La condizione giuridica della donna tra Medio Evo ed Età Moderna: qualche riflessione

AutorGiovanni Minnucci
Páginas997-1008

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  1. «Da alcuni anni ormai la storiografia va soffermando il suo sguardo sulla condizione giuridica della donna nell’età medievale studiandone i vari aspetti, e cogliendo gli elementi caratterizzanti il suo status. Anche la storiografia giuridica canonistica, pur affermando che "il n’est pas facile de parler du statut dont bénéfice la femme dans le droit canonique médiéval", ha tentato una migliore definizione dello status mulieris, sia alla luce delle norme vigenti nell’età di mezzo, sia attraverso lo studio del pensiero giuridico che, quelle norme, cercava di interpretare»1. Era questa l’affermazione con la quale, vent’anni or sono, davo avvio ad una serie di studi sulla condizione giuridica della donna, ai cui risultati2si ispira, almeno in parte, questo scritto.

    Quelle indagini avevano presso avvio, alcuni anni prima, grazie ad un lungo soggiorno di studio negli anni 1982-1983 presso l’Institute of Medieval Canon Law della University of California, Berkeley, diretto dal compianto Stephan

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    Kuttner: un ambiente ideale per la ricerca, non solo per la facilità di accedere a un numero cospicuo di fonti, ma anche per la possibilità di confrontarsi periodicamente con studiosi provenienti da numerosi Paesi del Vecchio e del Nuovo Continente. E fu proprio quel periodo di studio ad indurmi a dedicare le mie prime indagini alla condizione giuridica della donna, avendo particolare riferimento al suo status processuale, così come era stato disegnato nelle opere della dottrina canonistica classica, senza tralasciare, peraltro, il pensiero civilistico: un tema quasi completamente trascurato dalla storiografia sul quale solo un’indagine condotta esaminando una cospicua letteratura, in gran parte manoscritta, sarebbe stato possibile gettare nuova luce.

    Il diritto processuale, inoltre, costituisce, da sempre, il banco di prova per verificare la reale volontà dell’ordinamento di tutelare diritti e interessi dei consociati: in sede processualistica, infatti, si concretizzano le situazioni soggettive e oggettive che aprono le porte alla richiesta di tutela giurisdizionale dei diritti. L’età intermedia, caratterizzata da una pluralità di ordinamenti, conosce aperture e chiusure, distinzioni e diversità di trattamento giustificate e regolate nelle forme più diverse in considerazione dello stato soggettivo dei richiedenti la regolamentazione dei propri diritti e interessi attraverso l’intervento del giudice, e la condizione della donna, in ragione della peculiarità del suo status proprio dell’età medievale3, avrebbe potuto consentire non solo di approfondire l’elaborazione dottrinale sulla sua capacità di essere parte nell’ambito del processo, o di svolgere funzioni professionali quali quelle di giudice o di avvocato, ma anche di esaminare il pensiero dei giuristi in relazione agli istituti del processo romano-canonico.

    All’inizio della ricerca non ignoravo, infine, che uno studio esclusivamente dedicato al pensiero dei glossatori avrebbe potuto dare un’immagine solo parziale dello status processuale femminile nell’età medievale: sarebbe stato necessario, ad esempio, circoscrivendo l’indagine a una o più realtà territoriali4, gettare quanto meno uno sguardo alle fonti dello ius proprium5, ma soprattutto alle decisioni giudiziali6spesso colpevolmente trascurate dalla storiografia. La

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    consapevolezza che i due diritti universali non furono gli esclusivi regolatori di realtà sociali profondamente diverse, ma che al contempo, nel corso dei secoli, i principii e gli istituti elaborati dai giuristi, grandi interpreti dei due corpora iuris, verranno talvolta recepiti dai legislatori territoriali, generando così una sorta di osmosi fra diritti universali e diritti particolari, confermò la necessità di dare comunque avvio a quelle indagini proprio attraverso lo studio del pensiero di coloro che ebbero un ruolo fondamentale nella costruzione dell’edificio dello ius commune per passare, successivamente, qualora se ne fosse verificata l’opportunità, ad esaminare più in particolare le ulteriori fonti normative e documentali.

  2. La lettura del Decreto di Graziano, il testo autoritativo per eccellenza della canonistica classica, consente, in ragione delle fonti che vi sono conservate, un esame approfondito dello status processuale femminile nell’età intermedia: i passi tratti dalla Scrittura, dalle opere dei Padri della Chiesa, dal diritto romano-giustinianeo, uniti ad ulteriori fonti direttamente provenienti dell’autorità ecclesiastica costituiscono, infatti, la base sulla quale si svilupperà l’elaborazione della dottrina. La Causa XV q. III della Concordia grazianea può esser definita, a buon diritto, il luogo nel quale maggiori sono i passi relativi al nostro tema. L’incapacità muliebre di esercitare lo ius accusandi, ad eccezione di quei casi nei quali la donna sia soggetto passivo del reato7o intenda perseguire i rei di crimini particolarmente gravi ed infamanti8; la sua capacità di testimoniare, direttamente derivante dal diritto romano-giustinianeo9, alla quale si contrappone, vietandola, un altro passo del Decretum10; la capacità di esercitare la

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    funzione giudicante, direttamente derivante dalla Scrittura11, contraddetta da un’altra fonte del diritto romano-giustinianeo12, un diritto che vieta alle donne anche la capacità di rappresentare terzi in giudizio13, sono alcuni dei testi maggiormente significativi che testimoniano, comunque, la poliediricità delle fonti di riferimento del Decretum e la necessità che esse dovessero essere attentamente esaminate per essere successivamente concordate.

