La lingua giuridica va riformata? Alcune osservazioni linguistiche sul dibattito in corso

AutorPatrizia Brugnoli
CargoScuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori della Università degli Studi di Trieste
Páginas9-35

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La correttezza della lingua è la premessa della chiarezza morale e dell’onestà. Molte mascalzonate e violente prevaricazioni nascono quando si pasticcia la grammatica e la sintassi e si mette il soggetto all’accusativo o il complemento oggetto al nominativo, ingarbugliando le carte e scambiando i ruoli tra vittime e colpevoli, alterando l’ordine delle cose e attribuendo eventi a cause o a promotori diversi da quelli effettivi, abolendo distinzioni e gerarchie in una truffaldina ammucchiata di concetti e sentimenti, deformando la verità.

(Claudio Magris, Microcosmi)

Introduzione

L’antipatia e l’insofferenza nei confronti della lingua giuridica, e, in particolare, nei riguardi di quella sua tendenza ad esprimersi in modo criptico e poco accessibile ai non addetti ai lavori, è di lunga data.

Sin dall’epoca dei lumi molte volte nella cultura occidentale sono state mosse delle dure critiche verso la lingua giuridica: già nel 1800 Vincenzo Monti parlava di rozzezza ed ineleganza del «barbaro dialetto miseramente introdotto nelle pubbliche amministrazioni» da «penne sciaguratissime», mentre il Varchi —trecento anni addietro— esprimeva tutto il suo disprezzo per la lingua usata dalla diplomazia di allora (Beccaria 1973: 13-14).

Ancora oggi esiste un acceso dibattito che appassiona tanto linguisti come giuristi sulla necessità di riformare e di rendere più trasparente tale lingua. In questa sede, dopo aver chiarito da chi viene usata a e a chi si rivolge la lingua giuridica (parte 1), si passerà a considerare —attraverso le opinioni sia di giuristi sia di linguisti— se e, in caso di risposta affermativa, perché alcuni professionisti del diritto abbiano la volontà e la consapevolezza di trasformare tale lingua in un gergo (parte 2). Inoltre, nell’articoloPage 10 ci si chiede se tale lingua sia chiara per i professionisti del diritto, esemplificando i principali tratti semantici che —a parere dell’autrice— dovrebbero essere riformati per migliorare la comunicazione e la comprensione tra gli esperti stessi (parte 3).

Viene poi messo in rilievo il fatto che, nonostante il diritto e la lingua siano indissolubilmente legati, tra i professionisti del diritto non vi è una costante coscienza linguistica: lo dimostra il fatto che lo studio della lingua giuridica nei suoi livelli linguistici (semantico, morfosintattico e stilistico) è pressoché assente dai corsi universitari di giurisprudenza (parte 4). Infine, vengono analizzati tre principi fondamentali del diritto che hanno delle conseguenze dirette sulla lingua giuridica (parte 5) e, alla luce di quanto esposto, vengo tratte delle conclusioni sugli effetti negativi che un cattivo uso della lingua giuridica ha per l’intero sistema giuridico (parte 6).

Le considerazioni linguistiche sulla lingua giuridica fatte in questa sede riguardano in particolare sia la lingua giuridica italiana sia la lingua giuridica spagnola e sono circoscritte all’aspetto lessico-semantico. Esempi tratti da fonti giuridiche di prima mano sia italiane sia spagnole avallano le osservazioni riportate.

1. A chi serve e a chi si rivolge la lingua giuridica?

Per capire la questione innanzitutto è necessario rispondere alla domanda: «Che cos’è la lingua giuridica?». Se si accetta la definizione sociolinguistica di lingua giuridica, allora la lingua giuridica è da considerarsi la varietà d’uso della lingua relativa all’ambito funzionale contestuale in cui viene utilizzata, ovvero, nella fattispecie, l’ambito del diritto.

Questa definizione mette quindi in evidenza la caratteristica principale della lingua giuridica: l’essere la varietà usata da un particolare gruppo di persone, da coloro che scrivono il diritto, ovvero i legislatori, e da coloro che parlano di diritto, ovvero i giudici ed gli studiosi di diritto. Conseguentemente la prima osservazione è: la lingua giuridica è una lingua che nasce per i professionisti del diritto, i cui naturali destinatari sono i membri delle professioni giuridiche che la usano per esercitare le loro funzioni.

Da quanto detto sopra, ne deriva anche una seconda osservazione. Se la lingua giuridica usa parole tecniche (e quindi di difficile comprensione da parte del comune cittadino), è perché non si rivolge a tutti, ma solo ad una cerchia ristretta di parlanti rappresentata da chi lavora nel settore giuridico, da chi ha lo stesso bagaglio di conoscenze e da chi ha una grande padronanza della materia giuridica. Infatti, come annota Dardano (1996: 334),Page 11 a differenza della lingua comune, nelle lingue speciali (e, quindi, anche in quella giuridica), la dimensione tecnica aumenta nella misura in cui diminuisce il numero degli utenti che ne fruiscono.

Per rispondere alle critiche mosse alla lingua giuridica, molti giuristi hanno argomentato che la complessità tecnica della lingua giuridica non è semplificabile perché risulta essere un vantaggio o, addirittura, una necessità per l’ambito giuridico. Liaño, infatti, asserisce che «[…] la conceptualización y tecnificación del lenguaje permite la simplificación de las normas, y la fluidez de la comunicación entre los juristas: el lenguaje se convierte en un instrumental que, debidamente manejado, agiliza la argumentación, la construcción de reglas, y la propia interpretación de normas y contratos» (1996: 13).

Sul versante italiano va segnalata anche l’opinione di Lazzaro, il quale sostiene che l’ideale illuminista, secondo cui la legge deve esprimersi in maniera da essere capita immediatamente dai cittadini, non è più ammissibile, perché «la materia regolata dal diritto è ormai, negli ordinamenti moderni, così complessa, da imporre al legislatore un linguaggio tecnico, non fosse altro per imprescindibili esigenze di sintesi e di stringatezza» (1981: 140).

A queste considerazioni si deve aggiungere, inoltre, che storicamente la specializzazione della lingua giuridica è legata alla codificazione scritta del diritto per cui, tradizionalmente, coloro che si occupavano di legge erano persone considerate privilegiate dal resto della comunità, poiché notoriamente sapevano leggere e scrivere. Questa associazione persona colta-uomo di legge è evidente ancora oggi in spagnolo dall’etimologia della parola letrado. Infatti, la prima accezione di letrado è «hombre de letras», ovvero «docto, instruido», mentre la seconda è «abogado» (gdle 1991: 1206). Di conseguenza il cittadino interpretava, e tutt’oggi1 tende ad interpretare, questa varietà specialistica della lingua comune come un segno di cultura da parte del professionista, quando, in realtà, la lingua giuridica è solo frutto di un processo di specializzazione e, quindi, di diversificazione rispetto alla lingua comune.

