottanta) istitutivi dei corsi di laurea in lingua e letteratura friulana. Fra i documenti di natura non normativa, invece, possono citarsi —fra i tanti— la Pronuncia del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione del 15 giugno 1993 sulle minoranze linguistiche e i rapporti emanati fra il 1994 e il 1996 dall’Ufficio centrale per i problemi delle zone di confine e delle minoranze etniche del Ministero degli Interni (1994: «Primo rapporto sullo stato delle minoranze in Italia»; «Primo rapporto sull’Europa della minoranze»; 1995: «Primo rapporto sugli aspetti culturali delle minoranze di antico insediamento in Italia»; 1996: «Europa: cultura e tutela delle minoranze»).

3.2. L’applicazione della legge nelle Regioni a Statuto Speciale

In questo studio saranno analizzati soprattutto i riflessi che la nuova normativa statale ha avuto sullo status giuridico del friulano, pertanto dovrà essere affrontato preliminarmente il problema dell’interazione fra normativa statale e regionale. L’art. 18 della legge 482/99 ha disciplinato specificamente questo tema, stabilendo che: «1. Nelle Regioni a Statuto Speciale l’applicazione delle disposizioni più favorevoli previste dalla presente legge è disciplinata con norme di attuazione dei rispettivi statuti. Restano ferme le norme di tutela esistenti nelle medesime Regioni a Statuto Speciale. 2. Fino all’entrata in vigore delle norme di attuazione di cui al comma 1, nelle Regioni a Statuto Speciale il cui ordinamento non preveda norme di tutela si applicano le disposizioni di cui alla presente legge».

Pertanto, qualora in determinate materie la nostra Regione non abbia previsto precise norme di tutela (come nel caso, ad esempio, delle amministrazioni pubbliche statali, o del settore dell’istruzione) si applicheranno le disposizioni previste dalla legge 482/99 e dal rispettivo Regolamento di attuazione, ma solo fino all’emanazione di specifiche norme di attuazione dello Statuto Speciale.

Se invece esistono già delle norme regionali di tutela in determinati ambiti, queste continueranno ad applicarsi sia, ovviamente, se non esistono norme statali in quel determinato settore, sia nel caso in cui le norme re-Page 190gionali siano più favorevoli della normativa statale. In questo caso, non sarà operativo nemmeno il Regolamento di attuazione.

Infine, qualora la normativa statale sia più favorevole rispetto alle norme regionali, la sua applicazione dovrà essere disciplinata con norme di attuazione dello Statuto Speciale. Resta dubbio però se —fino all’emanazione delle norme di attuazione— la normativa statale non abbia alcuna operatività, tanto più qualora non riguardi ambiti di competenza esclusiva della Regione. In ogni caso, va tenuto conto che le norme statali più favorevoli, anche quando riguardano una materia di esclusiva competenza della Regione, dettano dei principi per la tutela dei livelli minimi nella difesa delle minoranze linguistiche a cui la legislazione regionale, nelle more dell’emanazione delle norme di attuazione dello Statuto, deve comunque conformarsi. Ed è legittimo pensare che tale «adattamento» delle norme regionali possa effettuarsi anche in via interpretativa. Tali problemi si pongono in particolare riguardo alle norme emanate dalla Regione in tema di ordinamento degli enti locali e degli uffici regionali, di cui si tratterà meglio infra.

Va comunque ricordato che, grazie alla legge 482/99, i friulani possono, ora, essere considerati a tutti gli effetti come una «minoranza linguistica riconosciuta», superando i dubbi di cui si parlava riguardo al riconoscimento operato esclusivamente dal legislatore regionale e rendendo, pertanto, applicabili sia le specifiche conseguenze giuridiche stabilite dall’ordinamento (soprattutto quelle sull’uso della lingua nel processo), sia quelle che la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha legato sic et simpliciter a questo status.

3.3. Definizione degli ambiti di tutela

Il primo problema che ha dovuto affrontare la legge 482/99, dopo l’individuazione nominativa delle dodici minoranze linguistiche, è stato quello della definizione degli ambiti territoriali di tutela. L’art. 3 della legge ha delegato ai consigli provinciali il compito di adottare tali delimitazioni, «su richiesta di almeno il 15 % dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei comuni stessi, ovvero di un terzo dei consiglieri comunali dei medesimi comuni». Qualora non sia possibile effettuare la richiesta secondo queste modalità, il procedimento può essere iniziato se si pronuncia favorevolmente la popolazione residente attraverso apposito referendum.