    Questo compito verrà assolto nel corso di circa un secolo dalla canonistica classica che si abbevererà non solo ai testi del Decretum e del diritto romano-giustinianeo, così come veniva interpretato dai contemporanei giuristi civilisti, ma anche alle nuove disposizioni legislative pontificie raccolte, dalla fine del XII secolo all’inizio del successivo, ed in gran parte racchiuse in quelle compilazioni che costituiranno il materiale fondamentale per la successiva elaborazione, da parte di Raimondo di Penyafort, del Liber Extra di Gregorio IX14.

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  3. La necessità di regolare la vita consociata e di individuare procedure atte a dirimere le controversie fra i soggetti, procedure che superassero le forme altomedievali15, traendo immediata ispirazione dalla Scrittura e, sotto il profilo più strettamente giuridico formale, dal diritto romano-giustinianeo, appare evidente sin dagli albori della Scuola della Glossa:

    Placitandi forma in paradiso primo videtur inventa, dum prothoplastus de inobedientiae crimine ibidem a domino interrogatus criminis relatione sive remotione usus culpam in coniugem removisse autumat dicens: «mulier, quam dedisti, dedit mihi et comedi»16. Deinde in veteri lege nobis tradita, dum Moyses in lege sua ait: «In ore duorum vel trium testium stabit omne verbum»17.

    Il Prologo della Summa decretorum di Paucapalea18, il più risalente fra i glossatori canonisti, è forse la prima riflessione, scritta intorno alla metà circa del XII secolo, relativa alle origini del processo19. La violazione del precetto

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    divino, da parte di Adamo ed Eva, avrebbe originato l’instaurarsi di un vero e proprio giudizio (placitandi forma) con l’interrogatorio degli imputati e la successiva sentenza; la disposizione, contenuta nel Deuteronomio, secondo la quale, per la condanna dei rei di omicidio o di qualsiasi altro delitto, occorre la testimonianza di almeno due o tre persone20, avrebbe completato lo schema processuale: l’ordo iudiciarius medioevale21, incardinato nelle figure del giudice, delle parti e dei testimoni, avrebbe perciò tratto la sua origine ed il suo fondamento nella stessa volontà divina22.

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    L’episodio tratto dal Libro della Genesi costituisce, in ogni caso, un primo esempio nel quale una donna, la prima donna, figura come parte all’interno di un processo: un fatto che, essendo direttamente testimoniato dalla Sacra Scrittura, non poteva essere ignorato, e che pertanto costringeva i giuristi ad affrontare il problema della condizione giuridica femminile nell’ambito processuale.

    La suddivisione tra processo civile e processo penale, e la successiva partizione fra processo secolare ed ecclesiastico, assente dalle fonti canoniche e frutto della loro elaborazione dottrinale, consente ai giuristi medievali di disegnare uno status processuale femminile differenziato in ragione delle diverse tipologie processuali: mentre nel processo civile, sia esso secolare od ecclesiastico, nessun divieto viene posto in capo alla donna che, in tal modo, può legittimamente esser parte, sia come attrice o convenuta, o esser chiamata in giudizio a testimoniare, nel processo penale i divieti si fanno assai più stringenti e rimarchevoli. L’accusatio criminalis, infatti, viene consentita solo in presenza di alcuni reati particolarmente gravi quali, ad esempio, la simonia, l’eresia, il sacrilegio, la lesa maestà, l’alto tradimento, la pubblica annona o allorquando la donna o i suoi congiunti, impossibilitati a formulare l’accusa, siano i soggetti passivi del reato. Contestualmente l’esercizio della testimonianza femminile, nell’ambito del processo penale, viene fortemente limitato, consentendolo unicamente per gli stessi crimina publica per i quali viene garantito l’esercizio dell’accusa: una limitazione che trova la sua ragion d’essere non solo in quei passi del Decreto che recisamente negavano il diritto delle donne di testimoniare, ma soprattutto sulla base del convincimento, derivante dalla tradizione classica e altomedievale, di una «naturale» mutevolezza del genere femminile: «Testes autem considerantur conditione, natura et vita... Natura, si vir, non femina. Nam varium et mutabile testimonium sempre femina producit» si legge nella I Compilatio antiqua (Comp. I 5.36.10 = X 5.40.10), dove si riproduce un passo delle Etimologiae di Isidoro da Siviglia (XVIII.XV.9), a sua volta...

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