Ecco perché, talvolta, per convogliare l’idea che la lingua giuridica è incomprensibile ai cittadini, si usa impropriamente il termine gergo. La lingua giuridica non è un gergo poiché esiste una profonda differenza tra i cosiddetti gerghi e le lingue speciali come la lingua giuridica.2 Chi usa un gergo, infatti, «lo fa con la consapevolezza di usare una lingua criptica perPage 12 parlare di cose ordinarie, proprio con l’intento di isolare e di difendere il proprio gruppo di parlanti dal mondo esterno» (Berruto 1987: 157).

Tuttavia, la polemica che investe la lingua giuridica nasce proprio dal fatto che la lingua giuridica non si rivolge esclusivamente a parlanti con un universo di conoscenze specificatamente giuridiche, ossia non possiede solo il piano comunicativo costituito dai discorsi tra specialisti del diritto. Il diritto infatti entra nella sfera personale di tutti i cittadini ed è proprio nei rapporti tra cittadino e, ad esempio, pubblica amministrazione che la lingua giuridica —così com’è concepita per rispondere alle esigenze professionali— non è capita e, quindi, non è accettata da parte di chi professionista del diritto non è.

Quindi, le critiche a questa lingua prendono le mosse dal fatto che essa non si sa adeguare ai piani comunicativi e ai diversi interlocutori. Ad illustrare le difficoltà che questo duplice piano comunicativo comporta, portiamo l’esempio di un tratto tipico della lingua giuridica: gli arcaismi. Gli arcaismi sono termini o espressioni appartenente ad una fase antiquata dell’espressione linguistica che vengono conservati nell’uso odierno della lingua.

Sull’uso di tali tratti vi è una polemica tra chi sostiene che la lingua giuridica usi termini divenuti ormai obsoleti e, pertanto, oscuri per il comune cittadino, e coloro i quali, invece, sostengono che la lingua giuridica utilizzi termini il cui uso non deve essere rapportato alla lingua comune, ma solo al contesto giuridico.

Tra i sostenitori della prima linea di pensiero, ad esempio, Gotti osserva che «la paura di introdurre occasioni di ambiguità tramite l’elaborazione di termini nuovi porta a mantenere il più possibile i tratti linguistici usati tradizionalmente e a non abbandonarli anche quando essi sono ormai obsoleti e non più usati nella lingua comune (cors. agg.)» (1991: 26). Quindi, per questa prima corrente, gli arcaismi sono parole scomparse nell’uso quotidiano della lingua, ma che ancora sopravvivono nella lingua giuridica, e, per questo, sono considerati obsoleti.

Tra i autori della seconda corrente, invece, includiamo Snel Trampus (1989: 52-53), la quale non considera gli arcaismi come termini obsoleti, ma come tecnicismi. Infatti, Snel Trampus attribuisce l’uso degli arcaismi al registro della lingua giuridica, lingua che ha subito un processo differente rispetto alla lingua comune. Pertanto, secondo quest’autrice, non si deve rapportare il termine all’uso fattone nella lingua comune, ma all’uso fattone in quella giuridica.

Dalle osservazioni riportate non possiamo definire globalmente la lingua giuridica come una lingua arcaica. Infatti, non basta che una parola sia datata per poterla definire arcaismo giuridico, bensì bisogna considerare rispetto a che ambito e rispetto a quale uso questo termine è desueto.

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Cornu (1990: 25-26) nella sua importante opera Linguistique juridique ha fatto interessanti osservazioni che dissipano i dubbi sulla natura degli arcaismi nella lingua giuridica. Secondo lo studioso, si può parlare di arcaismo se la lingua giuridica per designare atti o fatti correnti usa termini che non sono più correnti nella lingua comune attuale. Al contrario, non si potrà parlare di arcaismo, ma semplicemente si parlerà di tecnicismo giuridico, se la lingua giuridica, per designare atti o fatti giuridici, usa termini giuridici precisi, che non hanno alcun equivalente nel lessico comune.

Possiamo pertanto affermare che se l’uso del termine è quello odierno, e se lo si considera dal punto di vista esterno al diritto, allora certamente il termine potrà considerarsi arcaico; mentre se l’uso considerato è quello interno al diritto, allora non si può registrare l’arcaismo, poiché è raro che un termine cada in desuetudine nella comunità giuridica.

Tuttavia, il problema risiede nel fatto che la lingua giuridica ricorre agli arcaismi anche laddove la lingua comune metta a disposizione un termine più attuale e di maggiore diffusione. E’ proprio questo ostinato attaccamento alle accezioni più antiquate a costituire una barriera linguistica non solo per il profano. Di seguito vengono riportati alcuni esempi tratti da sentenze della Corte di Cassazione italiana nei quali l’arcaismo è preferito al termine della lingua comune, riportato tra parentesi quadra:

Commette il reato di sfruttamento ed esercizio della prostituzione, aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale, e non il reato di omessa denuncia ex art. 361 cod. pen., l’agente della Polizia di Stato che eserciti il meretricio [sfruttamento della prostituzione] in una casa di prostituzione

(Beltrani et al. 1996: 55).

In tema di infanticidio il concetto di “abbandono materiale e morale” deve essere inteso come uno stato di derelizione [abbandono totale], di solitudine e di emarginazione […]

(Beltrani et al. 1996: 1534).

I problemi legati alla comprensione della lingua giuridica da parte del vasto pubblico sono il risultato del fatto che la lingua giuridica non è una lingua tecnica, se per tecnico s’intende il rapporto biunivoco tra referente extralinguistico e significante.

Il fatto che la lingua giuridica non sia una lingua tecnica in senso stretto, ossia non sia una scienza cosiddetta dura, è tanto più evidente se si considera che essa è dotata di una tassonomia debole, in quanto non mostra un lessico molto strutturato (Dardano 1987: 140) ed ha rapporti più intensi con la lingua comune (Dardano 1996a: 14). La lingua giuridica, dunque, non si configura come una lingua artificiale (alla pari, ad esempio, della lin-Page 14gua matematica), ma è una lingua naturale, con tutte le conseguenze negative che possono derivarne per l’interpretazione.3

Possiamo, tuttavia, attribuire alla lingua giuridica una dimensione tecnica in senso lato, data dal fatto che la lingua giuridica attinge termini della lingua comune, e li usa in un’accezione che si allontana dal loro significato usuale, ossia li ridefinisce semanticamente tecnicizzandoli.4

La lingua giuridica non elimina, infatti, il problema della indeterminatezza e dell’ambiguità, poiché non esclude tutte le possibili «relazioni semantiche essenziali per la lingua comune e per il suo buon funzionamento, come la sinonimia e la polisemia» (Cortelazzo 1988: 247-248).

Da ciò ne discende che la lingua giuridica non può essere classificata come un lingua monoreferenziale, intendendo con questo termine, «la limitata e specifica occorrenza d’uso, ma anche […] l’univocità semantica» (Gotti 1991: 17).