Tali richieste, tuttavia, costituiscono una condizione necessaria ma non sufficiente all’inclusione nell’ambito di tutela poiché, secondo l’art. 1 del Regolamento attuativo —che disciplina nel dettaglio modi e tempi del pro-Page 191cedimento—, la minoranza deve essere «storicamente radicata» nel comune e la lingua da tutelarsi deve essere «il modo di esprimersi dei componenti della minoranza linguistica».

Sebbene le Province di Gorizia e Udine —nelle more dell’emanazione del Regolamento attuativo— avessero già provveduto ad effettuare le delimitazioni territoriali in base all’art. 3 della legge 482/99 (rispettivamente con le Delibere consiliari 3/2001 e 91/2000), si è già detto che il Regolamento di attuazione ha previsto una specifica norma (art. 1, 5° c.) che fa salve le delimitazioni già operate con legge regionale (e quindi anche quelle riguardanti la lingua friulana operate in base all’art. 5 della lr 15/1996).

In questo caso, quindi, l’interazione fra norme statali e regionali è stata già risolta espressamente dal Regolamento di attuazione, fermo restando che ai comuni delimitati in base alla lr 15/96, vanno aggiunti anche quelli delimitati nel 2003 dalle citate Province in base all’art. 3 della legge 482/99, di cui si è già detto supra.

3.4. L’insegnamento nelle scuole

L’insegnamento della lingua friulana nelle scuole materne, elementari e nelle scuole secondarie di primo grado è disciplinato dall’art. 4. Si tratta, come si è già visto, di una materia su cui il legislatore regionale disponeva —nel momento in cui era stata approvata la legge regionale 15/96— solamente di limitatissime competenze integrative, le quali successivamente all’emanazione della legge 482/99, sono state estese di molto in conseguenza di due importanti provvedimenti: la Riforma del Titolo v della Costituzione e il Decreto Legislativo 12 settembre 2002, n. 223.

La riforma del Titolo v, infatti, ha attribuito alle Regioni una competenza concorrente in tema di istruzione e le prime norme attuative dello Statuto emanate con il citato Decreto ai sensi dell’art. 18 della legge 482/99 hanno attribuito alla nostra Regione una specifica competenza a legiferare riguardo al coordinamento dei compiti attribuiti alle istituzioni scolastiche autonome in attuazione della disciplina prevista dall’articolo 4 della legge. Tali competenze, però, finora non sono state mai esercitate dalla nostra Regione. Pertanto, sebbene l’art. 4 sia stato pensato e strutturato sulla base di presupposti giuridici ormai superati, ciononostante risulta importante analizzarne i contenuti dal momento che, ai sensi dell’art. 18, 2° c., della legge, tale disciplina risulta provvisoriamente applicabile anche alla lingua friulana fin tanto che la Regione non si decida ad esercitare le proprie competenze in materia.

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Il legislatore statale ha strutturato l’inserimento del friulano nelle scuole site in territorio friulanofono su due livelli. Il primo livello, contenuto nel primo comma dell’articolo 4, riguarda l’uso del friulano come lingua veicolare e prescrive che nelle scuole materne il friulano sia usato «per lo svolgimento delle attività educative», e nelle scuole elementari e medie inferiori «come strumento di insegnamento».

L’altro piano, stabilito dal secondo comma dell’art. 4, riguarda l’insegnamento del friulano come materia curricolare: in questo caso la norma prescrive che le singole scuole, nell’esercizio della propria autonomia (ai sensi della legge 59/1997), sono tenute a stabilire i modi, i tempi, i criteri di valutazione, le forme di impiego degli insegnanti e i metodi per garantire l’insegnamento della lingua friulana, anche sulla base delle richieste che i genitori fanno al momento della preiscrizione.

