Educare alla cittadinanza nelle società multietniche

AutorPaola B. Helzel
Páginas107-119

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  1. L’Europa da diversi secoli vive oramai un processo di pluralizzazione che sembra non volersi arrestare e che ha segnato e continua a segnare profondamente tanto il campo delle istituzioni politiche, quanto quello della cultura, delle tradizione e dell’etica1. Pluralizzazione e frammentazione che se un tempo erano stati forieri della formazione di un’identità europea oggi, invece, hanno messo in moto un processo di diversificazione, il cui risultato è l’esasperazione delle diversità. Ciò, in parte è dovuto ai grandi flussi migratori che da qualche decennio investono l’intera Europa rendendo sempre più complessa la convivenza multietnica e multiculturale. Una convivenza, quest’ultima, che sotto il profilo meramente giuridico-istituzionale, gli stati europei non sono ancora del tutto pronti a fronteggiare, in quanto il diritto europeo mal si presta a districare l’ingarbugliata matassa che è la società pluralistica in cui viviamo. Ma, prima di procedere oltre, è opportuno porre l’accento sul fatto che pur utilizzando l’espressione "società contemporanee multicultuali" in forma piuttosto generica, di fatto, si possono esprimere due ordini di significati dalle implicazioni tutt’altro che coincidenti2. Infatti, se,

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    come è stato osservato, per un verso gli aspetti multiculturali sono un dato di fatto, «dovuto in prevalenza alla trasformazione in senso multietnico della composizione demografica delle comunità statali», è altresì vero che tali «aspetti multiculturali possono essere trattati come un valore, un fine»3. Ciò in considerazione del fatto che la multiculturalità di per sé non è negativa, anzi è portatrice di tutta una serie di valori che sono a fondamento di ogni cultura, e quindi favorisce la convivenza civile, impedendo, così, intolleranze e razzismi4. Ma le società occidentali, soprattutto quelle di stampo liberale, pur presentando «sul piano dei valori giuridici un tratto di universalismo» che si traduce, poi, nei testi costituzionali in enunciazioni di principi che «presentano una endemica apertura all’accoglimento di istanze di giuridificazione contrassegnate da aspetti multiculturali», di fatto, però, «il passaggio da un universalismo calibrato su indici culturali di tipo eurocentrico [...], ad un multiculturalismo genuino»5è più difficile di quanto possa sembrare. Tutto ciò in parte si deve al fatto che, i moderni ordinamenti giuridici occidentali sono intrisi sia «di connotazioni etiche» che «fortemente idiomatiche alla cultura di appartenenza»6e quindi, l’universalismo tanto proclamato da tali ordinamenti giuridici finisce con il rimanere oltre la soglia della libertà individuale. Ed allora il "tutti" diviene la semplice connotazione caratterizzante una cittadinanza negativa, intesa, cioè, «libera dai legacci delle qualificazioni normative»7. Sebbene possa sembrare che l’accettazione generale delle norme produca l’effetto del riconoscimento dei diritti, di fatto «non si

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    armonizza facilmente con esse» in quanto mette in crisi la «cecità alle differenze»8, che invece è alla base del riconoscimento a tutti degli stessi diritti, tanto civili, quanto politici, prescindendo dalla razza, dalla cultura e dalla religione. In realtà, se preso sul serio il multiculturalismo potrebbe contribuire proprio all’organizzazione giuridica delle società9, poiché rappresenta la difesa della pluralità di culture pur nella loro differenza, e si appella ad una filosofia delle differenze su cui poter fondare i diritti10. Infatti, se vogliamo difendere i nostri diritti dobbiamo iniziare necessariamente dalla difesa delle altre culture, in altre parole, dalla difesa delle diversità11. Il multiculturalismo, in questo senso, mette in atto una radicale rielaborazione dei concetti di individuo, di emancipazione, di uguaglianza, di progresso e di futuro, e lo stesso concetto di eticità acquista un ruolo rilevante all’interno della società. Ciò è dovuto al fatto che l’incontro tra tradizioni e modi di vita differenti pone non solo problemi relazionali, ma anche timori e speranze, chiusure e aperture nei confronti dell’altro, sollecitando altresì la ricerca di un modo nuovo di gestire la convivenza inter-etnica. In questo senso, allora, le società multiculturali possono intendersi come «società politiche in cui non vi è una identità culturale dominante o maggioritaria»12, bensì molteplici identità con lo stesso diritto di riconoscimento, diritto attraverso il quale si risolvono i conflitti. Ed è proprio attraverso il riconoscimento che «si attribuisce valore socio-politico alla diversità»13. Diversità che, come ben sottolineato da Dalla Torre, diviene un prezioso elemento di «arricchimento reciproco nelle relazioni tra individui che merita di essere salvaguardato»14. Il voler identificare solo il cittadino come soggetto di diritto significa, di fatto, «occultare, ignorare, soffocare la reale identità di ciascun individuo»15, trasformando lo straniero in un uomo