Non sembra nemmeno sostenibile l’ipotesi che la lingua giuridica sia una lingua rigorosa, alla stregua della lingua scientifica, e questo principalmente «per l’impossibilità di definire tutti i termini e le espressioni usati nei suoi numerosissimi enunciati» (Silvestri 1989: 230). Il fatto stesso che le leggi debbano essere interpretate dai giudici, che si debba chiarire il significato dei termini impiegati nelle leggi, corrobora l’ipotesi che la lingua giuridica non è una lingua rigorosa. Gli stessi giuristi hanno più volte negato che la lingua giuridica sia una lingua rigorosa, come —ad esempio— appare chiaro dalle dichiarazioni di Luigi Ferrajoli:

Non è difficile constatare che la dottrina giuridica corrente non soddisfa nessuno dei requisiti che comunemente si richiedono ad una disciplina scientifica […]. Il suo vocabolario, infine, manca di quel carattere di rigore e di univocità che rappresentano le prime e pregiudiziali condizioni della consistenza scientifica dei concetti da essa impiegati […] se si sfogliano le monumentali enciclopedie del diritto […] ci si trova davanti a mi-Page 15gliaia di termini, che sono impiegati o sono stati impiegati nei sensi più equivoci e disparati, e di cui molti sono sinonimi che si mantengono per pura abitudine

(Ferrajoli 1970, citato in Lazzaro 1981: 162).

Per i non addetti ai lavori, i problemi di comprensione posti soprattutto dal piano lessico-semantico, ovvero dalla terminologia giuridica, possono essere esemplificati in questo schema:

  1. Termini prettamente giuridici tecnici. Questi termini non sono compresi dal pubblico perché di pertinenza esclusiva dell’ambito giuridico. Tra questi ricordiamo: ad esempio, usucapione, enfiteusi, comodato, abigeato.

  2. Termini presi dalla lingua comune e ridefiniti per l’ambito giuridico. Questi termini non vengono capiti dal pubblico digiuno di diritto perché il significato nell’ambito giuridico è completamente diverso da quello comune. Ad esempio, «ripetere una somma di denaro» nel senso di «restituire una somma di denaro», «la distrazione di fondi finanziari» ovvero «la sottrazione di fondi finanziari», «la confusione» ovvero «l’estinzione di un’obbligazione».

  3. Termini che esistono sia nella lingua comune sia nella lingua giuridica, ma che nella lingua giuridica hanno una nomenclatura più specifica, inesistente nella lingua comune. Il livello di comprensione del pubblico si ferma ai tratti semantici generali (negli esempi sotto indicati, omicidio e rapina). Esempio: tra le figure criminose appartenenti ai delitti contro la persona si distingue l’omicidio doloso dall’omicidio preterintenzionale all’omicidio colposo (ssdp 1998: 115-117); tra le figure criminose appartenenti ai delitti contro il patrimonio, invece, viene fatto una distinzione tra rapina propria e rapina impropria (ssdp 1998: 125).

  4. Una sottocategoria dei termini indicati al punto 3 è quella dei termini che nella lingua giuridica hanno un’accezione specifica a seconda del contesto d’uso, anche se apparentemente potrebbero sembrare sinonimi. Al contrario, nella lingua comune l’accezione di tali termini è un’accezione sinonimica. Infatti, il lessico giuridico aggiunge sfumature di significato rispetto alla lingua comune poiché «deve essere in grado di rispondere alle esigenze di denominazione del settore di attività cui si riferisce, che sono più estese e raffinate di quelle rappresentate, per quel settore, dalla lingua comune» (Cortelazzo 1990: 7). Esempi sono possesso e detenzione (ssdc 1996: 92); furto e rapina (ssdp 1998: 124-125); ingiuria e dif-Page 16famazione (ndg 1998: 645 e 416); danneggiamento e deturpamento e imbrattamento (ssdp 1998: 127-128); domanda, citazione e ricorso (ndg 1998: 458); luogo pubblico, luogo aperto al pubblico e luogo esposto al pubblico (ndg 1998: 742). Per quanto attiene allo spagnolo, non sono sinonimi nella lingua giuridica, i seguenti termini: astucia, fraude e disfraz (dej 1999: 94); estafa, hurto e robo (dej 1999: 896), oppure desacato, calumnia, insulto e injuria (dej 1999: 336), o, ancora, reo, delincuente, imputado, encartado, condenado e sentenciado (dej 1999: 286-7).

  5. Termini giuridici conosciuti approssimativamente dal vasto pubblico per la loro accezione giuridica: è questo il caso dell’uso improprio nella lingua comune dei termini compromesso o legittima (Lazzaro 1981: 171-172), i quali comunemente vengono usati con un significato distorto rispetto al significato che hanno nell’ambito giuridico. Ad esempio, nell’uso quotidiano dei rapporti giuridici, il termine compromesso si riferisce a «un contratto preliminare, spec. di compravendita» (nvili 1987: 687), mentre, nell’ambito giuridico, fa normalmente riferimento all’atto con cui «le parti si impegnano a far decidere da arbitri le controversie tra loro insorte, rinunziando a ricorrere all’autorità giudiziaria» (ndg 1998: 274). Osservazioni simili possono essere avanzate per un termine come delega, usato nella lingua comune per indicare l’«atto con cui si conferisce a un’altra persona la capacità di agire in vece propria» (Zingarelli 1988: 520), quando, in realtà, la definizione data corrisponde, nell’ambito giuridico, al termine procura (ndg 1998: 949-950, voce procura).

  6. Termini della lingua comune che nell’ambito giuridico acquistano un’accezione specifica e più ristretta rispetto a quella nell’uso comune. Il significato assai generico di «accensioni ed esplosioni pericolose» nella lingua corrente lascia spazio, invece, nell’ambito penale, ad un’accezione ben precisa e più ristretta dell’accezione comune: corrisponde a una contravvenzione commessa da chi «senza licenza dell’autorità, in un luogo abitato o nelle sue adiacenze, o lungo una pubblica via o in direzione di essa spara armi da fuoco, accende fuochi d’artificio o, in genere, fa accensioni o esplosioni pericolose» (ndg 1998: 19).

    Per quanto concerne lo spagnolo, un’espressione come malos tratos, che nella lingua comune si riferisce a «acción y efecto de proceder mal con una persona, de obra o de palabra» (dej 1999: 591), nel ramo penale ha un’accezione tecnica-giuridica ristretta. Con questo termine, infatti, vengono individuati «aquellos que no producen un re-Page 17sultado lesivo (ni siquiera una lesión que no ‘impida al ofendido dedicarse a sus trabajos habituales, ni exijan asistencia facultativa’») (1999: 591); inoltre, perché le azioni possano essere qualificate come malos tratos l’azione lesiva si deve configurare come abituale (1999: 591).