Riguardo a tale norma —la cui applicazione ha dato adito, soprattutto in Friuli, a interpretazioni del tutto fuorvianti— vanno stabiliti i seguenti punti fermi: 1) anzitutto va notato che entrambe le disposizioni citate non prevedono, in capo alle scuole, delle mere «facoltà» di inserire attività a favore delle lingue di minoranza, ma dei veri e propri obblighi. Il legislatore, infatti, usa sempre il tempo presente, con una chiara accezione precettiva: «è previsto l’uso della lingua di minoranza» (c. 1); «le scuole…, al fine di assicurare l’apprendimento della lingua di minoranza, deliberano… le modalità di svolgimento dell’attività di insegnamento della lingua…» (c. 2). Pertanto tutte le scuole site in ambito friulanofono devono attivarsi per «assicurare l’apprendimento della lingua friulana»; 2) le richieste presentate dai genitori al momento della preiscrizione non hanno assolutamente carattere vincolante, infatti la norma prescrive che le scuole deliberino «anche sulla base delle richieste». Le richieste dei genitori, pertanto, non potranno far venir meno l’obbligo per le singole scuole di garantire l’apprendimento del friulano, ma serviranno ad esse esclusivamente per orientarsi nella definizione delle modalità di svolgimento di tale insegnamento. Detto in altre parole, le richieste dei genitori non potranno mai influire sul «se» dell’insegnamento del friulano, ma solamente sul «come», fermo restando che le scuole sono le uniche responsabili delle modalità didattiche da adottarsi. A conferma di ciò va aggiunto che, per l’uso del friulano come lingua veicolare, non è prevista alcuna richiesta da parte dei genitori.

L’art. 5, 1° c., della legge 482/99 (così come specificato dall’art. 2 del Regolamento attuativo) aggiunge che, all’inizio di ogni anno scolastico, il Ministero della Pubblica Istruzione, con propri decreti, deve «indicare i criteri generali per l’attuazione delle misure contenute nell’art. 4». Tutta-Page 193via, tali decreti non sono mai stati emanati e, finora, il Ministero si è limitato a sostenere annualmente le attività didattiche svolte nelle scuole con appositi contributi cui, peraltro, a norma dello stesso art. 4, dovrebbero aggiungersene di ulteriori in sede di riparto delle risorse ordinarie destinate alle scuole, previste dalla legge 59/1997 per le proprie attività prioritarie (fra cui rientra l’insegnamento delle lingue minoritarie).

Mentre sulle scuole materne e quelle dell’obbligo la legge 482/99 è molto puntuale, non si trova invece alcun cenno all’introduzione delle lingue minoritarie nella scuola primaria di secondo grado e, riguardo all’Università, la legge si limita a stabilire che le Università delle regioni interessate sono tenute ad assumere «ogni iniziativa, ivi compresa l’istituzione di corsi di lingua e cultura delle lingue di cui all’art. 2, finalizzata ad agevolare la ricerca scientifica e le attività culturali e formative» a sostegno delle finalità della legge. Tali iniziative, però, devono essere realizzate nell’ambito degli ordinari stanziamenti di bilancio degli Atenei.

3.5. Le trasmissioni nella radiotelevisione pubblica

Un’altra norma molto importante introdotta dalla legge 482/99 è quella che riguarda l’introduzione delle lingue minoritarie nei mezzi radiotelevisivi pubblici (art. 12). Utilizzando anche qui una formulazione di carattere precettivo («sono assicurate condizioni per la tutela…»), il legislatore ha disposto che nella convenzione tra il Ministero delle comunicazioni e la Società concessionaria della televisione pubblica (e nel conseguente contratto di servizio) si debbano prevedere azioni concrete per la tutela delle minoranze. In più, l’art. 11, 2° c., del Regolamento attuativo ha specificato che nella convenzione si deve indicare la sede Rai dove si dovranno svolgere le attività di tutela e il contenuto minimo della stessa, secondo una delle misure previste dall’art. 11, c. 1, lettera a) della Carta europea delle lingue regionali o minoritarie. Tale richiamo, nonostante faccia riferimento ad un trattato non ancora ratificato, è stato ritenuto legittimo dal Consiglio di Stato (nello specifico parere n. 4/01 emesso dalla Sezione Consultiva per gli Atti Normativi del 15.1.2001) e, pertanto, l’articolo 11 della Carta costituisce senza dubbio parte del tessuto normativo operante all’interno dello Stato italiano.