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    che nessuno vede pur se portatore di interessi, bisogni ed esigenze concrete. La diversità di cui lo straniero è portatore diviene un motivo di svantaggio e quindi di debolezza poiché non si possiede quello status, il cui superamento da diverse parti viene invocato, ma che continua in maniera inesorabile ad esistere all’interno degli ordinamenti giuridici odierni, ovvero la cittadinanza. Tutto ciò ci riporta alla vexata quaestio, vale a dire la distinzione tra chi è cittadino e chi invece è straniero. Una quaestio che affonda le sue radici a partire dal mondo greco in cui esisteva una netta distinzione tra il ???í??? e il ????????. Infatti, per i greci tutti gli individui che non appartengono ad una stessa, e quindi non partecipano alla "cosa pubblica" ed alla responsabilità nella conduzione della città, sono per definizione stranieri16. La stessa rinuncia di Socrate a fuggire, così ben motivata nel Critone di Platone è l’affermazione di una condizione giuridica di appartenenza. L’appartenenza diviene, dunque, un requisito fondamentale per poter essere considerati cittadini, ovvero far parte di «un gruppo che ha una sua soggettività politica, che ha istituzioni politiche»17. Ma per poter meglio comprendere il fenomeno della cittadinanza con tutte le molteplici implicazioni è opportuno, a mio avviso, soffermarci sul significato profondo insito nel concetto di appartenenza.

  2. Il termine appartenenza può essere considerato nel suo duplice significato. Per un verso, infatti, assume il significato di consapevolezza della propria identità che si costruisce e si definisce a partire dall’io18. Identità, è sinonimo di appartenenza, di cittadinanza e pertanto separazione dall’altro19. La dimensione personale della "considerazione di sé", sempre presente nella vita dell’individuo, è preliminare alla dimensione sociale dell’appartenenza, che si esplica in relazione all’ambiente ed ai soggetti che costituiscono la comunità

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    di riferimento. Alla base dell’appartenenza, generalmente, vi è un processo di identificazione, in cui la sfera dell’io si identifica con il noi, permettendo così di riconoscersi e di essere riconosciuti come membri di un gruppo attraverso l’accettazione di alcuni segni distintivi. Tale riconoscimento avviene attraverso quello «sguardo su di sé» che è indice di un discorso «condizionato dall’appartenenza a una forma di vita, a una storia condivisa, a un comune orizzonte di riferimento»20. In questo senso, l’identità altro non è se non «il risultato di diversi processi di socializzazione che costruiscono l’individuo e contemporaneamente definiscono le istituzioni»21, e quindi volendo definirla come Bauman, «un prisma attraverso il quale tutti gli altri aspetti di spicco della vita contemporanea vengono individuati, compresi ed esaminati»22.

    L’identità, dunque, è un dialogo incessante tra io e l’altro, una continua ricerca dell’io attraverso l’altro. In altre parole, l’identità deve confrontarsi con l’alterità, deve, cioè, riconoscere la diversità rispettandola, senza tentare di farla diventare qualcosa di eguale a sé. Un’identità autoreferenziale, vissuta come "comunità -fortezza", come "piccola patria da difendere"23, inevitabilmente, diviene la "cifra spirituale della paralisi"24, e finisce con il generare atteggiamenti polemici ed intolleranti nei confronti dell’altro25, tanto da far divenire il "noi" lo scudo che ci protegge "dall’altro da noi"26. L’altro ha dei valori diversi da nostri, ma non per questo meno importanti. Il non "riconoscimento" dell’altro, comporta, dunque, che tanto i singoli individui, quanto i gruppi vivano in modo «falso, distorto e impoverito»27, poiché l’uomo finisce con il sentirsi sempre meno uomo. In realtà, l’identità dovrebbe riconoscere l’alterità ed aprirsi all’universale, in modo tale che l’appartenenza «che ognuno riconosce come propria non pregiudichi la possibilità di metterla in ques

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    tione quando minaccia di diventare esclusiva e di irrigidirsi in un confine chiuso»28.

    Nel suo secondo significato il termine appartenenza, invece, può essere inteso come il sentirsi parte di un gruppo, condividere con il gruppo comportamenti, modi di pensare e atteggiamenti. Infatti, etimologicamente il termine appartenere significa "tener parte in una situazione" o meglio ancora prendere parte, sentirsi, cioè, parte viva di una realtà. La realtà a cui ci si riferisce è per l’appunto la comunità. Chi vive all’interno della comunità ha la possibilità di vedere salvaguardati i propri diritti, viceversa chi sta "fuori" ne rimane totalmente escluso. Una comunità, dunque, arestotelicamente intesa in cui una pluralità di uomini vivono «un’autentica vita umana, [...], il modo di vita più elevato possibile». Pluralità quale conditio sine qua non per l’esistenza di una comunità, infatti, come lo stesso Aristotele insegna «non solo la città è costituita da una pluralità di uomini, ma anche da uomini diversi specificatamente, perché non nasce una città da uomini simili. [...]...

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