  7. Termini giuridici che hanno un significato tecnico più vasto dell’accezione dello stesso termine nella lingua comune. Come esempio si può portare il termine alimenti che, nella sua applicazione giuridica, include tutti i mezzi di sussistenza, quindi anche il vestiario, l’educazione, l’alloggio; mentre nella sua accezione comune indica solo il cibo (1981: 172). Anche il sintagma bene immobile ha nell’uso comune un significato più limitato rispetto a quello posseduto in ambito giuridico. Infatti, nella lingua comune, vengono denominati in questo modo solamente i terreni e le case, mentre nella giuridica, indica «i beni che non possono essere spostati normalmente da un luogo all’altro senza che ne resti alterata la struttura e la destinazione. Si tratta del suolo e ciò che vi è artificialmente o naturalmente incorporato (es. alberi, edifici)» (ssdc 1996: 70). Tuttavia, nella definizione di bene immobile vengono anche inclusi in questa categoria «particolari beni mobili, in considerazione della loro rilevanza […] sono i c.d. ‘beni mobili registrati’ (navi, aeromobili, autoveicoli)» (ssdc 1996: 70). Anche in spagnolo il termine invalidez nell’accezione comune indica la perdita di un arto o il malfunzionamento di questo (gdle 1991: 1159), mentre, nella lingua giuridica, sta a significare «en relación al sujeto trabajador, la calificación de las diversas situaciones o estados de salud en que éste puede hallarse de la que se derivan determinados derechos asistenciales y económicos» (dje 1999: 535).

2. Vi è nell’uso della lingua giuridica da parte di alcuni professionisti del diritto l’intento e la consapevolezza di voler trasformare la lingua giuridica in gergo? Alcune opinioni di giuristi e linguisti

Il nocciolo della questione risiede nella convinzione sia di alcuni linguisti sia di alcuni giuristi che, in realtà, la lingua giuridica non sia oscura e di difficile comprensione per via della sua complessità di contenuti tecnici, ma a causa delle complicazioni linguistiche consapevolmente volute dagli addetti ai lavori. I motivi di tale comportamento sarebbero da ricercarsi essenzialmente in due fattori:

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a) La lingua giuridica come strumento di prestigio

La principale critica mossa alla lingua giuridica ha carattere sociale: Quadrio Assunto afferma che la lingua giuridica costituisce un ostacolo alla comunicazione sociale, dal momento che mostra dei segnali di chiusura verso l’esterno e tende a «rappresentare manifestazioni di isolamento aristocratico» (1993: 12). Lo stesso concetto viene ripreso da Gotti, il quale percepisce nell’oscurità e nell’imprecisione della lingua giuridica la «volontà degli avvocati e dei giuristi di […] conservare il loro potere nei confronti dei comuni cittadini, potere derivante dalla loro esclusiva capacità di decodificare anche i significati più remoti del linguaggio utilizzato nelle leggi e nei procedimenti giuridici» (1991: 32).

Anche O’Barr (1981: 393) —il quale indaga sull’atteggiamento conservatore di una parte degli esperti di diritto— sostiene che la lingua giuridica è più preoccupata a difendere gli interessi in gioco che a far comprendere il proprio messaggio. A questo riguardo, De Mauro osserva che sul piano linguistico viene fatto uso di frasi lunghe e contorte, piene di rinvii. La conseguenza è che tali frasi sono aperte alle più svariate interpretazioni giuridiche e, quindi, ogni parte può trovarvi argomenti a proprio favore (De Mauro 1993, citato da pcm 1993: 19).

Per l’ambito spagnolo, anche Manuel Seco, illustre linguista e lessicografo, enuclea anche un’altra potenziale ragione per questa mancanza di chiarezza della lingua giuridica. Lo studioso è, infatti, convinto che chi rende la lingua giuridica (soprattutto quella burocratico-amministrativa) illeggibile non desidera, in realtà, individuare chiaramente gli interessi da tutelare, cosicché viene lasciato ampio spazio a diverse interpretazioni. Infatti, la nebulosità della lingua giuridica «tiene la ventaja para los gobernantes de ocultar cualquier solución unívoca» (Beaumont 1990: 6).

Tale è anche la convinzione di Renato Samek Ludovici, presidente della Corte d’Assise di Milano, il quale non manca di ricordare che l’uso smodato di tecnicismi copre «una non chiarezza di idee» (1993: 146); opinione riecheggiata da Ainis il quale sostiene come «tale atteggiamento mascheri un desolante vuoto concettuale» (1997: 189).

Mellinkoff illustra un altro motivo che spiega questo rifiuto a voler semplificare la lingua giuridica. L’autore afferma che il potere della parola, ovvero quello derivante dal saper decodificare i testi giuridici è, sostanzialmente, un potere di controllo sulla società (1963: 101). Infatti, i giuristi traggono benefici pecuniari prima, per redigere documenti in perfetto burocratese, incomprensibile ai più, e poi per interpretare gli stessi documenti che il comune cittadino non riesce a capire da solo (O’Barr 1981: 400).

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Per Ainis, infine, l’oscurità della lingua giuridica «costituisce spesso un espediente per imprimere soggezione all’interlocutore, per impressionarlo e ridurre al contempo la possibilità di critica» (1997: 189).

b) Il gusto per l’aulico della lingua giuridica

E’ un tratto tipico della lingua giuridica quello di cercare di elevare il registro della prosa con eccessi che rasentano, soprattutto nella lingua amministrativo-burocratica, il registro aulico. Alle parole comuni si preferiscono quelle pompose, erudite e, persino, quelle letterarie che sembrano rendere nobile il discorso giuridico. L’uso di termini o di formule ricercate sembra dare un tocco di classe al messaggio giuridico e fa sì che la lingua giuridica mantenga quello status di lingua di prestigio che le si attribuisce. Alcuni esempi di termini dotti in uso nella lingua giuridica italiana: pervenire, al posto di arrivare; espletare, al posto di fare; istanza, al posto di domanda, si consuma invece di succede, gli esami del sangue diventano accertamenti ematologici, i regali e le elargizioni diventano donativi.

Anche Prieto de Pedro (1991: 164) riporta i seguenti esempi per la lingua giuridica spagnola: constituye al posto di es; contemplar al posto di tener en cuenta; expira al posto di termina; conferir/otorgar al posto di dar.

Questa falsa dignità letteraria, questa affettata ampollosità è una forma di traduzione per rialzo di registro nel passaggio dalla lingua comune alla lingua giuridica. Si prendano in esame ad esempio questi brani tratti da testi di dottrina:

E’ ravvisabile l’ipotesi di omicidio colposo quando, dopo tale rottura [del sacco amniotico] il feto perde la vita per imprudenza, negligenza o imperizia di chi assista al parto, anche se la fase esplosiva (cors. agg.) non sia ancora terminata

(Beltrani et al. 1996: 1511).