La norma europea stabilisce diversi livelli di tutela che gli Stati possono adottare al fine di garantire l’uso delle lingue minoritarie nel settore dei mass-media. In particolare, la lettera citata dal Regolamento prevede che, «nella misura in cui la radio e la televisione abbiano una missione di servi-Page 194zio pubblico», lo Stato possa scegliere uno dei seguenti impegni (tenendo conto della situazione di ciascuna minoranza):

i. assicurare la creazione di almeno una emittente radiofonica e di un canale televisivo nelle lingue regionali o minoritarie, oppure

II. incoraggiare e/o facilitare la creazione di almeno una emittente radiofonica e di un canale televisivo nelle lingue regionali o minoritarie, oppure

III. prendere adeguati provvedimenti affinché gli enti radiotelevisivi programmino delle trasmissioni nelle lingue regionali o minoritarie;

L’art. 12 del Contratto di Servizio stipulato fra il Ministero delle Comunicazioni e la rai (di cui al dpr del 14 febbraio 2003, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 13 marzo 2003), però, anziché prevedere direttamente le sedi e i livelli di tutela —così come richiedeva la lettera del Regolamento 345/2001— si è limitato a stabilire che «Entro novanta giorni dall’entrata in vigore del presente contratto una Commissione appositamente costituita tra il Ministero e la rai individuerà le sedi della società a cui sono attribuite le attività di tutela di ciascuna minoranza linguistica riconosciuta nonché il contenuto minimo della tutela».

Ad oltre un anno dalla scadenza di quel termine, tuttavia, non si è ancora provveduto ad adempiere al dettato normativo, rendendo di fatto privi di riscontro pratico sia le disposizioni del Regolamento, sia il principio generale contenuto nel medesimo art. 12 del Contratto, secondo cui «La rai si impegna ad assicurare le condizioni per la tutela delle minoranze linguistiche riconosciute nelle zone di loro appartenenza, assumendo e promuovendo iniziative per la valorizzazione delle lingue minoritarie presenti sul territorio italiano, in collaborazione con le competenti istituzioni locali».

A tale proposito, risulta alquanto pleonastica la disposizione —contenuta anche nella legge 482/99— secondo cui le Regioni e gli Enti locali possono stipulare con la rai, a proprie spese, specifiche convenzioni per programmi o trasmissioni giornalistiche nelle lingue ammesse a tutela, convenzioni che, comunque, andrebbero solo ad aggiungersi alla programmazione nelle lingue minoritarie che la rai è già tenuta a fare con i fondi derivanti dal canone televisivo.

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3.6. Uso del friulano nella Pubblica Amministrazione e in giudizio

Riguardo all’uso del friulano nella Pubblica Amministrazione, la legge 482/99 ha introdotto una disciplina molto innovativa che però, come si è già detto, viste le competenze specifiche della nostra Regione in tema di ordinamento degli enti locali e degli uffici regionali, va correttamente posta in relazione con le norme regionali sinora emanate in materia. Un discorso simile va fatto anche riguardo alle norme della 482/99 sull’uso del friulano nella toponomastica e negli organismi collegiali delle amministrazioni locali e regionali.

Con una valenza che coinvolge tutti gli «uffici delle amministrazioni pubbliche» dei comuni delimitati (con esclusione delle sole forze armate e di polizia), l’art. 9 della legge 482/99 sancisce un diritto generalizzato all’uso scritto e orale del friulano in tali uffici, diritto che può essere esercitato innanzitutto dai cittadini, ma anche dagli stessi dipendenti pubblici. In più, la stessa norma prescrive che tutte le amministrazioni pubbliche garantiscano «la presenza di personale che sia in grado di rispondere alle domande del pubblico usando la lingua ammessa a tutela», il che presuppone l’esistenza di un preciso diritto (in questo caso in capo ai soli cittadini) di ricevere anche le risposte nella loro madrelingua.

L’art. 6 del Regolamento attuativo, oltre a prevedere l’istituzione —nel

le citate pubbliche amministrazioni— di «almeno uno sportello per i cittadini che utilizzano la lingua ammessa a tutela» e la facoltà di apporre «indicazioni scritte rivolte al pubblico, redatte, oltre che in lingua italiana, anche nella lingua ammessa a tutela, con pari dignità grafica», specifica che «per gli atti aventi effetti giuridici ha efficacia solo il testo in lingua italiana». Quindi, secondo tale impostazione, il cittadino ha sempre diritto di esprimersi in lingua friulana, sia oralmente che per iscritto, con tutti gli uffici pubblici siti nei comuni delimitati e non è possibile per questi ultimi pretendere la traduzione in italiano delle affermazioni o dei documenti presentati. Il cittadino, inoltre, ha diritto di ricevere anche le risposte, sia oralmente che per iscritto, nella lingua prescelta, con l’unico limite che se gli atti in questione producono effetti giuridici farà fede il solo testo in italiano. Va sottolineato, peraltro, che tutte le traduzioni da effettuarsi in base a tale normativa saranno a carico della pubblica amministrazione stessa.

Inoltre la pubblica amministrazione non potrà appesantire l’iter amministrativo del cittadino che chiede di fare uso della lingua friulana, senza venir meno ai principi di imparzialità ed eguaglianza, fermo restando che tale diritto dovrà essere applicato con una certa progressività e ragionevolezza, tenendo conto delle esigenze organizzative delle Amministrazioni,Page 196sempre che queste esigenze non si trasformino in pretesti per rimandare sine die il rispetto dei diritti linguistici dei cittadini friulani.

A fortiori, va aggiunto che già la qualifica dei friulani quali «minoranza riconosciuta» comporta, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, il diritto di usare la propria madrelingua e di ricevere nella stessa lingua anche le risposte nei rapporti con la Pubblica Amministrazione (Sentenze 28/82; 62/92; 15/96).

Riguardo alla toponomastica l’art. 10 della legge 482/99 si limita a stabilire che «in aggiunta ai toponimi ufficiali, i consigli comunali possono deliberare l’adozione di toponimi conformi alle tradizioni e agli usi locali». Il Regolamento attuativo specifica, inoltre, che «nel caso siano previsti segnali indicatori di località anche nella lingua ammessa a tutela, si applicano le normative del codice della strada, con pari dignità grafica delle due lingue».

Infine, riguardo all’uso delle lingue minoritarie da parte dei membri dei consigli comunali, l’art. 7 della legge 482/99 stabilisce un generale diritto a parlare tali lingue negli organi a struttura collegiale delle amministrazioni siti in comuni delimitati, mentre il Regolamento attuativo rimanda agli statuti o ai regolamenti degli enti coinvolti la disciplina delle forme e delle modalità degli interventi.

La legge, inoltre, specifica che «qualora uno o più componenti degli organi collegiali dichiarino di non conoscere la lingua ammessa a tutela, deve essere garantita una immediata traduzione in lingua italiana» e «qualora gli atti destinati ad uso pubblico siano redatti nelle due lingue, producono effetti giuridici solo gli atti e le deliberazioni redatti in lingua italiana».

Le medesime norme si applicano anche a comunità montane, province e regioni, i cui territori ricomprendano comuni nei quali è riconosciuta la lingua ammessa a tutela, che complessivamente costituiscano almeno il 15 per cento della popolazione interessata.

Per capire in che misura la disciplina sopra descritta possa incidere sugli usi pubblici del friulano, va stabilito, anzitutto in quali ambiti la Regione abbia emanato delle proprie norme e, in tal caso, quali siano le norme «più favorevoli».

Abbiamo già detto che riguardo all’uso del friulano negli uffici regionali non è mai stato emanato il Regolamento previsto dalla legge regionale 15/96, pertanto in tale ambito si applicherà provvisoriamente la normativa statale.

Nel caso, invece, dell’uso del friulano negli enti locali, si è visto che l’art. 11 bis della lr 15/96 stabilisce una mera «possibilità» per gli enti locali di prevedere nei loro Statuti o regolamenti delle norme sull’uso del friulano nelle attività amministrative, mentre la legge 482/99 sancisce unPage 197vero e proprio diritto a relazionarsi in friulano, a prescindere da quanto prevedono le norme locali che, semmai, potranno solamente disciplinare le modalità di applicazione di tale principio nelle proprie strutture. È evidente che in questo caso la normativa più favorevole è quella statale, la cui applicazione —quindi— dovrà disciplinarsi con norme attuative dello Statuto. A livello pratico, tuttavia, l’art. 9 della legge 482/99 troverà comunque attuazione anche negli enti locali per lo meno in conseguenza dei diritti minimi di cui godono i friulani in quanto «minoranza riconosciuta» (ai sensi delle citate Sentenze della Corte Costituzionale), ma anche come norma residuale in quegli enti locali che non hanno emanato alcun tipo di disciplina in materia.