Nell’ipotesi di offesa al pudore dovuta a mancanza di doverose cautele, a nostro parere deve sempre ravvisarsi la forma colposa, come nel caso, presentatosi al giudizio della Cassazione […], dell’individuo che appena compiuto il coito, si era mostrato in pubblico coi calzoni ancora del tutto sbottonati in compagnia della donna con cui si era giaciuto (cors. agg.)

(Antolisei 1999: 527).

Accanto alla figura della prostituta si ha così quella del lenone […], un tipo particolare di prosseneta […]

(Antolisei 1999: 534).

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Le modalità di svolgimento di tali accertamenti e la consequenzialità tra essi e il provvedimento sono (cors. agg.) soggetti alla verifica di ragionevolezza, ma tale verifica […] impinge (cors. agg.) sulla correttezza dell’accertamento del presupposto di fatto […]

(Mazzarolli et al. 2001: 1349).

[...] la conferenza prodromica (cors. agg.) alla realizzazione di opere pubbliche [...]

(Mazzarrolli et al. 2001: 1376).

[...] lo sfregio permanente consiste, in qualsiasi nocumento (cors. agg.) della regolarità del viso che pur senza determinare un ripugnante sfiguramento (sic!) del volto (cors. agg.) valga ad integrare una notevole modifica del sembiante (cors. agg.) e, quindi, un sensibile turbamento dell’armonia dei lineamenti

(Beltrani et al. 1996: 1550).

3. Ma sarà proprio vero che la lingua giuridica risulta essere chiara per i professionisti del diritto?

La lingua del diritto è una lingua tecnica e, quindi, complessa poiché risponde a determinate esigenze professionali, quelle di comunicazione tra esperti. Tuttavia, essa è considerata oscura dagli stessi professionisti del diritto soprattutto perché contenuti semplici sono espressi in modo immotivatamente complesso. Pertanto non si attribuisce la colpa dell’incomprensibilità della lingua giuridica tanto alla sua dimensione tecnica, quanto al fatto che la lingua giuridica si adagia nella complessità espressiva quando potrebbe evitare le complicazioni linguistiche inutili.

Sono gli stessi operatori del diritto quali Prieto de Pedro (1991: 133) che, proprio per affermare il carattere tecnico della lingua giuridica, si prodigano per denunciarne le lacune e avanzare delle proposte di miglioramento. Vi sono molti elementi tipici della lingua giuridica che potrebbero essere eliminati. Tra questi osserviamo:

A. Le abbreviazioni: Nella lingua giuridica e nei testi giuridici vengono impiegate profusamente, specialmente nei testi di carattere tecnico diretti a una cerchia ristretta di destinatari con un bagaglio di conoscenze altamente specializzato. Tuttavia, l’uso di abbreviazioni è sconsigliato nei testi giuridici (Prieto de Pedro 1991: 157) e, soprattutto, in quei testi i cui contenuti devono essere chiari e trasparenti per tutti i cittadini poichè li riguardano in prima persona.

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B. I tecnicismi collaterali: Prieto de Pedro fa un’importante annotazione, affermando che l’estensore di testi giuridici tende a considerare inadeguate, per la lingua giuridica, le accezioni più comuni delle parole: egli spesso attribuisce ai termini giuridici non le accezioni principali, ma quelle marginali. In questi casi, la lingua giuridica diventa solo apparentemente tecnica: in realtà, è fatta di termini immotivatamente ampollosi e, per questo, incomprensibili (1991: 164 e 166).

Un esempio di questo fenomeno è costituito dai tecnicismi collaterali: secondo la definizione che ne dà Cortelazzo, essi sono «particolari espressioni stereotipiche, non necessarie, a rigore, alle esigenze della denotatività scientifica, ma preferite per la loro connotazione tecnica» (1988: 248). L’autore riconosce che i tecnicismi collaterali non importano nulla di nuovo, specialmente nella lingua giuridica, che spesso diventa immotivatamente complessa e enigmatica. Dardano (1994: 366) fornisce alcuni esempi di tecnicismi collaterali della lingua giuridica italiana: consacrare un atto, produrre un testimone, prestare il consenso. I tecnicismi collaterali della lingua giuridica spagnola invece sono: interponer un recurso; expedir un decreto; perpetrar un crimen (Álvarez 1995: 50).

C. Le perifrasi: si è notato che le perifrasi rispondono a quel tratto tipico della lingua giuridica che è la verbosità: esse vengono utilizzate per rendere più solenne l’espressione ed elevarne il registro, come se l’utilizzo di giri di parole, invece della singola parola, non svilisse il discorso giuridico. Anche le attenuazioni eufemistiche possono essere considerate un tipo di perifrasi. Beccaria (1973: 27) fa notare che, sia le perifrasi, sia gli eufemismi, si sono imposti nella lingua giuridica, poiché rappresentano, in un discorso ufficiale come quello giuridico, un lessico reticente e prudente nell’esprimersi, un lessico accorto nel mantenere le distanze tra gli interlocutori e che, nelle parole del linguista, favorisce un certo straniamento. Inoltre, come rileva Ainis (1997: 15-16), questi eccessi di decoro stilistico non solo rendono il discorso del legislatore più difficile da capire, ma lo rendono anche particolarmente prolisso, dovendo impiegare più parole per indicare un concetto esprimibile con una parola sola. Si consideri i seguenti testi giuridici tratti dalla dottrina:

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[…] decidere di omettere l’intrapresa della marcia [rifiutarsi di partire]

(Beltrani et al. 1996: 75).

Lo sciatore che si trovi a monte, nello spostarsi sulle piste, data la sua posizione dominante con possibilità di visione del luogo sottostante, deve regolare la propria condotta in modo da evitare interferenze del proprio movimento con la traiettoria [comportarsi in modo da evitare di scontrarsi] dello sciatore che si trovi a valle

(Beltrani et al. 1996: 76).

D. Gli eufemismi: L’eufemismo risponde a una concezione sacrale del potere della parola. La lingua giuridica, così ossequiosa e tradizionalista, si allinea sulle stesse posizioni della lingua naturale, sostituendo parole troppo esplicite, e che hanno un referente sgradevole, con parole benauguranti ed inoffensive. Con l’eufemismo avviene uno spostamento semantico delle parole in senso nobilitante e positivo, una «lucidatura che sembrerebbe aggiungere rispetto verbale alla parola» (Beccaria 1992: 183), specialmente in una lingua settoriale, formale ed impersonale come quella giuridica (Calvo Ramos 1980: 87; Ortega Arjonilla, e altri 1996: 30).

Per quanto concerne lo specifico settore giuridico, si debbono contare anche le acrobazie verbali che mirano a nascondere situazioni negative o mal viste dai cittadini quali, ad esempio, il rialzo dei prezzi, l’aumento delle tasse o certi tagli (di finanziamenti o di dipendenti) operati nei settori socialmente importanti (sanità, previdenza sociale, istruzione, ecc.). A questo proposito Beccaria (1973: 28) ribadisce che l’eufemismo è il prodotto della prudenza verbale tipica di chi vuole parlare in modo allusivo, indiretto e non esplicito, perché, in fondo, «le entrate contratte ci danno una consolazione verbale che le entrate diminuite ci negherebbero» (1973: 29).

Nella lingua giuridica, per evitare molti termini che indicano condizioni spiacevoli, si usano eufemismi creati utilizzando la modalizzazione negativa dei termini, ovvero la negazione di un termine positivo, invece di impiegare direttamente il termine messo a disposizione dalla lingua (ad esempio, in italiano, non vedente, al posto di cieco; in spagnolo, comarcas económicamente no desarrolladas, al posto di comarcas pobres). In questo caso, il linguaggio dell’atte-Page 23nuazione si concretizza attraverso una litote perifrastica, sfruttata per eliminare parole-tabù. Si considerino i seguenti esempi:

[...] nudità invereconde [...]

(Antolisei 1999: 527).

[...] congiunzione carnale abusiva [...]

(Beltrani et al. 1996: 78).

E. Termini vaghi ed ambigui: i termini di uso non esclusivamente giuridico lasciano un ampio margine di incertezza per quanto riguarda la possibilità di usarli (ossia sono termini vaghi) e hanno usi (significati) anche molto diversi (sono termini ambigui). Una delle peculiarità del lessico giuridico è la presenza e l’uso di termini astratti che rappresentano concetti di valore: sono termini codificati dalla lingua giuridica che, però, implicano valutazioni di situazioni psicologiche (ad esempio, l’espressione buona fede),5 o la misurazione di concetti come diligenza (ad esempio, «diligenza del buon padre di famiglia»).6 Un esempio chiaro di questo tipo di termini è rinvenibile nella Costituzione italiana, ove l’uso di un’espressione come buon costume fa riferimento alla cosiddetta moralità media,7 concetto ambiguo e vago perché soggetto a situazioni variabili di tempo e di spazio. Un ulteriore esempio è: «[...] la pubblica decenza [...]» (Antolisei 1999: 563). Spesso questi termini hanno bisogno di ulteriori precisazioni e di contestualizzazione; tuttavia talora la spiegazione fornita dagli stessi esperti contribuisce a creare attorno al termine un alone di incertezza ancora maggiore. È questo il caso di «fare uso momentaneo della cosa» (cpp art. 314, 2 C.): la Corte di Cassazione interpellata sul significato di momentaneo ha fornito la seguente precisazione «uso momentaneo non significa istantaneo ma temporaneo ossi protratto per un tempo limitato» (Beltrani et al. 1996: 97).

Un termine spagnolo che assume un’accezione particolare nel settore giuridico è despoblado che non vuole dire solamente «lugar que no tiene población» (gdle 1991: 647), ma, nella sua accezione giuridica, «[...] constituye una circunstancia que agrava la responsa-Page 24bilidad toda vez que se fundamenta en la mayor facilidad comisiva del actor y al mismo tiempo en el menor riesgo de éste para ser identificado o aprehendido. Consiste el despoblado en parajes solitarios o distantes de núcleos urbanos o puntos urbanos […]» (dej 1999: 346). Nonostante un termine come despoblado possieda la sua specifica accezione giuridica, rimane pur sempre un termine vago e poco referenziale. Infatti, stabilito che, per il diritto, il termine costituisce un’aggravante, in quanto il reo approfitta di determinate circostanze di luogo a lui favorevoli per perpetrare il reato (Mantovani 1992: 407-408), non sono fissati dei parametri rigorosi (in questo caso, i chilometri) atti a indicare in modo inequivocabile a che distanza dai centri abitati deve trovarsi un luogo per poter essere qualificato come despoblado. La necessità di una valutazione personale e non scientifica di tali parametri ingenera ambiguità nell’applicazione di tale termine alle fattispecie concrete, e lascia spazio, perciò, a diverse argomentazioni.

Si considerino anche i seguenti esempi: «pubblicazioni a contenuto impressionante o raccapricciante» (Antolisei 1999: 530), e «lasso di tempo apprezzabile» (Beltrani et al. 1996: 1527), ove «impressionante», «raccapricciante» e «apprezzabile» sono soggetti a giudizi di valore non quantificabili oggettivamente.

4. I professionisti del diritto hanno una consapevolezza linguistica?

Nonostante la vita sociale abbia legato intimamente il diritto alla sua realizzazione linguistica e, poi, alla sua realizzazione scritta, il rapporto tra lingua e diritto —al contrario di quanto possa sembrare— non è affatto scontato. In realtà, il discorso sulla relazione tra lingua e diritto è un terreno alquanto scivoloso, argomento spesso oggetto di contrasti tra linguisti e giuristi, nonché tra gli stessi operatori del diritto. Negli studi consultati sul tema, si è riscontrato una sorta di campanilismo per il proprio ambito di studio; infatti, per i linguisti, il diritto non esiste senza la lingua; mentre, per i giuristi, è più difficile che si sostenga la tesi che è la lingua a creare il diritto: per questi ultimi, il diritto, infatti, preesiste alla sua esplicitazione linguistica.

Tra i linguisti, Michele Cortelazzo ricorda che «il primo interesse del linguista per il diritto risiede nel fatto che il diritto non si serve della lingua, ma è fatto di lingua […] un fatto della realtà extralinguistica, che possa ave-Page 25re la forma di un reato, ha bisogno, per divenire di pertinenza del diritto, di essere narrato (per esempio, dalle testimonianze) o descritto (per esempio, dalle perizie) altrimenti resta un fatto della realtà extra-giudiziaria» (1997: 39). Danet espone le stesse convinzioni, ma in modo ancor più radicale: «in a most basic sense, law would not exist without language» (1985: 273).

Liaño, pur essendo un giurista, afferma che «[…] en realidad, el Derecho, es decir, el ordenamiento jurídico, es un conjunto de proposiciones lingüísticas, y que no es nada más que eso […] la única forma de manifestación del Derecho es la lingüística» (1996: 11). Infine, anche un giurista come Irti, parlando della scienza giuridica, fa notare che «il campo del giurista si restringe ad un complesso di fenomeni linguistici: egli non osserva fatti, ma parole» (1984: 167). In questo modo, il giurista coglie così la netta separazione tra il discorso del naturalista (ad esempio, del matematico) e quello del giurista: «il discorso del naturalista è un discorso su fatti: fatti, designati da simboli che sono opera della scienza. Il discorso del giurista è un discorso su parole: la parola è l’oggetto stesso della scienza». Il giurista italiano, inoltre, conclude affermando che «nelle scienze della natura, oggetto e proposizione sull’oggetto sono eterogenei; mentre, nella scienza del diritto, oggetto e proposizioni sull’oggetto sono omogenei: l’uno e l’altro appartengono al linguaggio umano» (1984: 167).