Un discorso simile va fatto anche riguardo all’uso del friulano nei consigli degli enti locali. Anche qui, infatti, la legge 482/99 stabilisce un diritto generalizzato di esprimersi in lingua friulana, lasciando alla normativa locale la sola disciplina delle modalità degli interventi. Potremmo, invece, ritenere più favorevole la disciplina regionale esclusivamente nella misura in cui lascia totale libertà agli enti locali di stabilire tali modalità (cioè senza vincolarli ex lege all’immediata traduzione in italiano prevista dalla 482/99), mentre è sicuramente più favorevole l’assenza, nella normativa regionale, di una percentuale minima di parlanti per l’uso nei consigli provinciali, nelle comunità montane e in Regione.

Infine, riguardo alla toponomastica, le normative regionali e statali sono quasi coincidenti, salvo un lieve favor contenuto nella normativa statale secondo cui basta una semplice delibera del Consiglio comunale per l’adozione della toponomastica tradizionale, anziché una specifica norma statutaria o regolamentare (comunque richiesta dal Regolamento attuativo per la disciplina della materia) e sempre che non si accolga l’ interpretazione estensiva dell’art. 14, 3° c., della legge regionale 15/96, di cui si è riferito supra.

È ovvio, tuttavia, che per disciplinare al meglio il rapporto fra tali normative, oltre che per implementare l’uso del friulano in tali ambiti, risulta imprescindibile uno specifico intervento in sede di attuazione dello Statuto di Autonomia.

Va aggiunto, infine, che ai sensi dell’art. 1, 3° c., del Decreto Legislativo 12 settembre 2002, n. 223, è stato delegato alla nostra Regione «l’esercizio di tutte le funzioni amministrative connesse all’attuazione delle disposizioni previste dagli articoli 9 e 15 della legge e di ogni altra disposizione concernente la disciplina dello svolgimento di compiti delle amministrazioni pubbliche locali». A partire dall’esercizio finanziario 2003, pertanto, sarà la Regione a gestire i fondi previsti dalla legge 482/99 per l’introduzione dellePage 198lingue minoritarie nella pubblica amministrazione locale. A tale proposito il 4° c. del citato decreto prevede che sia trasferita annualmente alla Regione «una speciale assegnazione finanziaria a valere sui corrispondenti stanziamenti autorizzati dal bilancio dello Stato per le finalità della legge».

Per completare il quadro degli usi pubblici del friulano, va ricordato che l’art. 9, 3° c., della legge 482/99, oltre a stabilire il diritto di usare il friulano nei procedimenti davanti al giudice di pace, fa salva espressamente l’applicazione, per le minoranze riconosciute dalla legge, dell’art. 109 del

Codice di Procedura penale, secondo cui «davanti all’autorità giudiziaria avente competenza di primo grado o di appello su un territorio dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta, il cittadino italiano che appartiene a questa minoranza è, a sua richiesta, interrogato o esaminato nella madre lingua e il relativo verbale è redatto anche in tale lingua. Nella stessa lingua sono tradotti gli atti del procedimento a lui indirizzati successivamente alla sua richiesta. Restano salvi gli altri diritti stabiliti da leggi speciali e da convenzioni internazionali». Pertanto, i parlanti la lingua friulana —in quanto minoranza riconosciuta ai sensi dell’art. 2 della legge 482/99 e per l’espresso richiamo operato dall’art. 9— hanno diritto di usare la loro lingua materna anche davanti all’autorità giudiziaria penale sita in un comune delimitato, con i limiti e le modalità previsti dal Codice di Procedura Penale, secondo cui le disposizioni dell’art. 109 vanno osservate «a pena di nullità».

3.7. Altre norme di rilievo e tutela penale delle minoranze linguistiche

Degni di nota sono anche gli artt. 11 e 19 della legge 482/99 per il loro carattere fortemente innovativo nell’ambito dell’ordinamento giuridico statale. Il primo stabilisce il diritto di ottenere, sulla base di adeguata documentazione, il ripristino dei nomi o dei cognomi nella forma originaria quando siano stati modificati prima della data di entrata in vigore della legge o sia stato impedito in passato di apporre il nome di battesimo nella lingua della minoranza. Il secondo, invece, prevede la possibilità per lo Stato di attivare forme di promozione —mediante apposite convenzioni e perseguendo condizioni di reciprocità con gli Stati esteri— delle lingue e delle culture minoritarie diffuse all’estero, nei casi in cui i cittadini delle relative comunità abbiano mantenuto e sviluppato l’identità socioculturale e linguistica d’origine.