Sul versante opposto si deve registrare l’opinione del comparatista Rodolfo Sacco, il quale asserisce: «[…] il diritto non ha bisogno della parola. Il diritto preesiste alla parola articolata […]. Ovviamente la scienza del diritto nasce dopo che l’uomo si è impadronito bene della parola, e si è avvezzato ad adoperarla con grande perizia. Ma il divenire di questa scienza è una continua rincorsa, operata dal giurista, nei confronti di tutti i dati non (ancora) espressi, non (ancora) verbalizzati, non (ancora) consapevoli» (1992: 14). Anche il giurista Rodolfo De Stefano sostiene che, solo nelle fasi più avanzate della civiltà, i comportamenti sociali sono riconosciuti per iscritto dal legislatore, ma che la forma primordiale del diritto è la prassi sociale (1990: 203).

Nonostante le diverse posizioni riguardanti il rapporto lingua-diritto, la lingua riveste indubbiamente un’importanza strategica per il diritto; non a caso l’interpretazione della legge nella sua formulazione linguistica rappresenta il momento culminante dell’esperienza giuridica. Il giudice agisce sempre a partire da elementi linguistici, nonostante egli non sia un soggetto passivo nell’applicare la legge: l’interprete, infatti, è creatore del diritto. Questo suo creare, però, non consiste affatto nell’inventare qualcosa di totalmente nuovo, bensì nel «rimodellare e sviluppare qualcosa di preesistente» (Scarpelli 1969: 997), inserendo le innovazioni interpretative all’interno di una struttura linguistica data.

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Proprio a partire dalla lingua, inoltre, Scarpelli riafferma con decisione la posizione centrale della lingua per lo studioso del diritto: «evitare le questioni semantiche il giurista non può: le operazioni da lui compiute riguardano il linguaggio ed hanno come strumento il linguaggio, ed a ogni passo egli deve determinare e foggiare significati, riconoscere, costruire o ricostruire relazioni semantiche, e sintattiche e pragmatiche. Se c’è un’attività che richieda una consapevolezza linguistica, questa è l’attività dei giuristi» (1969: 994).

Anche Pugliatti (1978: 74) sostiene: «[…] proprio nella fase giudiziaria il diritto mostra il suo più stretto legame colla lingua. L’attività di tutti i soggetti partecipanti al processo —le parti, il giudice, i suoi ausiliari, i testi— si servono dello strumento linguistico. In parole si formulano le domande, le eccezioni, gli argomenti di difesa; le dichiarazioni testimoniali; i giudizi peritali; il giuramento deve essere prestato su di una ‘formula’ verbale predeterminata; in parole si esprime la sentenza del giudice.»

Ciononostante, mai come nel mondo giuridico, l’aspetto linguistico è stato tanto trascurato, tant’è che gli stessi specialisti del settore riconoscono questa completa noncuranza. Ad esempio, David Mellinkoff afferma che «the subject of “language” is absent from most law indexes and only in capsule form in the rest» (Mellinkoff 1963, citato da O’Barr 1981: 389). Sono gli stessi giurisperiti che spesso ne denunciano le carenze; ad esempio, Mellinkoff (1963: 25) lancia dure accuse contro la lingua giuridica: «The language of the law is often unclear-plain muddy. This is not to say that the language is devoid of meaning. Simply that if there is any meaning, it is hard to find. It is puzzling not merely to the untutored non-lawyer. Puzzlement extends to bar and bench».

All’interno dei corsi accademici delle facoltà di giurisprudenza l’interesse nei riguardi della lingua giuridica considerata nei suoi livelli linguistici non è concretizzato in specifici piani di studio. Una proposta in questo settore potrebbe essere proprio quella di introdurre a livello universitario corsi di linguistica giuridica per educare i futuri professionisti del diritto a porre particolare attenzione alla formulazione linguistica dei testi giuridici. E’ da segnalare, comunque, che nei corsi universitari di vari paesi sono state introdotte raccomandazioni per la redazione delle norme giuridiche. Tale tecnica detta legal drafting, si avvale «di principi di linguistica giuridica e di semiotica giuridica» (Cassese 1992: 321).8

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L’obiettivo era ed è tutt’oggi rimasto quello di sensibilizzare il settore giuridico all’aspetto linguistico, nonché, laddove possibile, alla semplificazione comunicativa. In passato vi sono state importanti iniziative in questo senso in tutti i principali paesi europei, in Spagna prima, e in Italia poi. In Spagna, la pubblicazione del Manual de estilo del lenguaje administrativo è servita ad «hacer “inteligible” y “democrático” el lenguaje con el que se establece la comunicación de los ciudadanos con los distintos organismos del Estado […] se pretende con ello acercar sus contenidos semánticos al nivel cultural medio de la población» (Beaumont 1990: 6-7). In Italia, il Dipartimento per la funzione pubblica— ispirandosi al Manuale spagnolo— ha stampato prima un Codice di Stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche (pcm 1993), e poi un Manuale di Stile (1997).

5. Riflessi sulla lingua giuridica di tre principi fondamentali del diritto

Vi sono dei principi generali nel diritto nonché delle disposizioni costituzionali che hanno delle implicazioni dirette sulla lingua giuridica e, quindi, sui suoi tratti linguistici. Il primo principio costituzionale è il principio dello Stato democratico. Secondo tale principio, espresso sia nella Costituzione spagnola, all’art. 1, 2, sia nella Costituzione italiana allo stesso articolo, il popolo figura come il detentore del potere legislativo attraverso il Parlamento, organo di democrazia rappresentativa. Per queste ragioni il legislatore ha il dovere di formulare le leggi in modo chiaro, o, come dice Prieto de Pedro, «en el lenguaje del pueblo» (1991: 146), cosicché esse possano essere comprese da tutti. Pertanto, è la stessa Costituzione a garantire che, in base al principio democratico, la lingua giuridica sia una lingua pubblica e civile, una lingua di tutti e che, a qualunque cittadino, sia assicurata una comunicazione all’altezza dei suoi mezzi linguistici.

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Tale principio tuttavia sembra scontrarsi con un secondo principio, quello della certezza del diritto, esplicitamente previsto dall’art. 9, 3 della Costituzione spagnola («la Constitución garantiza […] la seguridad jurídica […]»). Il principio della certezza del diritto consiste nella possibilità di conoscere a priori la valutazione concreta operata dal diritto positivo, ovvero dalle leggi, con riferimento alle azioni e situazioni compiute. Tale principio pertanto si concreta soprattutto nella tecnicità del diritto, nella sua precisione semantica (Prieto de Pedro 1991: 147). Conseguentemente il principio della certezza del diritto legittima la dimensione tecnica della lingua giuridica.

La precisione tecnica della lingua giuridica e la necessità di avere una lingua giuridica chiara a tutti appaiono come due elementi inconciliabili tra loro. A saldare assieme i due principi, troviamo un terzo principio, quello della legalità, secondo il quale alla legge sono soggetti non solo i semplici cittadini, ma anche i pubblici poteri (lo stesso legislatore, i giudici, ecc.). Questo non vuol dire che la lingua giuridica sia compresa da tutti allo stesso modo, ovvero che per tutti sia ugualmente difficile (o facile) da capire; al contrario, questo significa che vengano eliminate tutte le complicazioni linguistiche immotivate, e che la lingua giuridica si adegui al destinatario, allo scopo e al contesto del messaggio giuridico.

6. Conclusioni

Nonostante le ragioni addotte dalle due opposte scuole di pensiero, non esiste un’unica risposta alla questione se sia meglio adottare una lingua giuridica chiara e priva di tecnicismi, oppure una lingua giuridica meno accessibile al grande pubblico, ma più tecnica.

Come aveva capito Scarpelli, «soluzioni diverse possono risultare opportune in situazioni diverse» (1969: 996): talora apparirà più adeguato usare una lingua moderatamente tecnica che si sposi «con un buon grado di intelligibilità del diritto e delle operazioni giuridiche da parte di ogni cittadino» (1969: 996), senza con ciò togliere alla lingua giuridica la possibilità di specializzarsi in determinati contesti.

Da quanto detto risulta evidente che la lingua giuridica e, conseguentemente, i testi che la utilizzano non sono mai chiari in assoluto, in quanto devono essere valutati e posti in relazione ai destinatari (il destinatario del testo giuridico è il semplice cittadino o un pubblico specializzato?), ai contenuti da trasmettere e agli scopi che si prefiggono (De Mauro 1991, citato da pcm 1993: 27).

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Per chiarire maggiormente questo punto, bisogna tenere presente che, a partire dal contesto comunicativo, un testo giuridico si basa essenzialmente su due diadi di partecipanti (Maley 1987: 32-33): da un lato, il blocco formato dal potere legislativo-cittadini, dall’altro, il blocco composto dagli estensori delle leggi (il legislatore)-interpreti della legge (gli avvocati, i giuristi, nonché gli studiosi della dottrina). Prima di parlare di lingua oscura è necessario considerare in rapporto a chi essa si pone. Infatti —come afferma Maley (1987: 32-33)— la distanza comunicativa che si frappone tra i due partecipanti del primo blocco e quella fra i due partecipanti del secondo blocco è diversa. Nel primo caso è massima, mentre nel secondo è una relazione tra specialisti con specifiche competenze, i quali condividono un bagaglio di conoscenze comuni (concetti giuridici e terminologia).

Considerando la questione da un altro punto di vista, la scelta di adeguare la lingua giuridica alla situazione comunicativa e al destinatario è soprattutto un problema di natura politica, poiché —come Prieto de Pedro (1991: 104) mette in luce— è legata a importanti conseguenze.

La prima conseguenza è che una lingua giuridica (e quindi dei testi giuridici) scadente dal punto di vista linguistico ha degli effetti pratici sul sistema giuridico. Per capire come l’aspetto linguistico sia fondamentale Ainis ricorda (1997: x) che, nel 1988, la Corte costituzionale italiana, sensibile al problema del caotico susseguirsi di norme mal scritte e, perciò, mal applicate dagli organi della giustizia, ha «sancito la resa dello Stato, rinunziando a pretendere il rispetto del principio sul quale riposa l’autorità di ogni ordinamento giuridico di questo mondo: ignorantia iuris non excusat». Ainis continua: «Viceversa l’ignoranza della diritto “scusa”, ha dovuto ammettere la Corte: o perlomeno costituisce un’esimente quando il fatto illecito sia previsto da norme tanto intricate da non lasciarsi decifrare.» (1997: x)

La seconda conseguenza è che la lingua dei testi normativi scritti in maniera sgrammaticata ed enigmatica hanno delle ripercussioni sulla lingua della giurisprudenza e della dottrina, ossia su tutti quei testi che applicano o interpretano le leggi. Infatti, la qualità linguistica dei testi normativi viene presa a modello dalle fonti del diritto gerarchicamente inferiori alle leggi. Ad esempio, «i burocrati tendono a duplicare, riscrivendoli esattamente, interi passaggi, frasi o tecnicismi contenuti nelle leggi» (pcm 1993: 20).

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[1] Tutt’oggi Dardano afferma che «la maggior parte del pubblico considera “alte” quelle due varietà [tecnica e scientifica] che sono soltanto specialistiche» (1996a: 18).

[2] L’erronea convinzione che la lingua giuridica possa essere definita un gergo è presente anche tra gli studiosi del diritto: Pugliatti, ad esempio, afferma: «La lingua del diritto, piegata ad esigenze particolari, presenta sue peculiarità, specialmente lessicali, per cui acquista […] il carattere di un gergo […]» (1978: 74).

[3] Parlando della lingua del diritto, Carrió 1965, citato da Pugliatti, afferma che «non si tratta di una lingua formalizzata, come quella matematica, e cioè una lingua artificiale, bensì della lingua naturale col suo retaggio di alternative strutturali (indeterminatezza, ambiguità, polisemia) o funzionali (momento emotivo o suggestivo; orientamento descrittivo o prescrittivo), che rendono difficile l’interpretazione, specialmente fuori di un contesto determinato» (1978: 74).

[4] Più che definire la lingua giuridica come una lingua tecnica (infatti, i termini esclusivamente giuridici e, quindi, tecnici sono un numero molto ristretto), si può parlare di «usi tecnici di termini appartenenti […] al linguaggio ordinario» (Tarello 1980, citato in Belvedere 1994: 405).

[5] Vedi ndg (1998: 183, voce buona fede).

[6] Vedi ndg (1998: 183, voce buon padre di famiglia).

[7] Vedi ndg (1998: 182-183, voce buon costume).

[8] Ad esempio la tecnica di redazione delle norme «si interessa del carattere imperativo della norma, pur scritta con l’indicativo grammaticale. Cerca di limitare il linguaggio oscuro del diritto […] Cerca di dare un significato preciso agli enunciati, adoperando un vocabolario tecnico. Esamina comparativamente la logica e il linguaggio giuridico, ecc.» (Cassese 1992: 321). Tuttavia, Cassese constata che la commistione tra norma giuridica ed espressione linguistica ha portato la linguistica giuridica a ridurre la scienza della legislazione a mera tecnica di redazione delle norme. Cassese aggiunge anche che non basta solo prendere in considerazione l’unità, la completezza, la coerenza e la coesione del testo (1992: 322), occorre anche che la comunicazione sia considerata nel sistema degli enunciati, in particolar modo nel contesto. Il legal drafting non può, infine, prescindere dai criteri di presentazione delle norme, ovvero dalle canoniche divisioni delle leggi in «libri, titoli, capitoli, parti, sezioni, articoli, paragrafi» (1992: 325), poiché l’autore afferma che la stessa presentazione del testo è funzionale al contenuto. Sulla semiotica giuridica si consulti anche egd (1993: 1094-1095).

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