Infine, va ricordato che, in seguito ad uno specifico emendamento introdotto dall’art. 23 della legge 38/2001, è stato aggiunto alla legge 482/99Page 199il seguente articolo riguardante la tutela penale delle minoranze linguistiche: «Art. 18-bis. – 1. Le disposizioni di cui all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, e successive modificazioni, ed al decreto legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, si applicano anche ai fini di prevenzione e di repressione dei fenomeni di intolleranza e di violenza nei confronti degli appartenenti alle minoranze linguistiche». Le norme citate da tale articolo stabiliscono sanzioni penali contro vari fenomeni di intolleranza e violenza per motivi razziali, etnici o religiosi, in attuazione della Convenzione internazionale contro le discriminazioni razziali delle Nazioni Unite.

4. Conclusioni

Nell’ultimo decennio lo status giuridico della lingua friulana si è fortemente evoluto passando da semplici forme di promozione culturale a più specifici provvedimenti di politica linguistica, sino a giungere, più recentemente, all’individuazione di alcuni diritti linguistici a favore dei cittadini friulanofoni.

Ciononostante, v’è ancora molta strada da fare per completare il quadro dei diritti linguistici dei friulani, poiché spesso —come si è visto— la legislazione linguistica risulta priva di attuazione pratica oppure in determinati ambiti è ancora assente o del tutto insufficiente. In tal senso, l’inerzia attuativa o normativa è ascrivibile tanto allo Stato quanto alla Regione Friuli-Venezia Giulia.

A livello statale, ad esempio, risulta ancora priva di applicazione tutta la normativa riguardante il servizio pubblico radiotelevisivo che, per sua natura, costituisce un settore fondamentale per la piena normalizzazione della lingua friulana.

La Regione Friuli-Venezia Giulia, invece, pur disponendo di nuove competenze normative in altrettanti ambiti fondamentali per lo sviluppo degli usi linguistici (ad esempio la scuola), non si è ancora attivata in tal senso oppure si è limitata a lasciare inalterate norme regionali da tempo superate dall’ordinamento statale. Alla Regione, peraltro, si offrirebbero ulteriori opportunità di sviluppare le disposizioni previste dalla legge 482/99, grazie alle norme attuative dello Statuto Speciale. Finora, però, l’unica norma di attuazione emanata (il D. Lgs. 223/02) non ha sfruttato se non in minima parte le potenzialità di questo strumento normativo che, anche per la sua collocazione nel sistema delle fonti, può offrire alle minoranze linguistiche maggiori garanzie.

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Per superare tutte queste difficoltà, quindi, sarà imprescindibile da un lato rielaborare a livello regionale una nuova legge organica sulla tutela della lingua friulana che tenga conto delle recenti evoluzioni normative, dall’altro intervenire —in particolare mediante norme attuative dello Statuto— in tutti i principali ambiti della vita sociale, al fine di giungere ad una disciplina linguistica completa ed omogenea.

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* William Cisilino è nato a Udine nel 1974. Si è laureato in Legge presso l’Università degli Studi di Trieste con una tesi su: «La disciplina del plurilinguismo nella Costituzione spagnola del 1978 e la tutela del catalano nell’ordinamento giuridico della Generalità di Catalogna». Responsabile dell’Ufficio per la lingua friulana e per le altre lingue minoritarie della Provincia di Udine, è autore di vari studi sulla tutela della lingua friulana e delle lingue minoritarie, fra cui: «Vademecum sull’uso della lingua friulana negli enti locali», Udine, 2000; «The juridical defence of rhaeto-romansh languages, with particular reference to the friulian case», Barcelona, 2001; Atti del convegno «Lingue minoritarie e identità locali come risorse economiche e fattori di sviluppo», Udine, 2004; «Le.Am. —dizionario dei termini giuridicoamministrativi in lingua friulana», Udine, 2004.

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